venerdì 9 maggio 2008

Israele, la Sinistra e il Sionismo

Continua il dibattito sul sionismo

di Felice Besostri

Le manifestazioni contro Israele, come paese ospite della Fiera del Libro di Torino nel 60° anniversario della sua fondazione hanno riaperto un dibattito nella sinistra italiana e anche all'interno della nostra testata. Meglio detto, hanno riaperto una ferita, perché non c’è dibattito senza dialogo: su Israele e Palestina sono, invece, le occasioni d'incontro sono più scarse rispetto a quelle di scontro. E così ciascuno preferisce organizzare le proprie manifestazioni, i filo-palestinesi da una parte ed i filoisraeliani dall’altra. Ma questa divisione in campi contrapposti produce tre vittime: i palestinesi, gli israeliani e la sinistra.

Ne deriva una gran confusione, anche terminologica tra israeliani ed ebrei, tra sionismo e politica israeliana fino all’assurdo di scambiare per antisemitismo ogni critica al governo di Israele e per converso il sionismo per una sorta di nazionalismo fascista e razzista.

Soltanto il terrorismo fondamentalista islamico non fa distinzioni e, quindi, tanto le forze di occupazione israeliane, quanto le Sinagoghe in Turchia o un ente ebraico di assistenza e beneficenza in Argentina: tutti sono obiettivi "militari", posti sullo stesso piano.

Ma poi agli obiettivi militari veri, il terrorismo preferisce la popolazione civile in tutto il mondo come in Israele: i civili sono di gran lunga preferiti, perché più facili da raggiungere.

Lo stesso accade nella rappresaglie israeliane, perché la popolazione civile è naturalmente più esposta ed indifesa delle bande terroriste armate.

Nelle vicende del Medio-Oriente mi sono sempre attenuto alle richieste di due cari amici, purtroppo scomparsi da tempo Peretz Merchav (ebreo, israeliano, sionista e socialista) e Abdel Zwaiter (palestinese, poeta, comunista e rappresentante della OLP in Italia). Tutti e due dicevano che non avevano bisogno di alleati acritici e fanatici, ma di amici in grado di far da ponte tra israeliani e palestinesi con l’obiettivo prima della pace e poi della convivenza tra i due popoli. Questo ruolo lo assegnavano naturalmente alla sinistra perché antifascista ed antirazzista ed impegnata a fianco delle lotte di liberazione dei popoli e per la difesa dei diritti.
Non siamo stati all’altezza del compito se si aggrediscono nei cortei del 25 aprile, chi porta le bandiere della Jewish Brigade ed i reduci dai campi di concentramento, si bruciano le bandiere di Israele e si organizzano convegni nei quali la criticabilissima politica israeliana in Gaza e Cisgiordania, è qualificata come pulizia etnica, quasi che fossimo in Bosnia, in Cecenia o nel Darfur.
Per trasparenza, in un conflitto come quello israelo-palestinese, che taglia trasversalmente le coscienze, non si può essere osservatori esterni e, quindi, occorre enunciare il proprio punto di vista almeno sui punti essenziali.

I palestinesi hanno diritto ad una loro patria in forma di Stato ed Israele ha diritto di esistere in sicurezza. I diritti sono per loro natura indivisibili e, pertanto, quando si scontrano si può soltanto dividere la terra: quindi due popoli, due stati.

Partendo da ciò, siamo, peraltro, soltanto all’inizio della soluzione, possibile non certa, del problema israelo-palestinese, ma senza questo punto di partenza non c’è pace e soprattutto non c’è speranza.

La negazione della legittimità della esistenza di Israele conduce in un vicolo cieco e le prime vittime della mancanza di una speranza di soluzione sono la parte più debole, i palestinesi.

La situazione attuale è esemplificativa dell’impasse, con due porzioni della Palestina soggetta a due distinte autorità in lotta tra di loro ed i cui scontri hanno provocato altrettanti morti della repressione dell’Intifada.

La negazione dello Stato di Israele ha bisogno di negare il sionismo, come movimento fondatore dello Stato israeliano, con critiche che, in molti al di là delle intenzioni, sconfinano nell’antisemitismo antiebraico.

La negazione del diritto di un popolo di raccogliersi in uno stato nazionale, nel caso di Israele, diventa negazione degli ebrei, in quanto tali, di avere uno stato, parlo degli ebrei in quanto individui e, perciò, indipendentemente dal fatto che siano osservanti o meno della Torah, che siano religiosi o laici od addirittura atei, come molti sionisti socialisti e di sinistra.

La religione è stato sicuramente uno dei fattori, il principale, che ha consentito al popolo ebraico nella diaspora di mantenere la propria identità e la propria coesione, ma ridurre gli ebrei alla sola dimensione religiosa significa discriminare gli ebrei che religiosi non sono e che hanno tutto il diritto, al pari degli italiani o dei francesi, di non esserlo senza dover per questo rinunciare alla aspirazione alla costruzione di una comunità nazionale.

La nazione, diceva Renan, è un plebiscito di tutti i giorni.
La nazione è memoria e progetto, finché ci sarà questo legame fra i cittadini di uno stato, non si può mettere in discussione la sua legittimazione. Uno Stato è caratterizzato dalla esistenza di un popolo su un territorio e soggetto ad una stessa autorità. Israele possiede queste caratteristiche oltre che essere internazionalmente riconosciuto dalla maggioranza dei governi degli Stati, compresi alcuni arabi e musulmani.

L’obiezione è che si è trattato di una creazione artificiale, un prodotto del colonialismo europeo, a danno di un altro popolo e la cui creazione si è fondata sul dolore di un altro popolo, che già abitava quella terra, per il quale la creazione di Israele ha rappresentato una catastrofe.
Israele sarebbe il risultato di un senso di colpa degli europei, che dovevano farsi perdonare il nazismo e la Shoah.
Se si dovessero applicare gli stessi criteri di critica, dovremmo mettere in discussione la legittimità degli Stati Uniti, che non sarebbero sorti senza lo sterminio dei pellerossa e la forzata annessione di stati abitati in prevalenza da ispanici come la Florida, il Texas e la California e senza l’acquisto dell’Alaska dalla Russia e della Louisiana dalla Francia.

In Europa lo Stato slovacco è nato, al pari della Romania, malgrado una consistente minoranza ungherese, pur territorialmente contigua alla madre patria.

L’impero russo ha conquistato militarmente il Caucaso e l’Asia centrale con massacri delle popolazioni locali, promuovendo una russificazione forzata e continuando nella repressione, fino ai giorni nostri come in Cecenia.

Il colonialismo ha prodotto l’esistenza del Libano, dividendolo dalla Siria, perché allora in maggioranza cristiano e tutti gli stati africani nei loro confini attuali sono artificiali, hanno diviso etnie e tribù. Il caso più esemplare per dire che le origini non sono decisive per il diritto ad esistere, è il Sud Africa creato dai boeri, conquistato dai britannici ed ora la più forte nazione africana.
Tutti gli stati dell’America Centrale e Meridionale hanno alla loro origine la conquista, lo sterminio delle popolazioni indigene o la loro acculturazione europea e un ripopolamento frutto della emigrazione europea di massa.

Credo che questa elencazione possa bastare. E non mi parrebbe un argomento molto valido sostenere che alcuni tra i fatti menzionati sono ormai coperti dall’oblio del tempo, mentre Israele ha "solo" sessant’anni. (1. Continua)

Testi precedentemente pubblicati sul medesimo tema: Vera Pegna, Sionismo o pace: la scelta è vostra (ADL 28.4.08), e Claudio Vercelli, Lo Stato d'Israele ha sessant'anni (ADL 5.5.08)