venerdì 30 maggio 2008

La mia ricchezza è la tua povertà

L'eccezione delle badanti

Gli italiani si sono accorti in ritardo che le severe misure del governo Berlusconi contro l'immigrazione illegale potrebbero privarli di migliaia di lavoratori stranieri che puliscono le loro case e si prendono cura di bambini e anziani.

Dopo aver eletto Berlusconi lo scorso aprile, in parte anche grazie alla sua intransigenza verso l'immigrazione irregolare, oggi gli italiani chiedono che badanti, baby sitter e colf siano escluse dai provvedimenti che il governo sta mettendo a punto.
International Herald Tribune, Francia
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È scoppiata la guerra del pane

di Paolo Ricca *)

"Siamo stanchi. Abbiamo fame, Tutto è diventato caro. Chiedo a tutte le donne di rovesciare le pentole e di fare, tutte le sere, un concerto con le pentole" - con le pentole vuote - propone una madre di famiglia senegalese. È il 31 marzo 2008, è in corso una marcia contro l'alto costo delle derrate di prima necessità. Proibita dal prefetto di Dakar, la manifestazione è stata duramente repressa dalla polizia, alla quale sono comunque occorse diverse ore per disperdere i manifestanti. Le "sommosse della fame" sono ormai ricorrenti in Africa. In Egitto, il governo sovvenziona il pane e lo fa distribuire dall'esercito. Ma l'Africa non è il solo continente a essere penalizzato dall'aumento del prezzo dei cereali, che rischia di affamare cento milioni di persone. Ad Haiti, la base dell'alimentazione dei più poveri è il riso, e il sacco di riso di 50 chili è passato, in una settimana, da 35 a 70 dollari: le manifestazioni di protesta hanno già provocato cinque morti. Altre manifestazioni si sono avute recentemente in Indonesia e nelle Filippine. Trentatré paesi (secondo altre fonti 37) sono in preda a disordini sociali a causa del forte aumento dei prezzi alimentari e del petrolio. Sul mercato il prezzo del grano è aumentato del 130% in un anno.

Perché il prezzo dei cereali ha avuto un'impennata così impressionante? Le ragioni principali addotte dagli esperti del settore sono tre. La prima è l'incremento della domanda di cereali legato al boom degli agrocarburanti, cioè dei cereali utilizzati per produrre carburante. Le grandi compagnie che fabbricano questo prodotto (il bioetanolo) negano che esso sia "il principale responsabile" dell'aumento dei prezzi degli alimentari. Ma anche se non è il principale responsabile, è certamente corresponsabile dell'aumento. È un fatto che una quantità cospicua di mais e germogli di soia venga sottratta all'alimentazione e destinata alla produzione di biocombustibili.

La seconda ragione sono i cattivi raccolti dovuti a problemi climatici collegabili, almeno in parte, dal crescente inquinamento dell'atmosfera. La terza ragione è la crescita economica dei paesi emergenti che ha sensibilmente modificato le loro abitudini alimentari. L'umanità mangia di più, e soprattutto mangia più carne. I cinesi, ad esempio, ne hanno consumato nel 2005 cinque volte di più che nel 1980. Ma per produrre un chilo di pollame servono tre chili di cereali, e più del doppio per ottenere un chilo di carne bovina.

Che dire di tutto questo? La terza ragione indicata induce a un'amara riflessione, che è questa: il miglioramento del livello di vita e di alimentazione di un popolo provoca (insieme ad altri fattori) un forte aumento della domanda e quindi dei prezzi dei cereali, che le popolazioni più povere non possono sostenere e quindi vengono affamate. È il noto processo per il quale il maggior benessere degli uni determina il maggior malessere degli altri. La mia ricchezza è la tua povertà. La mia opulenza è la tua miseria. La mia fortuna è la tua sventura. Non è dunque vero quello che spesso si ripete, e cioè che là dove uno si arricchisce, si arricchiscono anche molti altri. È vero invece che molti altri si impoveriscono.
Ma il problema maggiore sembra essere un altro, e cioè che in tutta la questione sono gli interessi economici a farla, come al solito, da padroni: la domanda crescente di cereali fa lievitare il loro prezzo, e li si utilizza per qualunque uso, anche per produrre carburante anziché pane, che diventa in certi paesi merce rara e troppo cara per i poveri. Così certi paesi (i nostri) avranno pane e carburante, altri non avranno né carburante né pane. Ma nel Padre Nostro diciamo: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano" - cioè chiediamo pane, non carburante, perché senza carburante si può vivere, ma senza pane no. Al primo posto ci dev'essere il pane: non è un caso che la prima richiesta del Padre Nostro che riguarda noi creature umane sia quella del pane, che precede persino quella del perdono.
E a questo proposito, possiamo fare due osservazioni. La prima riguarda il fatto che nella preghiera che Gesù ci ha insegnato il pane è detto "nostro", non "mio". Non posso chiedere a Dio solo il mio pane, senza chiedere il tuo, proprio perché il mio pane non può essere quello che ti è stato sottratto, il pane che tu non hai più perché i cereali che dovevano servire per farlo sono invece stati utilizzati per fabbricare il mio carburante. Non posso permettere che il mio bisogno di carburante venga pagato privandoti del pane che Dio ti ha dato. Non posso permettere che io mangi da solo il pane che abbiamo chiesto come "nostro", cioè mio e tuo. La seconda osservazione è che il pane, nella nostra cultura, rappresenta la vita. Privare qualcuno del pane o renderglielo inaccessibile significa attentare alla sua vita e, al limite, togliergliela. Le decisioni degli organismi che governano il commercio dei cereali, il cui prezzo è aumentato in maniera vertiginosa, anche se possono sembrare ragionevoli perché corrispondono alle implacabili "leggi del mercato", costituiscono in realtà un attentato alla vita di milioni di essere umani, e sono quindi, a ben guardare, operazioni omicide. (NEV 22/08)

*) Teologo valdese. Informazioni e dati statistici sono tratti da un dossier di "Le Monde diplomatique/Il Manifesto" nr. 5, di maggio 2008.

giovedì 29 maggio 2008

NOVITÀ EDITORIALE: L'utopia laica di Philippe Grollet

E' uscito in questi giorni come pubblicazione dell'ADL su carta il volume "Laicità, utopia e necessità" di Philippe Grollet, esponente di spicco del movimento laico belga. L'edizione italiana del libro, apparso a Bruxells nel 2005, è stata curata da Vera Pegna che, insieme a Silvana Mazzoni, ha approntato anche la traduzione del testo di Grollet dal francese. E' il nono volume della collana "Tragelaphos", dedicata alla storia e alla teoria della pluralità culturale. Qui di seguito ne riportiamo la nota editoriale.

Per acquisti team@avvenirelavoratori.eu

Philippe Grollet, l'autore del presente volume, è avvocato presso il foro di Bruxelles e ha presieduto nel corso di quasi quattro decenni dapprima il Cercle du Libre Examen, poi l'associazione Bruxelles Laïque e infine il Centre d'Action Laïque. Siamo lieti e onorati di poter rendere accessibile il suo pensiero alle nostre lettrici e ai nostri lettori.

Laicità, utopia e necessità propone al pubblico italiano un resoconto di esperienze e di riflessioni che provengono dalla società civile belga impegnata in difesa dell'uguaglianza tra tutti i cittadini nel libero esercizio del pensiero, della parola, del culto e del pluralismo culturale.

Il presente volume contiene una preziosa Prefazione del professor Manacorda, che ringraziamo con deferenza; segue di tre anni l'altra nostra pubblicazione recente nel medesimo ambito tematico, intitolata La laicità indispensabile, in cui avevamo raccolto gli atti dell'omonimo convegno tenutosi a Roma nel 2003 per iniziativa dell'Unione Atei Agnostici Razionalisti (uaar).

Tanto Laicità, utopia e necessità quanto La laicità indispensabile sono state curate da Vera Pegna, cui si ascrive anche il merito d’aver contribuito in modo determinante alla promozione del convegno romano del 2003.

Da allora sono trascorsi cinque anni, si sono moltiplicati gli incontri, sono apparse varie pubblicazioni: la laicità anche nel nostro Paese è ritornata al centro del dibattito. L'Italia laica accorcia così le distanze che tradizionalmente la separano su questo tema dall'opinione pubblica europea e internazionale.

LA TERRA IN SERRA

Ipse dixit
Pietà l'è morta - «Non è vero, come recitava un fortunato slogan di Ronald Reagan, che c'è una soluzione semplice per ogni problema. Spiace dirlo, ma le soluzioni dei problemi complicati sono, quasi sempre, complicate. Talvolta complicatissime. Per esempio. Di fronte all'assassinio di un ragazzo picchiato a morte da un gruppo di naziskin a Verona, alle bombe incendiarie lanciate nottetempo contro il campo rom di Ponticelli o al raid del Pigneto, sostenere che non c'è movente politico può (forse) andar bene per un rapporto di polizia, ma certo non ci consente di considerare questi episodi solo alla stregua di gesta criminali di piccoli gruppi di prepotenti disadattati, ignorando il clima politico, sociale e culturale in cui hanno preso corpo». - Paolo Franchi

L'identità dell'altra - «La madre è una donna di servizio, la figlia una giovane laureanda alll Sorbona. La madre ha incisi sul volto i tatuaggi tipici delle donne magrebine, mentre la figlia si copre il viso con il velo... Alla madre che chiede: "Ma perché indossi il velo? A noi hanno insegnato molto tempo fa che non era necessario portarlo per onorare Dio", la figlia replica: "Tu puoi farne a meno, ma io vado all’università, studio Kant, Cartesio. Il velo è la mia identità. Mi serve per non diventare come le altre". Il velo della figlia è la risposta "moderna" al timore di smarrire le proprie radici. Non è un residuo del passato... ci mette davanti alle contraddizioni che noi stessi abbiamo generato... i fondamentalismi sono figli della modernità e di una globalizzazione senza governo». - Massimo D'Alema

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LA TERRA IN SERRA
Effetto serra: a che punto siamo dopo il summit di Kobe?
di Aldo Ferrara *)
Anche il summit sulla questione climatica, tenutosi a Kobe ed appena terminato nel silenzio generale, indica una gravissima stagnazione nel processo di riduzioni delle emissioni gassose. Non si va al di là delle raccomandazioni formali dei ministri dell’Ambiente del G8 e nell’annuncio finale del summit di Kobe c’é poco spazio, a causa delle marcate divergenze emerse, per l’obiettivo del 2020 su cui l’Unione europea (e la Germania in particolare) ha puntato in modo rilevante. Il picco delle emissioni atteso entro i prossimi 15-20 anni richiederà un duro lavoro con i Paesi in via di sviluppo per contenere il danno emergente.

I ministri, però, non hanno fatto menzione dei rapporti scientifici secondo cui i paesi ricchi devono effettuare riduzioni del 25-40 per cento, anziché il 16%, entro il 2020 per evitare il riscaldamento del pianeta di due gradi. Per l’Italia il prossimo sarà un anno importante, in quanto reggendo la presidenza del G8, dovrà gestire le trattative per il protocollo post Kyoto. Siamo dunque nelle mani amorevoli della Ministra Prestigiacomo che, naturalmente, dovrà studiarsi il problema. Magari decidendo i piani per il nuovo Hub di Comiso, nei progetti “segreti” del Governo.

L’Ue punta al taglio del 20% delle emissioni entro il 2020, offrendo l’aumento al 30% in caso di accordo generale. Il Giappone non ha ancora obiettivi al 2020 e gli Stati Uniti, che non aderiscono al protocollo, scaricano il barile sulla Cina perchè fornisca precise indicazioni. In vista dunque della negoziazione più ampia del protocollo post Kyoto (Copenhagen dicembre 2009) siamo ad una fase oltremodo interlocutoria. La Banca Mondiale, infine, farà aumentare di almeno 5,5 miliardi con l’aiuto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone le risorse per il fondo contro il cambiamento climatico a favore dei Paesi poveri per l’utilizzo delle tecnologie pulite. E l’Italia resta al passo con il suo incremento annuale del 22% delle emissioni.

Più avanzata la concezione inglese con la proposta di introdurre un sistema di debiti e crediti ecologici per ogni cittadino del Regno Unito al posto delle ormai vetuste tasse. Lo propone la Commissione Ambiente del Parlamento britannico, che vede il rivoluzionario progetto come la chiave di volta per raggiungere, in un colpo solo, la riduzione delle emissioni inquinanti e il conseguimento di una tassazione più giusta per tutti - ovvero chi inquina paga. E chi non inquina, invece, potrebbe addirittura ottenere un riconoscimento creditizio. il progetto, infatti, prevede che ad ogni individuo venga assegnato una quota annuale di “anidride carbonica spendibile” (single emission trading) applicata a consumo di energia e di carburante.

Coloro che sforano, con uso eccessivo di aerei, auto non parsimoniose, potranno quindi “acquistare” bonus CO2 da chi, al contrario, consuma meno. Certo questo porterebbe ad una maggiore redistribuzione paritaria delle tassazioni perché le accise sui carburanti sono uguali per tutti i redditi. Con questa proposta vi è insita una maggiore equità nella tassazione ma passerebbe ed in via definitiva il concetto che chi inquina paga e per reciprocità chi paga ha il diritto di inquinare quanto vuole, che ,secondo noi, è la vera causa del fallimento del Protocollo di Kyoto.

E in effetti arrivano altre critiche. Critiche alla validità del sistema stesso del carbon offset - progetti di salvaguardia ambientale nei paesi in via di sviluppo finanziati da aziende o governi che non riducono le emissioni di CO2 - sono stati espressi da due studi indipendenti,statunitensi, pubblicati dal quotidiano britannico ‘The Guardian’. Secondo queste ricerche (Università di Stanford, California) due terzi dei progetti che hanno ottenuto i finanziamenti o stanno per ottenerli, con la certificazione del fondo ONU per lo sviluppo ecologico e sostenibile (Cdm), sono in realtà del tutto inefficaci. Eppure continuiamo a spendere sold nella misura di 10 miliardi di euro l’anno che è l’ammontare del mercato dei crediti ecologici garantiti Cdm e si prevede che esso aumenterà fino a 50 mld di euro nei prossimi quattro anni. Insomma ci stanno giocando e guadagnando anche con il degrado ambientale. Napoli docet!

*) Associazione R.E.D.S. - http://associazionereds.com/


lunedì 26 maggio 2008

Pensando a domani, nel giorno di Falcone


di Riccardo Orioles

I siciliani antimafiosi, nel giorno di Falcone, fanno manifestazioni e ricordi, dispiaciuti perché Falcone non c'è più. Sono circa un quarto della popolazione. I siciliani mafiosi, che sono più o meno altrettanti, festeggiano fra di loro e ne hanno buoni motivi: è stato cancellato il  principale apporto giuridico di Falcone (l'unitarietà di  Cosa Nostra, con tutto ciò che ne consegue), è stato riportato in Cassazione il giudice che dava a Falcone del cretino (il giudice Carnevale), è stato trionfalmente eletto  un governo che considera eroe, invece di Falcone, un  "uomo di panza" che ha eroicamente rispettato l'omertà, il grande Mangano.

 

E i siciliani mezzi-mezzi, la maggioranza, quelli che non hanno il cinismo di appoggiare la mafia ma neanche il coraggio di combatterla? Per loro, il problema principale   è l'ignoranza. "Mi faccio i fatti miei". Non hanno la minima idea di quanto il sistema mafioso gli ruba individualmente ogni giorno, in termini di denaro. Non sospettano che potrebbero essere, se non ricchi, almeno benestanti, in una regione ricca come questa, se non ci fosse la mafia. Sono onestamente convinti che mafia e antimafia siano questioni ideali (e dunque, per la cultura paesana, irrilevanti) e non materiali. "Mi faccio i fatti miei".

L'informazione mafiosa, che un tempo serviva a dire "la mafia non esiste", adesso serve a dire che la mafia esiste sì ma è una cosa che riguarda solo mafiosi e giudici e non la gente normale. Una cosa da diavoli o da eroi, insomma. Buona per i dibattiti e le fiction, ma non per la vita  normale.

Perciò il lavoro principale che c'è da fare oggi in Sicilia   è principalmente d'informazione. Non solo sulle notizie delle singole malefatte (il che è già tanto, perché qui i malfattori comandano ai giornali), ma soprattutto sul quadro generale, sull' "atmosfera", sui problemi concreti che vivere in un paese mafioso comporta anche per chi non pensa a ribellarsi.

Non lo si può fare alla meno peggio (raccontare una società è un lavoro abbastanza complesso) e non lo si può fare a suon di slogan (non c'è un prodotto da vendere ma una mentalità da trasformare). Però, quando si riesce a farlo come Dio comanda, funziona. E' stato così che a Palermo per alcuni anni ha avuto assai peso l'antimafia e a Catania si è riusciti a scacciare i cavalieri.

Questo lavoro, i grossi giornali non lo faranno mai: non puoi fare un grosso giornale senza avere grosse imprese  alle spalle; e nessuna grossa impresa, ormai,può sopravvivere senza far patti col diavolo (il caso Repubblica a Catania insegna). I giornali piccoli (come noi) possono tentare di farlo sì, ma, salvo eccezioni, possono concludere poco (e le eccezioni si pagano con vite umane). E allora  chi? I  giornali piccoli, magari piccolissimi (tipo quello che puoi fare anche tu, nella tua scuola o nel tuo paese) però  in rete: scambiandosi le notizie, organizzandosi insieme, e usando per tutto questo l'internet, cioè la rete più rete di tutte.

Questo richiede tempo, richiede pazienza a non finire (tenere  insieme dei siciliani, con rete o senza, è un'impresa da Giobbe, e ne sappiamo qualcosa), però, tutto sommato, può funzionare.

In una rete di questo tipo bisogna lavorare molto: certo,  è più divertente che sotto padrone (non è mai divertente lavorare per qualcun altro) ma il problema è che l'obbiettivo è molto alto: non si tratta di fare una cosa simpatica per sentirsi appagati, ma di far concorrenza ai giornali dei padroni, con l'obiettivo finale di spazzarli via dal mercato e dare un'informazione libera alla maggior parte della gente. Non un'operazione di nicchia (o di  ghetto), insomma, ma il tentativo consapevole di costruire un'egemonia.

    Fra vent'anni, Peppino Impastato dovrà pesare molto  di più di Berlusconi, come comunicazione di massa. "Si, vabbe'..." dici tu.

    Eppure, trent'anni fa,in Italia  le radio di base sono arrivate molto prima di Mediaset; e non erano poche: duecentocinquanta, in tutta Italia, con una copertura globale non indifferente.

    E allora com'è che ha vinto Berlusconi? Per tre motivi precisi:
    1) erano ognuna per conto suo, e Radio Firenze - ad esempio - non sapeva cosa faceva Radio Aut a Cinisi;
    2) non parlavano in italiano (cioè la lingua che usano   gli italiani) ma in politichese, perché i loro leader così si sentivano più importanti;

    3) non capivano che stavano usando delle radio libere - cioè una cultura e una tecnica completamente nuove - e   non dei ciclostili o dei bollettini di partito.

    Così Peppino è rimasto solo.

*) Riccardo Orioles, giornalista antimafia, è un punto di riferimento nel panorama delle firme giornalistiche in Sicilia, impegnato a contrastare la mafia e la corruzione. Assieme a Pippo Fava, aveva fondato e sostenuto il giornale "I siciliani", uno dei primi giornali  che hanno avuto il merito di aver denunciato la normalità delle attività illecite di cosa nostra in Sicilia.

venerdì 23 maggio 2008

Domani le guerre - oggi la regia

Cristo si è fermato in piazza San Pietro?
di Ettore Masina
cristiano di base

Oh, non turbate il Santo Padre, che è vecchio e stanco. Ditegli che c’è un guasto nei ripetitori di Ponte Galeria e perciò nei palazzi vaticani per qualche giorno radio e televisori sono in black-out. Ditegli che c’è uno sciopero dei giornalisti di tutto il mondo e quindi non arrivano notizie. Fate che non sappia, insomma, quel che sta succedendo in Italia ai Rom: e cioè che, come molti non-papi e non-VIP sanno, da mesi gli “zingari”, in Italia, vedono (e non soltanto a Ponticelli ma in molte città e paesi) i loro campi assaltati da facinorosi o “rimossi”, quasi senza preavviso, dalle “forze dell’ordine”.

Papa tedesco, sicuramente Joseph Ratzinger non riesce a dimenticare il genocidio degli zingari compiuto dalla Germania nazista ad Auschwitz, con centinaia di bambini orrendamente torturati dal dottor Mengele; e questo ricordo, se lui sapesse ciò che sta accadendo a pochi chilometri dalla sua finestra domenicale, lo spingerebbe a levare alta la voce per difendere i membri di una etnia dalle vere e proprie persecuzioni in atto.

Così attento alle leggi italiane che “violano i diritti del feto”, egli mostrerebbe di non essere meno sensibile ai provvedimenti governativi che violano i diritti umani di migliaia di persone colpite in base alla loro nazionalità. Davvero vorreste chiedergli di raggiungere i vescovi entrati nei campi degli zingari bruciati dalla gente pulita, a portare una richiesta di perdono per l’offesa fatta a Dio?

Il Signore ha voluto che le genti “da un confine all’altro della Terra” diventassero un solo popolo, radunato dall’amore. Per questo chi odia una stirpe pecca gravemente contro Dio. Questo stanno dicendo i vescovi italiani pellegrini fra le rovine fumanti degli abituri devastati dei Rom...

Come dite? Nessun vescovo è là, fra quelle roulottes sfasciate, fra quelle motocarrozzette caricate di poveri suppellettili e avviate verso chissà quale destino, fra quei carabinieri che con i loro pesanti anfibi finiscono di demolire le baracche bruciate dalle molotov? Ahimè, i vescovi rimangono nei loro palazzi e tacciono o (vedi Bagnasco) condannano con flebili voci e gelide parole quelli che con bell’eufemismo definiscono “estremismi”. Cristo si è fermato in piazza San Pietro?

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Ora manca solo una dichiarazione di guerra
Le prese di posizione di questi giorni sui Rom non sembrano generate da una valutazione concreta della realtà. E rischiano di provocare (come già è avvenuto a Ponticelli e un anno fa a Opera) reazioni violente e psicosi collettiva.

Siamo convinti che occorra mettere a punto misure efficaci, anziché proclami che generano paura e non favoriscono la risoluzione dei problemi. Oltre tutto, si mescolano insieme problemi che hanno origine – ed anche soluzioni – del tutto diverse: Rom e rumeni, nomadi e immigrati non sono la stessa cosa. Anche la criminalità ha tanti aspetti diversi, da quella che colpisce la popolazione più debole e indifesa alle grandi mafie. E noi siamo dalla parte delle donne ogni volta che vengono colpite nel corpo e nella mente – quasi sempre da parenti e conoscenti italiani, tra l’altro –, degli anziani truffati e dei commercianti tormentati dall’usura e dal pizzo.

Una volta per tutte: chi commette reati va punito, sia esso italiano, rumeno o di qualsiasi altra nazionalità. Anzi, è già un segno della assurdità della situazione che si debba ribadire un concetto alla base della convivenza civile. Il codice penale contiene già tutto quanto è necessario: siamo sicuri che tutti facciano davvero quanto devono?

Chi giunge in Italia in condizioni di povertà e bisogno va inserito in un percorso virtuoso che gli permetta, al tempo stesso di rispettare i doveri e di godere di diritti di cittadinanza che spesso sono semplicemente diritti umani fondamentali. E forse a questo proposito è utile riaprire la discussione, partendo anche dalla disponibilità mostrata dall’allora Presidente di An Gianfranco Fini, sulla possibilità di estendere il diritto di voto amministrativo ai cittadini stranieri regolarmente presenti da cinque anni nel nostro Paese, consentendo di rendere così più efficace il riconoscimento di diritti e di doveri da parte di tutti.

Questa è l’idea di legalità che abbiamo, di cui fa parte anche la semplice realtà che più della metà dei Rom è composta da cittadini italiani.

Per queste ragioni colpiscono toni ed argomenti usati da Penati in alcune recentissimi interviste, quasi che la Provincia di Milano non sia da molto tempo impegnata con interventi positivi: lo stesso Penati – sull’Unità – li richiama e li sottolinea, giustamente.

Non si può accettare, allora, che un tema così delicato, che può produrre guasti gravi nella comunità milanese e metropolitana, venga affrontato a colpi di slogan e di frasi rumorose: non si risolvono i problemi ma si aumentano e nemmeno si recuperano voti, se questa è il vero problema. E a proposito di reati e di severità, ricordiamo che bruciare campi (anche se abusivi) è un reato gravissimo, a Ponticelli come a Opera ed in qualsiasi altro luogo.

Responsabilità e risorse: ecco ciò che ci vuole. Questo dovrebbero sapere il sindaco Moratti e il prefetto Lombardi che pensano solo a scaricare i problemi nei comuni della provincia, chiudendosi sempre più tra le mura illusorie della città.

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Coordinamento provinciale milanese di Sinistra Democratica per il socialismo europeo
Noi stiamo dalla parte della persona, dei suoi diritti, della sua dignità
Lo zingaro e il clandestino non possono diventare dei capri espiatori di una situazione sociale ed economica che ha ben altre cause.

Recenti avvenimenti di cronaca, e la loro accresciuta rappresentazione mediatica, hanno portato ad emergere in maniera plateale un diffuso atteggiamento di sospetto, quando non manifestazioni di vero e proprio razzismo, verso gli zingari, italiani e immigrati.

La denigrazione verbale, genericamente diretta a queste comunità ed anche gli episodi di aperta violenza e razzismo nei loro confronti, non possono essere in alcun modo tollerati. Spesso questi comportamenti vengono giustificati come risposta al presunto alto tasso di devianza di questo popolo, dimenticando che i reati in sé sono sempre compiuti da singole persone e che la responsabilità penale è, per legge, individuale.

Una politica intelligente, a vantaggio della sicurezza dei singoli e della collettività, sarebbe quella di analizzare le cause che portano ad una maggiore devianza tra queste persone (emarginazione sociale e culturale, assenza di politiche d'integrazione, ecc.) offrendo misure atte a governare davvero l'immigrazione e a coniugare politiche di sicurezza con quelle di accoglienza ed integrazione. Si preferisce invece battere il tasto sulla paura della gente e sulla necessità di inasprire le leggi e le pene.

E' anche strano che il battage pubblicitario sulla sicurezza e sulla paura degli italiani, avvenga proprio quando il Ministero di Giustizia dimostra, statistiche alla mano, che i reati in Italia sono diminuiti e che in Europa – il nostro Paese è uno dei più sicuri dal punto di vista dell'ordine pubblico.

Il sospetto che esista una precisa regia dietro queste campagne mediatiche è inevitabilmente forte: una regia volta a rendere più accettabili misure di legge intollerabili contro i diritti della persona. Una regia che sposta l'attenzione degli italiani dal pesante declino economico e sociale in cui stiamo vivendo, verso un nemico ed un obbiettivo esterno: lo zingaro, l'immigrato, il diverso.

Come spesso succede nella storia, anche su questo versante come popolo italiano abbiamo la memoria corta e ci sembra lecito accettare attacchi verbali e misure contro gli zingari che consideriamo intollerabili, quando rivolte ad altri popoli od etnie. E' un atteggiamento pericoloso e , per dirlo con le parole di Goya, "il sonno della ragione genera mostri".

Non è mai colpa nostra se le cose vanno male, è sempre colpa di qualcun altro e così, mentre ci beiamo della supposta imbattibilità della creatività italiana, non ci accorgiamo che la crisi del nostro Paese di fronte alle sfide della globalizzazione è anche crisi di capacità di interloquire con l'esterno, le culture degli altri, la gestione serena dei fenomeni del nostro secolo, quali l'unità europea e le migrazioni.

In ogni caso, è certo che una politica esclusivamente di pura e semplice repressione dei reati che derivano dal disagio sociale sarà una tela di Penelope, e se non ci si indirizzerà anche verso la rimozione delle cause della condizione dei rom, non servirà a molto: a meno certamente di non innalzare l'escalation fino alla deportazione collettiva, all'arresto indiscriminato, o peggio, cosa fortunatamente proibita dalle normative internazionali. Non sembri retorica quest'ultima osservazione: rom e i sinti sono state vittime nei lager, e quella tragedia che in lingua zingara è ricordata come Porajmos, ed equivale alla shoah del popolo ebraico, pone un dovere di memoria e una responsabilità di tutti per il presente e il futuro.

I sottoscritti promotori di questo appello, operatori nel campo dell'immigrazione e dei problemi sociali, con esperienze disparate e di diverse ispirazioni politiche, culturali e religiose, propongono questi punti all'attenzione del governo nazionale, regionale e locale, dei media,, nonché degli operatori sociali così come di quelli di polizia:

- Combattere la campagna mediatica volta a creare atteggiamenti razzisti e xenofobi nei confronti degli zingari, ma anche dell'immigrazione in generale.

- Adottare efficaci politiche di sicurezza e chiudere i campi nomadi, in quanto ghetti e fonte di emarginazione ed illegalità, incentivando misure di vera accoglienza ed integrazione di queste comunità; i "campi nomadi" sono costosi, perpetuano le discriminazioni, ostacolano una reale integrazione. Sono anche una "zona grigia" di illegalità, su cui occorre che sia fatta luce, per tutelare in primo luogo i più deboli tra coloro che vi vivono.

- Procedere ad un vero e completo censimento dei singoli e dei nuclei familiari di zingari presenti in Italia, come primo passo verso misure di integrazione diversificate ed efficaci;
Per i minori e i giovanissimi, nati e vissuti nelle baracche, occorre prevedere con coraggio e creatività opportunità di integrazione e anche di cittadinanza, capaci di rompere un circuito davvero infernale di sottrazione di futuro.

- Ridurre i casi di espulsione solo per le persone che non hanno titolo o che hanno commesso reati legalmente comprovati; chi ha tale titolo, inoltre, deve essere trattato con rispetto e dignità. Prevenire le condizioni di emarginazione, miseria e criminalità sarà sempre più razionale e anche più economico che reprimerne gli esiti.

- Occorre un'integrazione tra il livello europeo, quello nazionale, quello regionale e comunale: occorre evitare infatti che la sindrome del "non nel mio cortile": i rom non sono immondizia!

- Mantenere la memoria collettiva del Porajmos, anche incentivando la ricerca storica sui campi di concentramento costituiti dal governo italiano nel periodo fascista, un evento rimosso e colpevolmente dimenticato.

- Incoraggiare la voce dei Rom e Sinti italiani, che ad oggi sono l'unica minoranza linguistica storica del nostro Paese a non godere di alcuna tutela: auspichiamo che sorga un'associazione rappresentativa della comunità zingara italiana.

Danielà Carlà, Giuseppe Casucci, Luca Cefisi, Piero Soldini, Rodolfo Ricci






giovedì 22 maggio 2008

Il clan/destino

Xenofobia e camorra
Mentre i critici cinematografici assistono a Cannes alle prime proiezioni del film Gomorra, che ha come tema gli affari della camorra, la terribile influenza di questo gruppo criminale sta incendiando Napoli. Letteralmente e metaforicamente. Per anni, la camorra ha smaltito nella regione i rifiuti tossici in arrivo dal nord Italia, guadagnando enormi profitti. Oggi i napoletani hanno cominciato a bruciare deliberatamente le montagne di rifiuti accumulati per le strade. E, come se non bastasse, la violenza della folla ha colpito anche la minoranza rom, che vive in accampamenti di fortuna alla periferia della città.

The Guardian, Gran Bretagna vai al sito




IL REATO D'IMMIGRAZIONE CLANDESTINA AGGRAVERA' IL PROBLEMA

"Introdurre il reato di immigrazione clandestina, al di là degli aspetti di rispetto delle regole democratiche, è un errore perché aggraverà invece che risolvere il problema della sicurezza nel nostro Paese". Lo ha detto Nicola
Latorre, vicepresidente del gruppo del Pd, ai microfoni di Radiocity di Radio1.

"Il problema della sicurezza va affrontato e seriamente - ha detto Latorre - E' chiaro che gli immigrati extracomunitari che passano il tempo a delinquere facendo scippi o quant'altro vanno assicurati alla giustizia in modo rigoroso, vanno espulsi e gli va impedito di rientrare in Italia. Però non si può far credere che il problema della sicurezza sia riconducibile
eslusivamente all'immigrazione, perché non è così. In Italia ci sono migliaia di immigrati extracomunitari irregolari che lavorano nelle famiglie come colf, badanti, baby sitter, nell'agricoltura, nell'edilizia e nelle piccole e medie imprese del Nord che non possiamo identificare come delinquenti. Semmai bisogna trovare il modo di regolarizzare e integrare
queste persone. L'introduzione del reato di immigrazione clandestina avrà invece due conseguenze: quella di aggravare la situazione carceraria e di spingere gli immigrati verso la clandestinità e la delinquenza. Noi dobbiamo invece distinguere tra gli immigrati che delinquono e quelli che
sono arrivati in Italia per lavorare, spesso anche inconsapevoli delle dinamiche dei flussi e delle quote di regolarizzazione. E' necessario - ha continuato Latorre - per una questione di giustizia, perché le famiglie e la nostra economia hanno bisogno del lavoro di queste persone e per
migliorare il controllo del territorio. Per questo ci batteremo in Parlamento perché questa norma venga modificata".

mercoledì 21 maggio 2008

Non sto inventando niente

Ipse dixit
Nuovo? - «Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani». -
Barbara Spinelli



La Catena di San Libero
Non sto inventando niente
di Riccardo Orioles *)

In Sicilia, la ragazzina uccisa da altri tre ragazzini perché era incinta. A Cuneo, le decine di onesti padri di famiglia che per diversi mesi approfittano della prostituta rumena quindicenne "senza accorgersi" che ha quindici anni e che è costretta a prostituirsi.

A Viterbo, i nazisti quattordicenni che bruciano il loro compagno perché ha i capelli lunghi. A Treviso, la ragazzina che canticchiava "Bella Ciao": rinchiusa nel cesso del treno da due coetanei, sfregiata con una celtica sul braccio. A Finale Ligure, il tredicenne legato dai compagni di scuola e segnato con la scritta "gay" e una svastica sul petto. A Catania, due giovani di sinistra aggrediti e picchiati, nel giro di pochi giorni, da quelli di Forza Nuova. Nel torinese, il tredicenne preso a pugni in faccia e calci nelle gambe ("E adesso prova a ballare, se ci riesci") perché voleva fare la danza classica. Ancora a Catania, il ragazzo pestato a sangue da sei coetanei perché "ha guardato storto" uno di loro. A Castelfranco Veneto, il bambino di otto anni, figlio di una napoletana, ritirato dalla scuola perché i compagni lo picchiavano e lo chiamavano "monnezza".

A Firenze, i tre giovanotti che passano la serata a riprendere col telefonino una povera accattona che dorme su una panchina; poi s'annoiano del noioso gioco, prendono la rincorsa e la buttano a calci giù dalla panchina. A Palermo, i genitori che sfilano: "Non c'importa se il famoso chirurgo è ladrone e pedofilo! Abbasso i giudici! E' solo lui che deve operare i bambini!". A Verona, il ragazzo ammazzato ("Non c'entra la politica", disse il sindaco) perché ha rifiutato una sigaretta a un nazista. A Roma, il capo degli ex fascisti (che ora è ministro) che vuole i soldati per strada per controllare i poveracci. A Venezia il famoso filosofo, sindaco raffinato e civile, che emette - anche lui, infine - l'ordinanza: "Contro gli accattoni, pugno duro!".

Tutto ciò, e altro ancora, accadde nel mio paese che un tempo era civile. Giustamente, voi posteri non ci credete. Ma può darsi che qualche vecchia collezione di giornali, trovata fra le macerie della guerra del 2010, vi aiuti a comprendere che non sto inventando niente.

*) riccardoorioles@gmail.com

lunedì 19 maggio 2008

Claudio Fava (SD/PSE) e la Sinistra da intercettare

Claudio Fava è il nuovo coordinatore di "Sinistra democratica". Il movimento politico fondato da Fabio Mussi e Cesare Salvi ha appena compiuto un anno di vita incassando una disfatta. Fava, europarlamentare nel Gruppo socialista, propone le sue ricette per ricostruire una sinistra molto, molto malmessa dopo dal voto del 13 e del 14 aprile scorsi: "Sono nella famiglia del socialismo europeo e lo ritengo un asse portante", puntualizza Fava, "ma credo che adesso la priorità ora è uscire dalle stanze, dai riti, dalla dimensione cupa e soffocante che la sinistra ha proposto sinora". Porta chiusa alla costituente comunista: "Da loro ci dividono le formule, le categorie, il merito dell'azione politica". Con il Pd va trovato "un terreno di contenuto sul quale lavorare insieme". Occorre però capire che quella socialista è "l'esperienza di una cultura politica della quale questo Paese non può fare a meno".

di Andrea Scarchilli

- A poco più di un anno dalla nascita di Sinistra democratica, qual è il giudizio del nuovo coordinatore del percorso fatto finora dal movimento?

Se il bilancio dovesse essere affidato solo al risultato elettorale della Sinistra arcobaleno sarebbe un bilancio assai malinconico. Credo invece che vada preservato lo spirito con cui sono nate la sfida e la proposta di Sd, che tra le anime delle sinistra è quella che sin dal primo giorno ha cercato di lavorare con più determinazione e verità a una Costituente di sinistra e promuovere l'idea di sinistra in questo paese. Credo che alla fine abbia subito la vischiosità di una fase politica, la sinistra ha fatto registrare su questo progetto molte resistenze, egoismi e individualismi e soprattutto un'idea vecchia e autoreferenziale che ha prodotto di sé, non solo in campagna elettorale ma anche nei mesi che l'hanno preceduta. Per cui, partendo dal presupposto che sono fortemente affezionato all'idea promotrice di Sinistra democratica, dico che questa idea ora va declinata in un modo diverso e anche con compagni di strada diversi rispetto a quelli che si sono trovati nel progetto dell'Arcobaleno.

Ha qualche appunto da fare alla dirigenza precedente alla sua? C'è qualcosa che si sarebbe o non si sarebbe dovuto fare?

Da parte nostra l'errore di fondo è stato quello di ritenere, forse anche in buona fede, che si potesse riunire tutto quello che c'era a sinistra e che questa unità della sinistra, a prescindere da sensibilità, linguaggi e forse obiettivi diversi, rappresentasse un valore in sé. Così non è stato e Sinistra arcobaleno è stata percepita come un cartello elettorale perché era solo un cartello elettorale, una somma di apparati che hanno gestito questa fase con grande diffidenza. Abbiamo perso l'abbrivio iniziale, la spinta forte che ci aveva dato il paese quando questo processo si è messo in moto. Quei segnali che avremmo potuto cogliere li abbiamo accampati, e non sempre sulla base di ragionamenti nobili. Andavano fatti, per esempio, gruppi comuni alla Camera e al Senato. Ci voleva un imprinting democratico per un nuovo gruppo dirigente che rappresentasse non solo l'idea di una sinistra che si metteva insieme ma decideva anche di guardarsi dentro, rivedere le forme di partecipazione e i linguaggi. Invece l'ultimo anno è andato via affidato a riti e liturgie burocratiche che non hanno prodotto un solo voto in più bensì molti in meno. Mettiamo da parte, quindi, le ragioni esterne che hanno contribuito a farci precipitare al tre per cento - come il voto utile e la copertura informativa sfacciatamente omertosa nei nostri confronti - e ripartiamo dal modo in cui non è stata percepita la novità della nostra scelta, dal modo in cui forse non siamo riusciti a costruire l'offerta di una nuova sinistra e dal modo in cui questo paese è profondamente cambiato senza che a sinistra si registrasse, nelle forme di partecipazione e nei gruppi dirigenti, un cambiamento altrettanto significativo.

Quali sono le sue priorità per il rilancio di Sinistra democratica e di tutta la sinistra?
La sinistra deve continuare a chiedere, a domandare, a guardare con curiosità, attenzione, capacità di stupore un mondo e un tempo che sono profondamente mutati. E' cambiato il senso comune del paese, e in peggio. Dobbiamo confrontarci su questo dato, non per inseguire la destra ma per proporre un nostro modello culturale di interpretazione della realtà che non può più essere affidato alla lotta di classe. E' cambiata la categoria della povertà che è diventata sociale, culturale, esistenziale e riguarda ormai quasi la metà del paese. E' cambiato il modo di sentire la politica da parte del paese reale. Rispetto a questo occorre modificare profondamente forme e contenuto della nostra proposta.

Come?
Dobbiamo iniziare da alcuni punti di verità. Innanzitutto dal fatto che questa nuova idea di sinistra deve partire anche da ciò non sta dentro ai partiti, che non partecipa ai congressi, non è soggettività politica tradizionale. Penso a una sinistra diffusa che questo paese ha conosciuto, come gli autoconvocati di piazza San Giovanni, i centomila di Bari, i tre milioni dell'articolo diciotto a Roma. Si tratta di realtà che non devono essere semplicemente cooptate. Si deve proporre loro un terreno di condivisione e pari dignità politica. Dobbiamo fare lo sforzo di andare oltre, uscire dai luoghi, dai riti, dalle stanze, dalla dimensione molto cupa e soffocante che fino adesso ha proposto la sinistra. Bisogna essere chiari, poi, sul concetto di unità. Stiamo insieme, uniti, ma con chi crede che sia indispensabile questa navigazione in mare aperto. A chi vuol fare la Costituente comunista va il nostro massimo rispetto ma da loro ci dividono le formule, le categorie, il merito dell'azione politica. Infine vogliamo batterci per superare questa idea assai egoistica dell'autosufficienza: non è autosufficiente il progetto del Pd di rappresentare tutto ciò che sta fuori dalla cultura e dall'egemonia berlusconiane. Non è autosufficiente, tuttavia, neanche la sinistra. Bisogna costruire un centrosinistra che archivi definitivamente l'esperienza dell'Unione e si basi sul merito di un'idea di paese che condividiamo, al quale ciascuno dia un contributo di assoluta autonomia, senza logiche annessionistiche. In questo credo che un nuovo soggetto della sinistra abbia spazio, responsabilità e debba stabilire con il Partito democratico un ragionamento che non è legato alle cortesie della politica bensì alle reciproche autonomie".

Si discute molto, in questi giorni, della forma che dovrà assumere il nuovo soggetto. Federazione, partito unico. Qual è la struttura che ha in mente?

La federazione non mi convince, è ciò che è stato già fatto e bocciato dagli elettori. Produrrebbe accordi elettorali sotto forma di cartelli che si ritrovano alla vigilia del voto e si perdono il giorno successivo. Mi sembra che il paese abbia già dato, attraverso quel tre per cento, un voto netto alla logica delle federazioni. Penso che il partito unico è un'espressione piuttosto pesante, ho in mente piuttosto una costruzione che non recuperi le vecchie abitudini e liturgie del partito. Abbiamo bisogno, piuttosto, di qualcosa che abbia semplicità, fluidità, capacità di inclusione, apertura. Le forme che assumerà questo soggetto le discuteremo insieme ma è indispensabile che parta non soltanto da noi ma direi, piuttosto, dalla nostra insufficienza. Questo per cercare di raccogliere pezzi della società politica che ci sono e hanno bisogno di trovare forme di partecipazione e di protagonismo. Penso all'assemblea di Firenze, alle molte case comuni della sinistra. La forma mi pare l'ultimo dei problemi. Il problema è il patto associativo che tiene insieme questo soggetto e va cercato nelle cose che ho detto, attraverso uno sforzo di verità. Mettersi in discussione assieme ai linguaggi, alle categorie interpretative, alle forme dello stare insieme. La stessa interpretazione che abbiamo dato di questo paese è un po' datata.

Sarà una sinistra di governo o, come adombra qualcuno, un bagno rigeneratrice nell'impostazione di opposizione?
Non farei una distinzione fra governo e opposizione come se si trattasse di categorie inconciliabili. Credo che esista in primis un sinistra e abbia il compito di trasformare il Paese: questo lo fai da i luoghi che il Paese ti ha dato. Se ci fossero le condizioni di assumere responsabilità di governo rifiutarle non sarebbe una posizione politica, ma una fuga, una scelta di piccolo egoismo. Supererei questa distinzione, purché la ragione che hai ti permetta di rappresentare le posizioni con assoluta coerenza, non importa da quale ruolo, che sia l'opposizione o il governo. In questo senso credo, penso che questo Paese abbia bisogno di un'opposizione forte, assai più forte che sta facendo intendere il Pd. Sono molto preoccupato di questa apertura generica al Popolo della libertà sul tema delle riforme istituzionali. Mi sembra più utile stabilire in anticipo quali sono le riforme all'ordine del giorno del centrodestra, forse alcune delle loro priorità non sono quelle dell'opposizione. Mi spaventa anche questo giudizio assai semplificatorio sul discorso dell'investitura di Berlusconi, come se tutto potesse essere ricondotto alla correttezza dei toni. Prendiamo atto che i modi di Berlusconi sono molto più cortesi (lo erano molto meno quando lei si trovava all'opposizione e doveva legittimare un governo regolarmente eletto), ma a me interessa giudicare il governo Berlusconi non dalla cortesia delle parole spese alla Camera. Piuttosto sono importanti i fatti politici che questo esecutivo sta mettendo in campo: il ritorno al nucleare, il ponte sullo stretto di Messina, la costruzione di nuovi Cpt, la reclusione senza verifica giudiziaria per gli immigrati clandestini. Rispetto alle scelte normative il paese sta assumendo un profilo rispetto al quale l'opposizione dovrebbe spendere qualche parola. Ma questo "volemose bene" che sta prendendo piede in Parlamento non tiene conto di ciò che questo governo ha già cominciato a fare contro il Paese.

Ha escluso coloro che fanno riferimento al progetto della Costituente comunista. E' disponibile a tentare un approccio con il Partito socialista in fase precongressuale?

Credo che questo processo unitario debba raccogliere le idee di fondo che hanno rappresentato e possono ancora rappresentare per la sinistra in Italia. Abbiamo bisogno tuttavia di recuperare il senso di quelle idee e rivolgerci a quei mondi, molto meno ai ceti politici che le hanno portate avanti fino a questo momento. Se dovessimo pensare di ridurre tutto ad un incontro di dirigenti delle varie parti politiche, senza capire che l'esperienza socialista è l'esperienza di una cultura politica della quale questo Paese non può fare a meno, faremo un pessimo servizio alla causa della sinistra. Sono nella famiglia del socialismo europeo e lo ritengo un asse portante ma credo che dobbiamo provare a cambiare l'approccio, tentare di sganciare le varie culture politiche dal concetto di ceto politico e cominciare a vederle per ciò che sono. Ci vuole uno sguardo diverso sulla qualità del progetto politico che può essere contrapposto a quello di Berlusconi e all'ansia di moderazione che emerge dal Pd.

Con Veltroni ha già abbozzato un dialogo. Che atteggiamento terrà nei suoi confronti?
Ci vedremo la settimana prossima e gli dirò le cose che ho già avuto modo di dire in questi giorni: la presunta autosufficienza del Pd mi sembra un alibi per non affrontare i nodi politici di questo Paese, riconducibili al fatto che la destra ha costruito una cultura egemone e noi siamo opposizione. Cercherò di capire se esiste un terreno di contenuto sul quale si possa lavorare insieme, ciascuno nel rispetto assoluto della propria autonomia, e sottolineo il concetto di autonomia altrimenti viene meno il senso di questo ragionamento. Dobbiamo costruire un centrosinistra che sia l'opposto di ciò che era l'Unione, un cartello elettorale dentro il quale si stava con fortissime riserve mentali e con una logica di opportunismo. La conferma è che qualcuno è rimasto a bordo fino a quando gli era utile, poi sappiamo come è andata a finire. Penso a un centrosinistra che sappia esprimere la sensibilità politica di almeno la metà di questo Paese e che dentro abbia, accanto ad un imprinting di tipo moderato come quello del Pd, una forte vocazione di sinistra che è quella che vorremo costruire in queste stagioni. Su questo si può stabilire la qualità di un dialogo, però alcuni punti devono essere chiari per tutti. Conviene anche al Pd altrimenti da quel 33% che gli fa rappresentare solo un terzo dell'elettorato non si schioda. - (Aprileonline/ADL)

venerdì 16 maggio 2008

Un passaporto distribuito da Guglielmo Tell

Svizzera - Giornata sindacale contro l’iniziativa populista sulle naturalizzazioni. Il sindacato Unia è fiero della democrazia e dello stato di diritto della Svizzera. Per questo motivo il sindacato chiama l’elettorato a respingere con un deciso NO l’iniziativa arbitraria dell’UDC in votazione il 1° giugno.

di Vania Alleva *) e Hans Hartmann **)
Il 1° giugno i cittadini svizzeri sono chiamati alle urne per pronunciarsi su tre oggetti. Il sindacato Unia raccomanda un triplice NO. Nella sua veste di primo sindacato svizzero e principale organizzazione dei migranti in Svizzera, Unia si batte soprattutto per respingere la cosiddetta iniziativa sulle naturalizzazioni, lanciata dall’UDC per dare il via libera a decisioni sulla naturalizzazione arbitrarie e discriminatorie.

Nell’odierna giornata d’azione gli affiliati Unia sono presenti in circa 25 città svizzere per distribuire ai passanti una documentazione sulla votazione, presentata sotto forma di oltre 60'000 passaporti svizzeri. Sulla piazza della stazione di Berna è entrato in azione addirittura Guglielmo Tell in persona (vedi foto su www.unia.ch). Ai passaporti da lui distribuiti i numerosissimi pendolari hanno reagito in maniera molto positiva.

L’opuscolo informativo chiarisce che l’iniziativa UDC rappresenta un attacco frontale al nostro stato di diritto democratico. Essa vuole infatti abolire un diritto fondamentale ancorato nella Costituzione: il diritto di ognuno di «essere trattato senza arbitrio e secondo il principio della buona fede da parte degli organi dello Stato». Se l’iniziativa UDC passerà, in futuro l’assegnazione della cittadinanza comunale potrà avvenire in modo arbitrario, senza motivazione della decisione e senza possibilità di ricorso.
Il Passaporto Unia presenta una serie di esempi tratti dalla quotidianità per mostrare la posta in gioco della sicurezza giuridica. «Diritto e arbitrio non vanno a braccetto. Senza diritto non c’è democrazia», è l’ovvia conclusione.


*) responsabile Migrazione del sindacato Unia
**) portavoce del sindacato Unia


mercoledì 14 maggio 2008

Il dramma israelo-palestinese

Il dibattito su Israele, la sinistra e il sionismo
Si conclude oggi la riflessione avviata da Besostri su "Israele e il sionismo". La prima puntata ("Israele, la Sinistra e il Sionismo") era apparsa sull'ADL dell'8 maggo scorso, la seconda puntata ("La Terra santa e la sua invenzione") è stata pubbllicata ieri. Testi precedentemente pubblicati sul medesimo tema: Vera Pegna, "Sionismo o pace: la scelta è vostra" (ADL 28.4.08), Claudio Vercelli, "Lo Stato d'Israele ha sessant'anni" (ADL 5.5.08).

di Felice Besostri
Il dramma israelo-palestinese si scatenò quando la risoluzione delle Nazioni Unite, che poneva fine al mandato britannico e prevedeva la spartizione della Palestina in due stati non fu accettata dagli Stati arabi confinanti, che scatenavano la guerra nel 1948.
In una situazione di guerra ogni parte può ricordare le atrocità dei nemici, coprendo ed ignorando le proprie: nessuna di esse giustifica le altre.
Ora possiamo scegliere tra due strade, quella della vendetta e quella della composizione dei contrasti.
Nella scelta peseranno inclinazioni, esperienze subite di ingiustizie, ma anche gli obiettivi da raggiungere e gli interessi da tutelare.
Nella mia opinione l’interesse primario della popolazione israeliana e palestinese è nella pace, Shalom e Salam, nello sviluppo economico e civile, in questo caso particolarmente dei palestinesi.
Problemi giganteschi, ma che possono essere aggravati se la condanna di pratiche di occupazione, di chiusura di frontiere e di massicce rappresaglie diventa accusa di genocidio e di pulizia etnica.
La popolazione araba palestinese ed araba israeliana è incessantemente cresciuta di numero, anzi settori dell’opinione pubblica israeliana temono proprio il dinamismo demografico della popolazione araba. Una grande Israele estesa alla Cisgiordania in poco tempo avrebbe una maggioranza araba e mussulmana, a quel punto il mantenimento del controllo del Parlamento e del Governo richiederebbe la negazione della democrazia, non concedendo il voto ai cittadini acquisiti ovvero deportando la popolazione.
La necessità di un processo di pace è quindi nell’interesse degli stessi israeliani, anche se il dibattito sulla natura dello Stato di Israele, se Stato ebraico o Stato per gli ebrei, è ancora in corso.
I rapporti tra sionismo e religione, sono stati burrascosi, fatto che non si può dimenticare e che dovrebbe rendere cauti spiriti laici a brandire personalità e pensatori religiosi contro il sionismo e perciò contro lo Stato di Israele.
Basta leggere i racconti di Isaac B. Singer per rendersi conto dello scompiglio portato dai sionisti, nel mondo chiuso delle comunità ebraiche in cui dominavano rabbini e zaddik. La liberazione delle donne, lo scatenamento di energie, il desiderio di conoscenza sono stati un fattore di progresso e di normalità ebraici.

La creazione dello Stato di Israele ha innsecato un imponente esodo di popolazione palestinese, in parte forzata in parte volontaria, nell’illusione che fosse temporanea. Qualunque accordo di pace dovrà tenere conto della volontà del ritorno dei profughi e dei loro discendenti, ma parliamoci chiaro un illimitato ritorno non è né realistico, né ragionevole se la prospettiva è quella di due popoli, due Stati.

La Palestina non è l’unico caso nel secondo dopoguerra: milioni di tedeschi dai Sudeti, dalla Prussia orientale e dai territori ad est dell’Oder assegnati alla Polonia o dei Greci che hanno dovuto lasciare insediamenti millenari nei territori turchi, i musulmani indiani in seguito alla divisione dell’ex dominio britannico tra India e Pakistan, in minore misura gli italiani dell’Istria e della Dalmazia ed in tempi più recenti a Cipro in seguito all’invasione turca della parte settentrionale dell’isola.

In tutti questi casi ha prevalso la volontà politica di integrarli, non di tenerli in campi profughi.
Popolazione palestinese è stata cacciata o se ne è andata dalle terre ancestrali, ma nel contempo Israele ha accolto gli ebrei yemeniti ed etiopi e tutti gli ebrei delle comunità sefardite dei paesi arabi dalla Siria al Marocco per non calcolare i milioni provenienti dall’ex Unione Sovietica e da altri paesi dell’Europa orientale, specialmente dopo le politiche antisraeliane post 1956, che sono diventate presto antisemitismo ufficiale.

Un rovesciamento di antichi rapporti, malgrado i processi staliniani, che colpirono molti dirigenti comunisti di origine ebraica, come il ceco Slausky.

L’URSS fu il secondo stato al mondo a riconoscere Israele e alla morte di Stalin il giornale del Mapam, il partito sionista socialista di sinistra forte tra i kibbutzini uscì con il titolo in prima pagina “Il sole dei popoli si è spento”. Fino al 1956 le simpatie della sinistra per Israele erano scontate, un misto di rispetto per le persecuzioni subite dal fascismo e dal nazismo, per l’eccezione democratica che Israele rappresentava in tutta l’area, per non parlare dei criminali nazisti accolti nei paesi arabi e dai loro regimi più autoritari. In seguito ha prevalso, nei settori della sinistra più legati all’Unione Sovietica, l’antiamericanismo viscerale, che si estendeva automaticamente agli alleati degli USA.

Il naturale sostegno al movimento di liberazione dei popoli si è esteso ai palestinesi, popolo oppresso e sotto occupazione militare, ma il giusto sostegno ad una causa si è trasformato in accecamento totale nei confronti non solo del Governo di Israele, ma dell’intero popolo israeliano e per estensione degli ebrei.

Ci sono episodi come la bara depositata davanti alla Sinagoga di Roma durante un corteo sindacale che segnano una rottura psicologica e politica tra ampi settori della sinistra ed Israele e la comunità ebraica.

L’accecamento fanatico ha impedito di comprendere e valorizzare quei settori israeliani, impegnati nel processo di pace, come Shalom Akshav (Pace Adesso) da un lato e di condannare la deriva terrorista ed integralista islamista delle formazioni palestinesi dall’altro.

Se si è di sinistra è inaccettabile che non si siano levate in tempo voci critiche nei confronti della corruzione dilagante nell’OLP e nell’ANP, così come la pratica corrente della tortura nelle prigioni palestinesi e le esecuzioni, senza processo, di presunti collaborazionisti, come la repressione degli omosessuali e delle voci critiche di pochi isolati intellettuali palestinesi.

Parafrasando Maxim Gorki “proprio perché sono dalla parte dei palestinesi non posso perdonare tutto quello che fanno”, così come essendo dalla parte di Israele non si può tacere di fronte a qualsiasi cosa il suo Governo faccia.

Se si può ora parlare di nazione palestinese, paradossalmente è grazie ad Israele: è un’identità nata dalla contrapposizione ad Israele. Niente di strano il sionismo è nato anche come reazione all’antisemitismo ed alla sua manifestazione più virulenta: i pogrom. L’identità nazionale palestinese corre un pericolo che prevalgano gli islamisti: la fuga dei palestinesi cristiani è un segnale preoccupante in questa direzione, così come la contrapposizione tra Hamas ed al-Fatah.

Il movimento palestinese rischia di diventare la pedina della Siria, attraverso Hezbollah, e dell’Iran: un movimento eterodiretto, da giocare sullo scacchiere internazionale accrescendo la dipendenza di Israele dagli interessi geostrategici USA.

Bisogna infine essere consapevoli che porre nel piatto della sinistra italiana anche il conflitto israelo-palestinese significa gettare benzina sul fuoco in una situazione drammatica della sinistra nel nostro Paese dopo la scomparsa di tutte le sue componenti dal Parlamento, dai socialisti ai comunisti, dai riformisti agli antagonisti. Tuttavia, come si dice “Hic Rhodus, hic salta”.

Bucarest critica il piano sicurezza di Maroni


VISTI DAGLI ALTRI
A cura di Internazionale - Prima Pagina
La Romania ha criticato il governo italiano per l'annuncio di un piano molto duro contro l'immigrazione illegale e, in particolare, per le misure previste contro i cittadini rumeni. Mentre il ministro dell'interno Roberto Maroni ha confermato che presenterà al più presto la lista con le quaranta proposte del pacchetto sicurezza del governo Berlusconi (tra cui quella di istituire il reato di
immigrazione clandestina), Bucarest ha fatto sapere che non tollererà atteggiamenti xenofobi verso i suoi cittadini. Il premier rumeno Calin Popescu Tariceanu ha criticato, inoltre, le autorità e le forze dell'ordine italiane, che hanno permesso che "a Roma e in altre città i campi nomadi diventassero focolai di delinquenza". "Perché in Francia e in Germania non è successo nulla di simile?", si chiede Tariceanu.

El Pais, Spagna
http://www.elpais.com/articulo/internacional/Rumania/critica/blindaje/Italia/inmigrantes/papeles/elpepuint/20080513elpepiint_6/Tes

martedì 13 maggio 2008

LA TERRA SANTA E LA SUA INVENZIONE


Il dibattito su Israele, la sinistra e il sionismo

Prosegue oggi la riflessione di Besostri su "Israele e il sionismo". La prima puntata è apparsa sull'ADL dell'8 maggo scorso sotto il titolo "Israele, la Sinistra e il Sionismo". Testi precedentemente pubblicati sul medesimo tema: Vera Pegna, "Sionismo o pace: la scelta è vostra" (ADL 28.4.08), Claudio Vercelli, "Lo Stato d'Israele ha sessant'anni" (ADL 5.5.08).

di Felice Besostri

La creazione dello Stato di Israele è il frutto di un lungo processo storico, del quale la nascita dal sionismo rappresenta soltanto una
componente. Henry Laurens (La question de Palestine, Parigi, Fayard, 1999) ubica nel periodo 1799-1922 come "L'invenzione della Terra Santa" e fa risalire alla spedizione napoleonica di Egitto del 1798 (connessa all'invasione del Sinai e della pianura costiera palestinese nel 1799) il legame tra quell'area e le vicende europee: l'impero ottomano, ancora Califfato, si alleò alla Gran Bretagna, protestante, all'Austria Ungheria, cattolica, e alla Russia ortodossa per contrastare l'espansione delle idee di Nation e di diritti del popolo, nate dalla Rivoluzione Francese.
La dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917 è di più di un secolo dopo, non prevedeva lo stabilimento di uno Stato ebraico, bensì di un Focolare nazionale per il popolo ebreo, "essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa portare lesione ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebree esistenti in Palestina, sia ai diritti ed allo statuto politico, di cui gli Ebrei dispongono in tutti gli altri paesi.
Pochi anni dopo l'articolo 22 del patto della Società delle Nazioni adottato a Versailles il 28 aprile 1919 prevedeva che alle colonie ed ai territori, che a seguito della guerra hanno cessato di essere sotto la sovranità degli Stati, che le governavano in precedenza (quindi anche alla Palestina, già soggetta alla Sublime Porta) e che sono abitati da popoli non ancora capaci di dirigersi da essi stessi, dovesse applicarsi una tutela internazionale.
"Il benessere e lo sviluppo di questi popoli formano una sacra missione di civiltà". Da questo scaturì il mandato britannico, quindi imputare al sionismo ed ai primi insediamenti ebraici la responsabilità è una deformazione dei fatti ad uso strumentale.
Il nazismo e la Shoah erano ancora lontani di più di venti anni. Lo sviluppo degli insediamenti ebraici fu più un frutto delle condizioni degli ebrei nei paesi dell'Europa Orientale, che creava l'ambiente adatto all'espansione del sionismo nella sua versione socialista, che di una politica favorevole della potenza mandataria. La Gran Bretagna proprio nel 1939 con il Libro Bianco restrinse severamente l'immigrazione ebraica in Palestina, provocando la reazione di Lev Trotsky).

La Gran Bretagna, che nelle colonie aveva sempre applicato il principio del divide et impera anzi contrasta l'espansione degli insediamenti ebraici, anche quando dai territori conquistati da Hitler giungevano notizie sempre più preoccupanti sulla sorte degli ebrei. Un contrasto che è proseguito anche alla fine della guerra, con episodi come quello della nave Exodus, tanto che un settore del sionismo, quello revisionista, compì atti di terrorismo contro i britannici (esplosione dell'Hotel King David a Gerusalemme). Contrasto ma anche collaborazione con la formazione ebraica, che si incorporò nell'Armata britannica, con il nome di Brigata palestinese.
Nello sviluppo successivo dei rapporti tesi nell'area entrò il contrasto di costumi tra i palestinesi musulmani, in gran parte, con gli ebrei sionisti, laici e socialisti, uomini e donne, che praticano rapporti liberi da condizionamenti religiosi.
Tuttavia, non si può dimenticare che il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini, si alleò a Hitler in funzione antiebraica ed anti-inglese.
L'acquisto di terre fu reso possibile dall'aiuto delle comunità ebraiche di tutto il mondo, ma anche dalla struttura feudale della Palestina, con grandi proprietari terrieri e terre facenti capo alle comunità religiose, paragonabili alla manomorta ecclesiastica nei paesi europei.
Terre improduttive e con proprietari assenteisti non furono divise tra i contadini poveri in seguito ad una riforma agraria, ma comprate dai più dinamici kibbutzim, sperimentatori di un diverso modo di vivere più consono ai loro ideali socialisti ed egalitaristi.
E proprio gli insediamenti ebraici non da ultimo per lo sviluppo economico che innescarono, contribuì a una crescita esponenziale della popolazione araba, in arrivo anche dai paesi vicini.
In questa mescolanza di popolazioni, quindi, parlare di "popoli indigeni" espropriati e di "europei" espropriatori è una mezza verità. Ma, "una mezza verità", come insegna il Talmud, "è una bugia intera".

venerdì 9 maggio 2008

Israele, la Sinistra e il Sionismo

Continua il dibattito sul sionismo

di Felice Besostri

Le manifestazioni contro Israele, come paese ospite della Fiera del Libro di Torino nel 60° anniversario della sua fondazione hanno riaperto un dibattito nella sinistra italiana e anche all'interno della nostra testata. Meglio detto, hanno riaperto una ferita, perché non c’è dibattito senza dialogo: su Israele e Palestina sono, invece, le occasioni d'incontro sono più scarse rispetto a quelle di scontro. E così ciascuno preferisce organizzare le proprie manifestazioni, i filo-palestinesi da una parte ed i filoisraeliani dall’altra. Ma questa divisione in campi contrapposti produce tre vittime: i palestinesi, gli israeliani e la sinistra.

Ne deriva una gran confusione, anche terminologica tra israeliani ed ebrei, tra sionismo e politica israeliana fino all’assurdo di scambiare per antisemitismo ogni critica al governo di Israele e per converso il sionismo per una sorta di nazionalismo fascista e razzista.

Soltanto il terrorismo fondamentalista islamico non fa distinzioni e, quindi, tanto le forze di occupazione israeliane, quanto le Sinagoghe in Turchia o un ente ebraico di assistenza e beneficenza in Argentina: tutti sono obiettivi "militari", posti sullo stesso piano.

Ma poi agli obiettivi militari veri, il terrorismo preferisce la popolazione civile in tutto il mondo come in Israele: i civili sono di gran lunga preferiti, perché più facili da raggiungere.

Lo stesso accade nella rappresaglie israeliane, perché la popolazione civile è naturalmente più esposta ed indifesa delle bande terroriste armate.

Nelle vicende del Medio-Oriente mi sono sempre attenuto alle richieste di due cari amici, purtroppo scomparsi da tempo Peretz Merchav (ebreo, israeliano, sionista e socialista) e Abdel Zwaiter (palestinese, poeta, comunista e rappresentante della OLP in Italia). Tutti e due dicevano che non avevano bisogno di alleati acritici e fanatici, ma di amici in grado di far da ponte tra israeliani e palestinesi con l’obiettivo prima della pace e poi della convivenza tra i due popoli. Questo ruolo lo assegnavano naturalmente alla sinistra perché antifascista ed antirazzista ed impegnata a fianco delle lotte di liberazione dei popoli e per la difesa dei diritti.
Non siamo stati all’altezza del compito se si aggrediscono nei cortei del 25 aprile, chi porta le bandiere della Jewish Brigade ed i reduci dai campi di concentramento, si bruciano le bandiere di Israele e si organizzano convegni nei quali la criticabilissima politica israeliana in Gaza e Cisgiordania, è qualificata come pulizia etnica, quasi che fossimo in Bosnia, in Cecenia o nel Darfur.
Per trasparenza, in un conflitto come quello israelo-palestinese, che taglia trasversalmente le coscienze, non si può essere osservatori esterni e, quindi, occorre enunciare il proprio punto di vista almeno sui punti essenziali.

I palestinesi hanno diritto ad una loro patria in forma di Stato ed Israele ha diritto di esistere in sicurezza. I diritti sono per loro natura indivisibili e, pertanto, quando si scontrano si può soltanto dividere la terra: quindi due popoli, due stati.

Partendo da ciò, siamo, peraltro, soltanto all’inizio della soluzione, possibile non certa, del problema israelo-palestinese, ma senza questo punto di partenza non c’è pace e soprattutto non c’è speranza.

La negazione della legittimità della esistenza di Israele conduce in un vicolo cieco e le prime vittime della mancanza di una speranza di soluzione sono la parte più debole, i palestinesi.

La situazione attuale è esemplificativa dell’impasse, con due porzioni della Palestina soggetta a due distinte autorità in lotta tra di loro ed i cui scontri hanno provocato altrettanti morti della repressione dell’Intifada.

La negazione dello Stato di Israele ha bisogno di negare il sionismo, come movimento fondatore dello Stato israeliano, con critiche che, in molti al di là delle intenzioni, sconfinano nell’antisemitismo antiebraico.

La negazione del diritto di un popolo di raccogliersi in uno stato nazionale, nel caso di Israele, diventa negazione degli ebrei, in quanto tali, di avere uno stato, parlo degli ebrei in quanto individui e, perciò, indipendentemente dal fatto che siano osservanti o meno della Torah, che siano religiosi o laici od addirittura atei, come molti sionisti socialisti e di sinistra.

La religione è stato sicuramente uno dei fattori, il principale, che ha consentito al popolo ebraico nella diaspora di mantenere la propria identità e la propria coesione, ma ridurre gli ebrei alla sola dimensione religiosa significa discriminare gli ebrei che religiosi non sono e che hanno tutto il diritto, al pari degli italiani o dei francesi, di non esserlo senza dover per questo rinunciare alla aspirazione alla costruzione di una comunità nazionale.

La nazione, diceva Renan, è un plebiscito di tutti i giorni.
La nazione è memoria e progetto, finché ci sarà questo legame fra i cittadini di uno stato, non si può mettere in discussione la sua legittimazione. Uno Stato è caratterizzato dalla esistenza di un popolo su un territorio e soggetto ad una stessa autorità. Israele possiede queste caratteristiche oltre che essere internazionalmente riconosciuto dalla maggioranza dei governi degli Stati, compresi alcuni arabi e musulmani.

L’obiezione è che si è trattato di una creazione artificiale, un prodotto del colonialismo europeo, a danno di un altro popolo e la cui creazione si è fondata sul dolore di un altro popolo, che già abitava quella terra, per il quale la creazione di Israele ha rappresentato una catastrofe.
Israele sarebbe il risultato di un senso di colpa degli europei, che dovevano farsi perdonare il nazismo e la Shoah.
Se si dovessero applicare gli stessi criteri di critica, dovremmo mettere in discussione la legittimità degli Stati Uniti, che non sarebbero sorti senza lo sterminio dei pellerossa e la forzata annessione di stati abitati in prevalenza da ispanici come la Florida, il Texas e la California e senza l’acquisto dell’Alaska dalla Russia e della Louisiana dalla Francia.

In Europa lo Stato slovacco è nato, al pari della Romania, malgrado una consistente minoranza ungherese, pur territorialmente contigua alla madre patria.

L’impero russo ha conquistato militarmente il Caucaso e l’Asia centrale con massacri delle popolazioni locali, promuovendo una russificazione forzata e continuando nella repressione, fino ai giorni nostri come in Cecenia.

Il colonialismo ha prodotto l’esistenza del Libano, dividendolo dalla Siria, perché allora in maggioranza cristiano e tutti gli stati africani nei loro confini attuali sono artificiali, hanno diviso etnie e tribù. Il caso più esemplare per dire che le origini non sono decisive per il diritto ad esistere, è il Sud Africa creato dai boeri, conquistato dai britannici ed ora la più forte nazione africana.
Tutti gli stati dell’America Centrale e Meridionale hanno alla loro origine la conquista, lo sterminio delle popolazioni indigene o la loro acculturazione europea e un ripopolamento frutto della emigrazione europea di massa.

Credo che questa elencazione possa bastare. E non mi parrebbe un argomento molto valido sostenere che alcuni tra i fatti menzionati sono ormai coperti dall’oblio del tempo, mentre Israele ha "solo" sessant’anni. (1. Continua)

Testi precedentemente pubblicati sul medesimo tema: Vera Pegna, Sionismo o pace: la scelta è vostra (ADL 28.4.08), e Claudio Vercelli, Lo Stato d'Israele ha sessant'anni (ADL 5.5.08)

Non c'è dialogo se si muove dal rifiuto della legittimità dello Stato di Israele

Napolitano per il 60° anniversario dello Stato di Israele
“Il diritto all'esistenza dello Stato di Israele può e deve combinarsi con il diritto del popolo palestinese a dare vita ad un suo Stato”

ROMA - In occasione del 60° anniversario dello Stato di Israele, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato al Presidente israeliano Shimon Peres un messaggio nel quale esprime “a nome del popolo italiano e mio personale, i più vivi e sinceri auguri di pace e prosperità per il popolo israeliano”.
“I nostri due Paesi sono uniti da un'antica e sincera amicizia, sulla quale si fonda una collaborazione divenuta negli anni sempre più articolata e proficua” sottolinea Napolitano. “E' mio profondo auspicio – prosegue il messaggio - che i rapporti tra Israele e Italia possano ulteriormente accrescersi e consolidarsi, sia a livello bilaterale che nel più ampio contesto multilaterale”.
“Eredi di culture e tradizioni che hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo della civiltà mediterranea, Israele e Italia – rimarca il Capo dello Stato - possono fornire un contributo determinante alla stabilizzazione della regione. L'Italia si augura pertanto che i negoziati di pace in corso consentano di conseguire l'obiettivo di una soluzione equa e duratura, basati su due Stati dotati di confini stabili e sicuri e che possano felicemente convivere fianco a fianco”. “Nell'attesa di poterla incontrare in occasione della mia prossima visita di Stato in Israele, alla quale guardo con forte aspettativa, in questo giorno di alta valenza celebrativa formulo i migliori voti di benessere per la sua persona” , conclude Napolitano.

Oggi il Capo dello Stato è intervenuto all'inaugurazione della Fiera del Libro a Torino, alla quale ospite d’onore è proprio Israele. E Napolitano spegne le polemiche suscitate da questa scelta. “'Si tratta – ha detto Napolitano - di un contesto e di un clima che non possono essere turbati e deviati da contese politiche o da intrusioni pretestuose”. “I valori che la Fiera esprime sono quelli del confronto e del dialogo. Non c'è dialogo – ha aggiunto il Presidente - se si muove dal rifiuto della legittimità dello Stato di Israele, delle ragioni della sua nascita, del suo diritto ad esistere nella pace e nella sicurezza. Il diritto all'esistenza dello stato di Israele può e deve combinarsi con il diritto del popolo palestinese a dare vita ad un suo Stato”. “Sono questi i termini - ha detto ancora Napolitano - entro cui si colloca ogni sforzo di mediazione ed intesa con la partecipazione del governo di Israele e dell' Autorità palestinese, con il contributo dell' Unione europea delle Nazioni unite, di altri protagonisti della politica internazionale”. (Inform)

giovedì 8 maggio 2008

Contro il negazionismo - Ex schiave protestano

traduzione di Marianita De Ambrogio - Donne in Nero Padova
Per ulteriore documentazione in "Comfort Women" di Miala Leong (con bibliografia) - http://mcel.pacificu.edu/korea/gender/comfort.php

Migliaia di donne asiatiche -- secondo un rapporto di Amnesty International -- «sono state ridotte in schiavitù e violentate, torturate, brutalizzate ripetutamente per mesi e anni». Una di esse, ricorda il giorno in cui venne rapita dall'esercito giapponese: «i soldati avevano una lista dove figurava il mio nome. Mi costrinsero a salire sul camion. Mio nipotino uscì a guardare. Era un bambino piccolo. I soldati lo presero a calci e lui morì». Le ex schiave coreane lottano da anni per ottenere giustizia. Ma in Giappone un crescente movimento negazionista rifiuta di riconoscere gli abusi che esse hanno subito.

di David McNeill
Independent.co.uk Web

In Corea, le chiamano halmoni (nonne) - benché molte siano talmente segnate mentalmente e fisicamente da non essersi mai sposate né avere avuto figli. In Giappone, sono conosciute come «Donne di conforto», un eufemismo odioso per il loro ruolo forzato di fornire «conforto» alle truppe giapponesi in bordelli militari. Ma nel mondo, un'altra denominazione più dura le perseguiterà fino alla tomba: schiave sessuali.

Kang il-chul, è una delle poche sopravvissute che sta finendo la sua vita nella «Sharing House», un museo e rifugio comunitario a due ore dalla capitale della Corea del Sud, Seul. E' un edificio severo in cemento in una zona poco popolata tra campi di riso e montagne boscose. Lei dice di avervi trovato una forma di pace. «Qui ci sono tra le mie amiche, che mi trattano bene» dice.

Racconta d'essere stata presa all'età di 15 anni e mandata in una base giapponese in Manciuria. Dalla seconda notte, prima delle sue prime mestruazioni, è stata violentata. Notte dopo notte, i soldati facevano la fila per abusare di lei. Ha delle cicatrici sotto il collo, bruciature di sigaretta. Continua a soffrire di mal di testa perché picchiata da un ufficiale giapponese. «Ho sempre lacrime di sangue nella mia anima quando penso a quanto è accaduto» dice.

Come molte altre, trova traumatizzante ricordare il passato, piangendo, torcendo un fazzoletto tra le mani e dondolandosi mentre parla. Ma si arrabbia e batte il pugno sul tavolo quando si menziona il premier giapponese Shinzo Abe. «Quest'uomo orribile vuole che noi muoiamo». L'anno scorso, il premier Abe ha sbalordito le donne della «Sharing House» negando che non vi siano "prove" a dimostrazione che le donne erano state effettivamente costrette a subire innumerevoli abusi. Questa esternazione revisionista capovolgeva la posizione ufficiale del Giappone. Travolto da una tempesta politica e finito sotto pressione da parte degli alleati USA, Abe ha fatto marcia indietro, producendo una serie di dichiarazioni formulate con prudenza che hanno raffreddato la polemica.

Ma la negazione «ha atterrito» Kang: «Avevo l'impressione che il mio cuore si rivoltasse» dice. «La più gran paura delle donne è che si dimentichino dopo la loro morte i crimini commessi contro di loro» aveva commentato Ahn Sin Kweon, il direttore di «Sharing House».

Migliaia di donne asiatiche - e alcune di loro avevano appena 12 anni all'epoca dei fatti - «sono state ridotte in schiavitù e -- secondo un rapporto di Amnesty International -- violentate, torturate, brutalizzate ripetutamente per mesi e anni». Abusi sessuali, botte e aborti forzati hanno reso molte donne incapaci di avere figli.

La maggior parte delle sopravvissute è rimasta in silenzio fin quando un piccolo gruppo di vittime coreane non ha parlato apertamente, all'inizio degli anni '90. Tra loro, Kim Hak-soon, che era stata violentata e trattata, secondo le sue stesse parole, «come un cesso pubblico».

«Noi dobbiamo ricordare queste cose che ci sono state imposte», ha detto Kim Hak-soon prima di morire.
L'appello era stato ripreso da circa 50 donne, ricorda il direttore della "Sharing House" Ahn. Molte donne non erano sposate, vivevano sole in piccole città, tra gli stenti. «Un'organizzazione buddista ha aiutato a costruire "Sharing House" su un terreno offerto negli anni '90. All'inizio erano abbastanza reticenti per timore di finire sotto le luci dei riflettori. Sempre più persone sapevano che loro erano state violentate. E' molto difficile per donne di questa generazione discutere di temi sessuali apertamente, e ancor meno di esperienze vissute».

Il Giappone aveva riconosciuto ufficialmente la schiavitù militare in tempo di guerra in una dichiarazione storica del 1993, seguita da un'offerta di risarcimento proveniente da un piccolo fondo privato, estinto l'anno scorso. Ma questa dichiarazione detta "di Kono" ha tormentato a lungo i revisionisti giapponesi i quali negano che l'esercito sia stato coinvolto direttamente. «Le donne erano prostitute legali che si guadagnavano del denaro per la loro famiglia» dichiara Nobukatsu Fujioka, un docente universitario revisionista giapponese.

Benché Abe non sia più primo ministro, cui è succeduto Yasuo Fukuda, le vittime della violenza giapponese temono il ritorno del negazionismo. Per Kang è solo questione di tempo. La lotta caratterizza gli ultimi anni della loro vita. Se perdono questa battaglia civile, saranno catalogate come prostitute.

Quando la sua salute glielo permette, questa donna di 82 anni si trascina ad un sit in settimanale davanti all'ambasciata del Giappone a Seul. Le ex schiave sessuali vi si recano dall'inizio degli anni '90 e in febbraio vi hanno tenuto la loro ottocentesima manifestazione consecutiva. Urlano con rabbia contro i muri le loro rivendicazioni: la punizione da parte dei soldati violentatori, le scuse da parte dell'imperatore, l'edificazione di un Luogo della Memoria in Giappone.

E' improbabile che ce la facciano. Ma la "Protesta del Mercoledì", come la chiamano, ha assunto un carattere rituale, benché impregnata di tristezza visto che il gruppo delle sopravvissute, ormai esiguo, è ridotto a causa delle malattie e della mortalità. Delle 15 residenti alla "Sharing House" ne restano solo 7, quasi tutte in cattive condizioni di salute. Ma conseguono lo stesso delle piccole vittorie. L'anno scorso, il Congresso USA ha approvato la Risoluzione 121 che invita Tokyo a «scusarsi ufficialmente e ad accettare la responsabilità storica» per la questione delle "donne di conforto". Kang il-chul era tra le donne recatesi in delegazione a Washington per testimoniare.

La risoluzione, fortemente combattuta da Tokyo, era stata presentata da Mike Honda, esponente dell'emigrazione nipponica negli USA. Un editoriale nel più grande giornale giapponese, "Yomiuri", ha commentato asserendo che non esisterebbe «ombra di prova» che il governo giapponese avesse promosso la prostituzione militare.

Una copia della Risoluzione 121, firmata da Honda e dalla presidente del Congresso Nancy Pelosi è appesa nell'ufficio di Ahn Sin Kweon. «La risoluzione è stata molto importante per noi perché la nostra priorità è mantenere viva la memoria di queste donne» dice, ricordando l'accoglienza fatta ad Honda durante la sua visita lo scorso novembre. «E' stato trattato come un eroe». Un grande manifesto che ritrae Mike Honda raggiante per la vittoria politcia in Congresso campeggia nel cortile più grande della "Sharing House".

Curiosamente, ma non troppo, il direttore della "Sharing House" Ahn è molto arrabbiato con il suo governo. Come molti attivisti del movimento antifascista coreano, crede che Seul abbia barattato ogni rivendicazione di risarcimento con il trattato d'amicizia siglato tra Tokyo e Seul nel 1965, ottenendone in cambio sovvenzioni e prestiti a basso interesse. Il direttore Ahn dice che spetterebbe anche al popolo giapponese criticare il proprio governi. Ogni anno circa 5.000 cittadini nipponici visitano la "Sharing House". I loro incontri con le ex schiave sessuali sono spesso strazianti.

Ma la signora Kang diffida molto dei giornalisti giapponesi. «Vogliono mostrarci deboli e morenti» grida battendo di nuovo arrabbiata il pugno sul tavolo: "Soprattutto la TV, che tallona le donne più anziane e malate!" Più tardi, mi blocca mentre sto per fotografare una donna molto esile mentre fissa la TV con lo sguardo assente. «No. Ci dovete mostrare forti», esige. E noi la ritraiamo in posa da pugilatrice, accanto al monumento alle vittime degli stupri di guerra.

Il giorno in cui venne rapita, ricorda, «i soldati avevano una lista dove figurava il mio nome. Mi costrinsero a salire sul camion. Mio nipotino uscì a guardare. Era un bambino piccolo. I soldati lo presero a calci e lui morì».

Ricordi come questi rafforzano la sua determinazione: «Le generazioni future ci chiameranno prostitute? O il governo giapponese salverà la sua faccia, o noi salveremo la nostra».

mercoledì 7 maggio 2008

Come gli aguzzini nazifascisti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Era il 5 maggio 1945 quando fu liberato l’ultimo campo di concentramento e di sterminio nazista: Mauthausen insieme con tutti i suoi sottocampi fra i quali Ebense e Gusen.
Proprio ieri ricorreva il 63esimo anniversario della liberazione del campo. Sono passati 63 anni e purtroppo si muore ancora per mano di nazifascisti.

Ieri ha perso la vita un ragazzo a Verona Nicola Tommasoli solo per essersi rifiutato di dare una sigaretta ad altri cinque ragazzi e nel leggere questo episodio la mente ci riporta subito all’interno dei lager nazisti nei quali si poteva perdere la vita per niente, magari per aver rivolto lo sguardo ad una SS o magari per essersi rifiutati di dare una sigaretta ad un kapo. L’amico di Nicola Tommasoli, testimone dell'accaduto, descrive gli aggressori come bestie che si sono accanite sul corpo del ragazzo. Anche qui ci vengono in mente tutte le volte che i nostri ex deportati hanno definito le SS come bestie.

Non vogliamo certo paragonare il campo di Mauthausen con la bellissima città di Verona, però le “persone” si!
Dobbiamo dire che purtroppo ancora oggi dopo 63 anni dall’apertura del cancello di Mauthausen si può morire senza motivazione per mano di nazifascisti.

Cercheranno di sminuire questo episodio, catalogandolo come di semplice cronaca nera e non di matrice politica, ma questo è un errore che vogliono indurci a fare ma che noi non possiamo tollerare con il silenzio.
Possibile che dopo tutti questi anni, dobbiamo ancora raccomandare ai nostri figli di stare attenti ai nazifascisti. E come facciamo a riconoscerli? Come poteva Nicola riconoscerli? Non avevano uniforme, non avevano segni evidenti di distinzione, proprio come quei fascisti che 64 anni fa fecero deportare i nostri cari con destinazione Mauthausen, Ebensee, Gusen.

Giovedì 15 maggio partiremo per il pellegrinaggio verso Mauthausen insieme a circa 200 ragazzi delle scuole medie e superiori di Firenze per far vedere loro i luoghi dell’orrore. E per far capire loro che purtroppo ancora oggi esistono menti di individui che condividono quelle ideologie che hanno portato alla sofferenza e alla morte milioni di esseri umani. Esistono ancora e talvolta si comportano proprio come gli aguzzini nazifascisti.

Associazione Nazionale Ex Deportati - Firenze