martedì 18 dicembre 2018

Amatrice può essere salvata.

Due anni dopo il terremoto nel Centro Italia molti lo pensano: “Lo stato non può ricostruire tutto”. Assisteremo, dunque, a un ulteriore spopolamento della montagna appenninica? Se sì, allora dobbiamo mettere in conto perdite inaudite di beni artistici e culturali, oltre alle conseguenze catastrofiche sulla tenuta idro-geologica dei territori spopolati. Eppure, abbiamo milioni di disoccupati, che potrebbero essere coinvolti in un “esercito del lavoro” capace di offrire percorsi di riqualificazione e operosità utili a tutti, e utili anche ad aprire un nuovo capitolo della democrazia italiana.

 

di Andrea Ermano

 

Ho esperienze personali e dirette di eventi sismici. Ma il problema della ricostruzione è molto più complesso di quanto pensassi. Me ne sono reso conto assistendo all’inaugurazione della mostra zurighese dedicata alle foto che Claudio Colotti ha scattato “tra volti e macerie” dopo il sisma nel Centro Italia.

 

 

Il complesso problema della ricostruzione è ben evidenziato dal fatto che – accanto ai compiti della prevenzione anti-sismica, tragicamente trascurati nel nostro Paese, e accanto alle questioni connesse allo stato d’emergenza – due sono le catastrofi con le quali veniamo brutalmente confrontati: la prima sta nella perdita di vite umane che coincide con l’evento tellurico, la seconda è quella che segue sul piano del tessuto territoriale nel decennio successivo all’evento, essendo noi esseri umani esposti a una sorta di paralisi per impotenza di fronte alle devastazioni che un grande terremoto porta con sé.  

    Dal lungo sciame sismico che ha distrutto il Centro Italia emerge una quasi inconcepibilità financo dei criteri a cui poter improntare una ricostruzione, perché è molto arduo enunciare termini e principi in base ai quali procedere entro le attuali compatibilità di sistema.

    Il caso di Amatrice è emblematico. Questo antichissimo centro della Sabina è quasi completamente distrutto. E ci si domanda: quanta Amatrice ricostruire? La capienza abitativa massima (al livello demografico del 1911) superava le diecimila persone. Un secolo dopo, però, il lungo processo di spopolamento della montagna appenninica ha fatto sì che la cittadina ospitasse ancor soltanto duemilaseicento abitanti, e ciò durante la stagione estiva, includendo turisti e villeggianti, mentre d’inverno la popolazione si riduceva alla metà. Oggi, dopo le scosse del 2016, non sappiamo quante persone vorranno e potranno continuare a vivere in loco.

    In Friuli, dove la macchina della ricostruzione si era mossa con un certo grado di rapidità, ci sono voluti pur sempre otto-dieci anni. Nella Sabina terremotata bisognerà attenderne, quindi, almeno altrettanti anni prima di poter vedere ricostruite le case. Ma, mentre nel Friuli del 1976-1986 la situazione socio-economica appariva stabile per non dire in espansione, ad Amatrice oggi nessuno sa dire quanti edifici debbano essere rimessi in piedi. Bisogna restaurare ad integrum l’Amatrice dell’anno 1911 (abitanti 10'347), oppure quella del 2011 (abitanti 2'646)? Quanto grande potrà essere la cittadina nel 2026?

    In queste condizioni, oltre tutto caratterizzate da un contesto socio-economico che non collima né per fase né area né scenari con nessuna situazione precedentemente nota, è davvero molto arduo concepire un serio piano urbanistico.

    Fin qui il caso di Amatrice. Che va però centuplicato, dato il numero dei comuni colpiti.

    Ed ecco, dunque, perché molti pensano e dicono che: “Lo stato non può ricostruire tutto”.

    Ma se non lo stato, chi altri potrebbe? E questo appunto è ciò che si diceva: siamo alla paralisi per impotenza, paralisi tanto più grave in quanto nel Centro Italia sono custoditi inestimabili tesori d’arte, patrimonio dell’intera umanità.

    Assisteremo, dunque, a un ulteriore spopolamento della montagna appenninica? Se sì, allora dobbiamo mettere in conto perdite di beni culturali in proporzioni inaudite, e non solo questo. Perché un ulteriore spopolamento produrrebbe ulteriore dissesto idro-geologico, con ricadute altamente negative su intere regioni d’Italia e importanti città.

    Di fronte a questo triste scenario, uno stato degno del nome dovrebbe fare qualcosa di concreto. E invece assistiamo a gesticolii e ululati sovranisti davvero senza costrutto, come dimostrano le varie crisi xenofobiche scoppiate nel corso di quest’anno.

    Bisogna reintrodurre il servizio di leva previsto dall’articolo 52 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.

    E noi domandiamo: difendere il territorio della Repubblica, il patrimonio artistico, i beni e la vita dei cittadini terremotati non rientra forse proprio in questo “sacro dovere”?

    Se la Costituzione sancisce con solennità che il “servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge”, che cosa ci impedirebbe di poter soddisfare la lettera e lo spirito della nostra Carta fondamentale utilizzando la pala e il piccone, anziché il fucile e la baionetta?

    Attendiamo il parere dei giuristi.

    Ci sono oggi in Italia milioni di disoccupati, che potrebbero essere coinvolti in un “esercito del lavoro” (per usare un’espressione cara a Ernesto Rossi) capace di offrire percorsi di riqualificazione e di operosità utili a tutti.

    Il nucleo progettuale di un socialismo democratico sta e cade in questo XXI secolo con la capacità sul piano economico di mettere in campo una nuova dimensione del “pubblico”, oltre l’orizzonte del deficit spending. Per farlo non esistono ricette monetarie o finanziarie. Occorre tirarsi su le maniche e “mettere insieme” quelle attività fisiche e mentali comunemente dette “lavoro”.

    Occorre coordinare in modo intelligente queste attività fisiche e mentali dentro a un “esercito del lavoro”. E occorre subordinare la grande mobilitazione di massa che ne scaturirebbe a scopi di pubblica utilità, che pure non mancano: la gestione dell’acqua, dei beni culturali, la conservazione del territorio, l’accudimento sociale, l’accoglienza, la formazione permanente ecc. ecc.

    Il volontariato non basterà. Né basterà la chiesa. Né, tanto meno, basterà il “libero” mercato. Occorre osare più democrazia e più partecipazione. Ecco perché un servizio di leva civile universale è assolutamente utile a realizzare nuove forme di auto-gestione in rapporto a tutti quei lavori che nessuno fa e che pure devono essere fatti.

    Un nuovo, grande New Deal può portarci fuori dalla lunga crisi attuale. E Amatrice può essere salvata. Dall’art. 52 della Costituzione.

 

 

 


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martedì 28 agosto 2018

Gesticola. Si agita. Agita confusamente le folle.

 Ennesima settimana di caos in puro stile penta-leghista. 
Alla fine il vertice di Parigi si fa. 
 
di Andrea Ermano
 
"Mai inteso offendere l'Italia", dice Macron. "Non ha mai offeso l'Italia", conferma Conte. E, dunque, di che avrebbe dovuto scusarsi il Presidente della Repubblica d'oltralpe? A detta dei leghisti, l'Eliseo sarebbe colpevole della seguente dichiarazione, che Gabriel Attal, esponente di spicco del partito En Marche, ha reso a un giornalista francese nella giornata di martedì: "Io penso anzitutto alle 629 persone che sono su questa nave. Considero che la linea del governo italiano sia da vomito (à vomir). È inammissibile fare della piccola politica sulle vite umane. Lo trovo immondo".
    La parola "vomito" è senza dubbio sopra le righe. Attal avrebbe potuto dire la stessa cosa utilizzando per esempio il termine "ripulsa", molto più sfumato. Ma alla fine – o "vomito" o "ripulsa" – si tratta di libere opinioni espresse da un esponente parlamentare francese che non offende l'Italia né il popolo italiano, ma si limita a stigmatizzare, sia pur duramente, la condotta del nostro esecutivo. 
    Che male c'è? Forse che chiudere la bocca a un parlamentare di un paese europeo colpevole di critica a un governo europeo ci farebbe sentire più sicuri entro i confini del nostro continente? 
    Altro discorso si potrebbe o forse si dovrebbe fare, invece, quando ad attaccare un governo o uno stato è l'esponente di un altro governo e di un altro stato, come p.es. il nostro ministro degli Interni che ha detto in Parlamento: "Malta se ne frega. Punto e a capo". Dubitiamo che parlando in questo modo il min. Salvini dimostri quella disciplina e quell'onore che egli dovrebbe osservare avendo giurato sulla Costituzione. 
    Malta se ne frega? E la Francia ci deve delle scuse? A sostegno delle sue tesi, l'uomo forte del leghismo post-padano accusa Parigi non solo di applicare una dura lexai migranti di Ventimiglia, ma anche di essere inadempiente rispetto alla ripartizione europea dei richiedenti asilo sbarcati nel nostro Paese. 
    Senonché, a Ventimiglia i migranti non rischiano di annegare in pochi minuti. E sulla terraferma non vigono le sacre leggi del soccorso in mare. Né, poi, un comportamento errato di parte francese potrebbe legittimarne uno, ancor più sbagliato, di parte italiana. 
 Ma per i nostri sovranisti all'amatriciana il problema, in ultima analisi, è Macron. Il quale, invece di attenuare la polemica sul caso Aquarius, si è permesso di giudicare "cinico e irrespondabile" il trattamento riservato dalle autorità italiane ai profughi di mare, dichiaratamente usati dal Governo di Roma per un fine politico in una polemica verso altri governi europei
    Colmo dell'onta, di fronte alle "scuse ufficiali" che il min. Salvini in Senato aveva richiesto "nel più breve tempo possibile", il Capo dello Stato francese ha avuto l'adire di restituire al mittente questa "provocazione" di stampo leghista ritenendo che non sarebbe giusto cedere dopo la prova di cinismo e irresponsabilità di cui sopra.
    Apriti cielo! L'incontro bilaterale tra ministri dell'economia è stato fatto saltare. La Farnesina ha convocato l'ambasciatore di Francia. E il Presidente del Consiglio italiano si è predisposto a "congelare" anche la sua visita di Stato all'Eliseo, come indicato dal capobranco in camicia verde. 
    Insomma, la Francia e l'Italia hanno vissuto "la più grave crisi diplomatica di tutto il secondo dopoguerra". O almeno questo percepivano i commentatori delle principali testate nostrane. Non così al di là delle Alpi, dove l'opinione pubblica poco ha mostrato di appassionarsi per i dilemmi del nostro neo-premier e i giochi di potere dei nostri neo-ministri. 
    Dopodiché, sbaglieranno sicuramente i francesi, anche se è pur vero che l'atomica tanto quanto il seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite tanto quanto la maionese non impazzita: ce li hanno loro. 
    Dopodiché, non avranno certo tutte le ragioni, questi francesi. Ma, secondo il nostro trascurabilissimo parere, è pressoché dimostrato che i neo-governanti di Roma hanno torto e pur parecchio. 
    Per capirlo basta leggere quel che ha dichiarato il sen. Pesco (M5S) in aula: "Siamo un Paese sotto attacco. E c'è il sospetto che quelli che ci attaccano con lo spread siano gli stessi che ci attaccano con gli sbarchi". 
    Insomma, dietro ai nostri problemi si celerebbe la "spectre" di uomini come George Soros, il quale – nella vulgata penta-leghista – sarebbe reo di speculare sul piano finanziario contro l'Italia e, in parallelo, di mandare per giunta le Ong a scodellare migliaia di africani sulle nostre coste per mandarci gambe all'aria. 
    Nessuno osa, per adesso, accusare Soros di appartenere anche a una famiglia ebraica di origine ungherese. Ma – bando alle ipocrisie – il concetto è proprio quello lì. In fondo siamo reduci da una campagna elettorale iniziata "in difesa della razza bianca" (dixit Fontana, governatore lumbard). E ora ci ritroviamo, incredibilmente, di fronte alla riedizione di certe famigerate teorie mussoliniane sulla congiura mondiale "demo pluto giudaico massonica". Basta gettare uno sguardo nei blog penta-leghisti (contro la "massone-ebrea Merkel") per accorgersi che di per sé questa non è neppure una gran novità. 
  I nuovi potenti penta-leghisti, invece di governare il fenomeno migratorio, lo stanno agitando per fare propaganda a colpi di gesti simbolici: loro gesticolano. E, come detto, rivendicano tutto ciò in modo esplicito: "Siamo riusciti a fare una cosa grandiosa", ha dichiarato in Senato il citato Pesco a nome del M5S sul merito delle scelte di Salvini. La "cosa grandiosa" sarebbe che "abbiamo sollevato il problema". 
    E però: una maggioranza parlamentare e un governo della Repubblica dovrebbero stare lì non per "sollevare" problemi, ma per risolverli governando, se ne sono capaci. 
    Invece "sollevano" problemi. E "sollevano" anche la popolazione. E mimetizzanoqueste loro "sollevazioni" dietro a "un popolo che non ha niente da imparare in termini di volontariato, accoglienza e solidarietà da nessuno". Questo ha detto il ministro dell'interno autoproclamandosi "rappresentante" di quel popolo. Con gran faccia di bronzo, perché "volontariato, accoglienza e solidarietà" coincidono esattamente con le virtù di quei medici senza frontiere e di quelle organizzazioni non governative che egli definisce "vice-scafisti". 
    Ma qui la domanda decisiva è: contro chi va a finire tutta questa "sollevazione" di lotta e di governo se non addosso ai più deboli e indifesi, cioè agli immigrati?
    Eppure ci sarebbe spazio per tutti nel nostro Paese, giacché la popolazione complessiva (immigrati inclusi) continua in Italia a decrescere, come pure decrescono i reati. E anche la produttività, se vogliamo. Mentre la percezione della realtà appare sempre più distorta.
    Che fa il nuovo governo a fronte di tutto ciò? 
    Gesticola. Si agita. Agita confusamente le folle. Apre contenziosi con altri paesi, la Tunisia, la Repubblica di Malta, la Spagna, la Francia… 
    E dopo due decenni di nuovo che avanza con parole d'ordine un tanto al chilo – viva la mamma, abbasso la disonestà (e vedi alla voce "onestadio") – ecco, si è materializzata ora anche la "sovranità" dei demagoghi in auto blu che si scagliano contro le "crociere"  dei migranti e vogliono mettere fine alla loro "pacchia".

lunedì 30 aprile 2018

Libertà per Lula

FONDAZIONE NENNI 
 
 
Da due settimane ormai Luis, Ignacio, "Lula" da Silva è rinchiuso nel carcere di Curitiba sotto l'accusa di corruzione e riciclaggio. Per Sergio Moro, il giudice brasiliano che lo ha condannato sulla base di un impianto accusatorio che molti osservatori considerano tutt'altro che ineccepibile, Lula deva ora scontare 12 anni di detenzione.
 
di Franco Lotito
 
L'arresto di Lula ha suscitato una vasta eco internazionale sollevando prese di posizione e commenti politici. In patria si è rivelato un evento spettacolare che ha infiammato le piazze e gli animi dei brasiliani. Da una parte quelli dei suoi sostenitori che parlano apertamente di persecuzione giudiziaria (a carico di Lula sono stati avviati 6 procedimenti giudiziari in 2 anni) e sono pronti a fare le barricate per difendere la libertà e l'onore del loro leader. Dall'altra quelli – altrettanto bellicosi – dei suoi avversari che hanno inscenato manifestazioni di gioia alla notizia del suo arresto. E non si può certo dire che non ne abbiano motivo, dal momento che – alla luce di questa condanna – Lula non potrà candidarsi alle prossime elezioni presidenziali, per le quali tutti i sondaggi lo davano nettamente favorito.
    Il calvario del leader del PT iniziò nel 2016 quando il giudice di Curitiba lo infilò nel tritacarne di un'inchiesta giudiziaria sulle attività di corruzione che coinvolgevano i rapporti tra la Petrobras, la più grande impresa pubblica dell'America latina, e una serie di imprese interessate ad accaparrarsene gli appalti. Il Brasile è un Paese bellissimo in cui convivono ricchezze clamorose e povertà spaventose, dove purtroppo la corruzione è vissuta come una condizione endemica, e la lotta alla corruzione, non di rado è stata utilizzata come strumento di lotta politica più finalizzata a mutare gli assetti di potere più che a risanare la vita pubblica dalla corruzione.
    In un contesto siffatto si può anche dare per buono l'impegno moralizzatore del giudice Moro e persino la sua buona fede nel modo alquanto spregiudicato con cui ha esercitato le sue prerogative ed i suoi poteri inquirenti. Quel che è certo è che il suo operato si è oggettivamente saldato con gli interessi politici delle forze conservatrici che volevano la sconfitta del leader del PT e del suo disegno riformatore.
    Quando nel 1984 San Paolo e Rio de Janeiro videro in piazza milioni di brasiliani che chiedevano la fine di una dittatura militare che durava ininterrottamente da vent'anni, Lula era già alla guida del "Partido dos Trabalhadores" (PT) che egli aveva contribuito a far nascere tre anni prima. Quelle manifestazioni costringono i militari ad abbandonare il potere ed a consentire elezioni democratiche. Il Brasile entra finalmente in una nuova fase della sua storia. Il movimento di popolo è forte, ha saputo cacciare i militari, ma ha bisogno di un punto di riferimento, di un leader che dia voce alle istanze di cambiamento.
    Lula è stato il capo degli operai metalmeccanici, ha pagato con la prigione il suo impegno di lotta; è stato tra i fondatori del PT; conosce a fondo la condizione degli strati più poveri del suo Paese perché ne ha fatto parte per tutto il periodo della sua infanzia e della sua adolescenza. E' nelle cose che quel popolo lo riconosca come la sua guida.
    Nel 2002 Lula viene eletto per la prima volta presidente del Brasile con oltre 52 milioni di voti. Solo Dilma Rousseff, 8 anni dopo riuscirà ad ottenere un suffragio più vasto. Sotto la sua presidenza il Brasile conosce finalmente una stagione di modernizzazione civile e di emancipazione sociale. Il progetto riformatore che viene messo in atto è di vaste dimensioni. Viene predisposto un Sistema per la tutela della salute; vengono investite ingenti risorse economiche per i sussidi alle famiglie povere, sottraendo così milioni di persone alla fame ed all'indigenza; la scuola diventa gratuita, così le sue porte vengono aperte a tutti. Nessuna sorpresa, dunque che 4 anni dopo gli elettori brasiliani gli rinnovino il mandato con un'altra valanga di voti.
    Le riforme cominciano ad intaccare le spaventose diseguaglianze che opprimono il Brasile; il benessere materiale dà consistenza ad un ceto medio che apprezza le riforme di "sinistra" e che orienta sempre più il suo consenso verso il riformatore di "sinistra" e verso la democrazia. Insomma le riforme di Lula mutano significativamente gli assetti economici e di potere a vantaggio di chi ne aveva ben poco dell'uno e dell'altro. E questa è una cosa che non fa particolarmente piacere a chi ne ha sempre avuto il controllo pressoché integrale nelle sue mani.
    Nel 2010 Dilma Rousseff ha raccolto il testimone di Lula conservando per il PT la guida del Paese. Contro di lei viene scatenata una campagna di stampa di inaudita violenza che la costringe alle dimissioni in seguito ad un procedimento di impeachment. L'accusa è di aver falsificato i dati del Bilancio federale. La lotta politica è violenta e si avvale di tutti gli strumenti possibili. Ma per le forze che hanno subìto le riforme il vero nemico da abbattere rimane Luis Inacio Lula da Silva. E allora le campagne di stampa che avevano provocato la caduta della Rousseff, si susseguono sempre più martellanti, fino a quando incrociano le cronache che riferiscono dell'azione giudiziaria di Sergio Moro. L'una e l'altra si alimentano a vicenda fino all'epilogo di quindici giorni fa.
    Adesso Lula è in carcere e c'è da chiedersi se sia stata fatta giustizia, o se sia stato compiuto un atto di guerra politica contro Lula e contro il PT in cui la lotta per la moralizzazione della vita pubblica c'entra poco o punto.

Io e il M5S – (1/2) Del sogno e dell’incubo di un partito digitale a cinque stelle

 «Un "partito digitale" è una speranza o una minaccia per la democrazia? 
L'analisi che propongo si basa sull'esperienza personale. Dal 1992 sono 
stato ispiratore e ghostwriter di Beppe Grillo: i temi della mia professione 
e della mia passione hanno molto influenzato lui e i primi grillini, ma…»
 
di Marco Morosini - Docente di science 
politiche ambientali al Politecnico federale di Zurigo
 
Il primo "partito digitale" – il Movimento a 5 stelle – ha raccolto 11 dei 50 milioni di voti disponibili. Il mondo lo sta studiando, perché il caso potrebbe fare scuola. Infatti, il M5S dimostra che si può diventare il partito più votato, pur avendo pochissimi soldi e attivisti. La chiave del suo successo è l'uso di internet come macchina di potere, non tanto come mezzo di comunicazione. 
 
 
Il partito digitale è una nuova "tecnologia politica" che potrebbe rivelarsi un sogno o un incubo. Se fosse controllato dal basso, potrebbe aprire grandi prospettive. Ma provate a immaginarlo dominato dall'alto, per esempio da un Trump o un Putin. 
    È già avvenuto con altre tecnologie: si comincia con aspettative di progresso e emancipazione, ma poi emergono rischi e danni ai quali non avevamo pensato. Energie fossili, elettricità atomica, pesticidi, amianto: tutto ciò fu concepito a fine di bene, ma poi…. 
    L'ambivalenza delle tecnologie moderne tra sogno e incubo vale anche per il partito digitale. Il caso del M5S è doppiamente interessante perché presenta un'ambivalenza tecnologica e una politica. E' benefico o no, un partito digitale che esiste solo in internet? È benefico o no, un "partito-ratto", ossia una specie politica "che sopravvive – dice Grillo – perché si adatta a qualsiasi cosa, destra, sinistra, centro"? 
    L'analisi che propongo in questo articolo si basa sull'esperienza personale. Dal 1992 sono stato ispiratore e ghostwriter di Beppe Grillo – con alcune migliaia di pagine. Inoltre, i temi della mia professione e della mia passione hanno molto influenzato Grillo, i primi grillini e il M5S: la riforma delle interazioni tra modi di vivere, economia e ambiente.  
    Un "illuminismo digitale"? - Il partito digitale è solo una delle tante applicazioni del "digitalismo", una nuova ideologia che si sta diffondendo in un mondo che credeva che le ideologie non servissero più. La visione del digitalismo è ben descritta da Wolfram Klinker nel suo famoso articolo Silicon Valley's Radical Machine Cult . Secondo questa visione, le moderne tecnologie digitali e in particolare internet segnano l'inizio di una nuova era, in cui tutto sarà migliore. La vera emancipazione dell'umanità non verrà dalle filosofie, ma dalle tecnologie. Quel miliardo di tonnellate di plastiche, metalli e cervelli che chiamiamo Internet permetterà all'umanità di governarsi da sola, senza partiti, né (altre) ideologie. Secondo i profeti digitali, questa sarebbe finalmente l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità politica che egli deve imputare a sé stesso. Una sorta di illuminismo digitale. 
    Fu con questa visione che l'inventore del 5-stelle Gianroberto Casaleggio bussò alla mia porta il 29 ottobre 2004 per spiegarmi come cambiare il mondo. Mi chiese di convincere Grillo ad aiutarlo. Nonostante la mia messa in guardia, Grillo si lasciò arruolare nella missione digitalista di Casaleggio. I due decisero di cominciare dall'Italia. Per ora hanno avuto successo. Ma dopo? Se volete conoscere il seguito in 7 minuti, vi consiglio il video di Gaia - Il futuro della politica. Se ne sarete affascinati o spaventati, avrete comunque ragione. 
    Una carrozzeria di destra populista - Il 5-stelle è come un'automobile con una carrozzeria di destra populista e un motore di sinistra ecologista. La retorica per raccogliere voti è quella delle destre populiste europee: meno leggi, meno Stato, meno tasse, meno rifugiati e migranti, meno politici, partiti, sindacati, cooperative e ONG, meno televisione pubblica. Secondo i sondaggi, la maggioranza dei suoi elettori è fatta di uomini e di piccoli imprenditori, preferisce allearsi con le destre che con il centro-sinistra, preferisce Trump, Putin e Le Pen a Macron e Merkel. 
    La faccia nascosta e più storica del 5-stelle, invece, è social-ecologica. Molti dei 2'200 eletti condividono le idee delle sinistre socialiste e verdi europee, con le quali il 5-stelle ha la massima concordanza di voto nel Parlamento europeo (74%). 
    Un motore di sinistra ecologista - L'anima social-ecologica è più radicata di quanto la carrozzeria 5-stelle lasci credere. I grillini della prima ora si ispirano ai temi social-ecologici di Grillo negli anni '90, quando era ancora un voce critica contro il consumismo e l'aggressione pubblicitaria. "Pubblicitari vi odio" diceva Grillo sorridente in copertina, e in cinque pagine, su Sette, la rivista del Corriere della sera, il 14 ottobre 1993. Qualche settimana dopo, in un grande ritorno su RAI Uno, che l'aveva bandito per anni, lo spettacolo anticonsumistico "Beppe Grillo" ebbe un pubblico di 13 milioni di telespettatori - come un festival di San Remo. Se tutti gli spettacoli fossero così, si potrebbe rinunciare alla pubblicità. Il pubblico nello studio televisivo pagava. Applaudiva davvero, non era ammaestrato. Fu il set meno costoso nella storia della RAI: un barile di petrolio, un tavolo con decine di prodotti di consumo quotidiano. Grillo confrontava quegli oggetti con alcune loro conseguenze sociali ed ecologiche, e con le loro réclame mendaci. Il discorso era serio ed esilarante. 
    Quella trasmissione del 25 novembre e del 2 dicembre 1993 è ancora una referenza per i primi grillini. I suoi testi migliori sono raccolti, insieme a quelli di dodici anni di Grillo, in Tutto il Grillo che conta, la summa della grillosfera, che ha già venduto 500 000 copie. Nacquero così i club "Amici di Beppe Grillo" e le prime liste civiche, le cui 5-stelle significano: acqua, ambiente, energia, trasporti, sviluppo. Tutti i punti del loro programma elettorale, la Carta di Firenze dell'8 marzo 2009, erano social-ecologici. 
 
 
I riferimenti politici dei primi grillini sono l'Istituto di Wuppertal per il clima, l'ambiente e l'energia, il suo best-seller "Futuro sostenibile – Riconversione ecologica, Nord-Sud, nuovi stili di vita", a cura di Wolfgang Sachs, pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana (40 000 copie in Germania e Italia) e il suo aggiornamento del 2011 Futuro sostenibile - Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa. Grillo volle essere il protagonista del film televisivo svizzero (ispirato da quello studio) Un futuro sostenibile - Con meno, di più e meglio. Una speranza per il nuovo millennio, premio ENEA Sviluppo sostenibile nel 1999 - un altro punto di riferimento tra i grillini. 
    Meno energia, meno lavoro, meno materiali - "I have a dream" disse Grillo nel 2008. Con l'articolo «Tre meno - Perché non voto» (Internazionale dell'11 aprile), sognava tre principi strategici. Meno energia: da una società a 6000 watt pro capite a una società a 2000 watt, come deciso in referendum dal popolo svizzero, approvando la strategia dei Politecnici e del governo elvetici. Meno lavoro: subito 30 ore, più tardi 20 ore in media alla settimana, come sostenne nel 1930 J. M. Keynes, e nel 1985 l'eminenza grigia del miracolo economico tedesco Oswald von Nell-Breuning S.J. nel suo libro L'uomo lavora troppo? Meno materiali: da 40 a 20 tonnellate pro capite – grazie alla economia circolare, il cui primo pioniere è l'architetto svizzero Walter Stahel, che già tenne conferenze ai festival 5-stelle. 
    "Quasi tutti i peggioramenti della nostra vita – scriveva Grillo - hanno una causa comune: troppa economia. Troppa energia, troppo petrolio, troppi materiali, troppo inquinamento, troppi rifiuti, troppi chilometri, troppa pubblicità, troppa corruzione, troppo stress, troppo lavoro. Contro ognuno di questi "troppi" servono molte iniziative. Ma il risultato deve essere facilmente misurabile: meno economia, più vita. (…) Oggi invece facciamo il contrario: consumiamo per poter vendere, vendiamo per poter produrre, produciamo per poter lavorare. È il contrario di come hanno funzionato tutte le civiltà. (…) Un parlamentare che avesse capito queste cose dovrebbe cominciare a lavorare subito per tre obiettivi: meno energia, meno lavoro, meno materiali".  
    Nel 2018 il programma di governo del 5-stelle dice tra l'altro: dimezzare l'uso di energia, ridurre il tempo di lavoro, ridurre l'uso dei materiali attraverso un'economia circolare - e molti altri obiettivi social-ecologici. Nella grillosfera non mancano personalità di alto profilo. Per esempio il parlamentare 5-stelle candidato a essere Ministro dello sviluppo economico è Lorenzo Fioramonti, professore di economia politica, autore di Economia del benessere – Il successo in un mondo senza crescitae del best-seller GDP - Gross Domestic Problem (in Italia: Presi per il PIL). Un altro esempio di eccellenza: il grillino Dario Tamburrano è il quinto eurodeputato più influente sulle politiche energetiche. Fu lui, inoltre, l'artefice della video-conversazione tra il Presidente del Parlamento europeo e l'eco-pioniere Bertrand Piccard durante il primo volo solare intorno al mondo dell'aereo fotovoltaico Solar impulse. 
    Un consenso insufficiente - In alcune conferenze spiegai che un partito che voglia rifondare un sistema politico e morale necessita del consenso di ben più della metà dei cittadini. Alle sue origini il movimento degli "Amici di Beppe Grillo" aveva il potenziale per mirare a questo consenso. Un decennio dopo la sua fondazione, però, il M5S ha raccolto il voto solo di uno su cinque dei voti possibili (11 su 50 milioni) e solo uno su tre dei voti validi. 
    Come mai 36 milioni di elettori hanno votano contro il M5S e altri tre milioni hanno preferito votare bianca, nulla o astenersi? La risposta è nelle parole dei capi 5-stelle dopo le elezioni: "I cittadini hanno scelto il M5S". Invece di essere magnanimi come tutti i vincitori fanno in democrazia, anche nel momento della vittoria i capi 5-stelle insistono a negare la dignità di "cittadino" a chi non li vota. È quello che hanno fatto per dieci anni, negando ogni dignità politica e umana a tutti i politici di tutti i partiti ("Tutti a casa!"), ai loro attivisti e perfino ai loro elettori. "Pidioti" è il simpatico appellativo attribuito dal management 5-stelle ai 3 milioni di cittadini che l'8 dicembre 2013 si recarono ai seggi e pagarono due euro di spese per partecipare alle primarie dell'odiato Partito Democratico. 
    L'aritmetica invece della politica - I risultati di questa terra democratica bruciata dal rancore e dall'odio li stiamo osservando nelle trattative per il governo. Le grandi crisi del tempo, quella ecologica e quella delle crescenti diseguaglianze, richiedono un urgente e largo consenso per rifondare nei Paesi industriali la politica, l'economia, e gli stili di vita. Una profonda e rapida "trasformazione ecologica e solidale" è tanto importante che è stato dato questo nome al più potente dei ministeri del governo francese. In Italia invece, l'incapacità del M5S di creare un largo consenso sulle incombenze della nostra epoca ha creato una situazione desolante. Dai tavoli di trattativa in questi giorni scompaiono le idee, gli ideali, le direzioni strategiche. La politica di riduce a aritmetica, a incessanti calcoli e mercanteggi di voti e maggioranze. Nemmeno dopo il 4 marzo l'elettore 5-stelle ha diritto di sapere per che cosa sarà usato il suo voto "in bianco": se per sostenere una maggioranza che farebbe contenti Trump, Bannon, Putin e Le Pen, oppure una che farebbe contenti Papa Bergoglio, padre Zanotelli e Don Milani. Nel Panteon 5-stelle c'è posto per tutti. Per adesso. 
    I voti «cattivi» per fare le cose «buone»? - Eppure, se il M5S tornasse alle sue origini, si accorgerebbe che i temi, i programmi e gli eco-grillini ci sono ancora. Ciò che manca al 5-stelle per trasformare l'Italia sono abbastanza elettori. Qualche grillino mi dice che propagandare la post-crescita e una transizione ecologica sarebbe attraente, per esempio, in Scandinavia, ma sarebbe un «suicidio in Italia». In effetti, sembra che la maggioranza degli italiani guardi leggermente a destra e leggermente indietro. Chi guarda a sinistra e avanti non ha mai avuto una vera chance elettorale in Italia, se non facendo finta di non essere quello che è. E finendo per diventare ciò che ha fatto finta di essere. Per confronto: in Germania, i Verdi sono stati al Governo con diversi ministri per 8 anni. Dal 2011 presiedono il Governo "verde-rosso" del Baden-Württemberg, il Land più ricco e tecnologico. In Italia, invece per i media e per gli elettori i Verdi quasi non esistono. Pertanto, una retorica di destra e populista ("Vaffanculo!" "Tutti a casa") è sembrata al management 5-stelle l'unico modo per raccogliere più voti. Questa strategia comincio quasi dieci anni fa. 
 
 
La metamorfosi - Nel 2009, quello che era un movimento di base divenne partito. "Siamo orgogliosi di essere populisti" dissero Casaleggio e Grillo nei comizi. I privilegi della "casta" (retribuzioni e pensioni, auto blu, immunità) divennero la questione principale, molto più importanti – nella propaganda – delle disuguaglianze sociali e del degrado ecologico. Nei programmi elettorali del 2013 e 2014, non ci fu nemmeno un capitolo sull' ambiente. Nel volantino elettorale del 2018 "Venti punti per la qualità della vita degli italiani" solo uno dei venti punti si riferisce in parte all' ambiente, con il titolo "Green economy". In realtà, nel vero programma di governo del 2018, ci sono 180 pagine di "Programma ambiente" e molte istanze ecologiche in altri capitoli. 
    Dalla post-crescita alla crescita - Per più di vent' anni Grillo ha messo a nudo il dogma della crescita economica infinita. Tuttavia, i manager del 5-stelle propugnano ora pubblicamente un'ulteriore crescita del PIL (sarebbe impopolare fare altrimenti, mi dicono). Gli obiettivi della critica sociale 5-stelle non sono più le merci, il consumismo e le multinazionali, ma solo "i politici" e "i partiti". Nel 1995, nel film su Grillo Komik Kontra Konsum della televisione tedesca WDR, il comico disse: "Quando vedo questa televisione italiana, sono contento di non esserci". Eppure, dopo la metamorfosi populista del M5S, il marketing 5-stelle ha saputo imporre i psuoi personaggi più telgenici proprio in quel tipo di televisione che Grillo una volta disprezzava. La propaganda del partito è stat messa in mano a un campione della televisione-spazzatura. La pubblicità commerciale, uno dei principali bersagli di Grillo, è stata la principale fonte di reddito del "Blog" e dei siti-civetta ad esso collegati. 
    Dal "noi" al "loro" - Per più di vent' anni Grillo ha incoraggiato gli italiani a guardare sé stessi allo specchio e a riflettere sulle conseguenze ecologiche dei loro gesti quotidiani. "Quando compri al supermercato, tu voti con il carrello" diceva. "Loro" non esiste. "Loro", in realtà siamo noi. Era un discorso audace - come parlare di sigarette a un fumatore. Il nuovo discorso populista è più facile: se non ci fossero "loro" (tutti i politici), "noi" (tutti i cittadini) saremmo in armonia e senza contraddizioni: ricchi e poveri, padroni e lavoratori, nord e sud, giovani e anziani, maschi e femmine. Si parlò sempre meno a favore di qualcosa e sempre più contro qualcuno. Fu sempre più detto e scritto ciò che "loro" fanno male, piuttosto che ciò che noi faremmo meglio. La prospettiva a lungo termine fu sostituita dalla polemica quotidiana. Si adottò un linguaggio bellico: "siamo in guerra", "le nostre parole guerriere", "non si arrenderanno mai", "comunicato politico numero uno" (titolo autoironico che faceva il verso ai comunicati delle Brigate Rosse). Non ci furono più alleati, concorrenti, avversari. Solo nemici. Vuoi vedere che somigliando sempre più a un popolo rancoroso e poco istruito ("rincoglioniti", come dice l'onorevole Di Battista) vinciamo le elezioni? Questa scommessa cinica potrebbe anche essere vinta, rischia però di essere un altro autogol dei progressisti in Italia. 
 
(1/2. Continua)

SULLA CRISI DEL PD E DELLA SINISTRA


La riflessione politica
 
È un errore culturale definire la crisi del Pd come "crisi della sinistra" per il semplice motivo che esso è nato dalla volontà di andare "oltre la sinistra" 
oramai data per morta, al pari del socialismo, in tutta l'Europa… 
 
di Paolo Bagnoli
 
Nell'ormai inflazionata pubblicistica sulle sorti del Pd dopo la gelata elettorale ricevuta si intrecciano, peraltro senza rilevanti livelli di maturità riflessiva, sostanzialmente due temi: le ragioni della crisi della sinistra e, molto più tiepidamente, l'assenza di un partito socialista proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. 
    Per quanto sia "la Repubblica" che "L'Espresso" abbiamo avuto il merito di lanciare la tematica, ci sembra, tuttavia che, fino a oggi, gli interventi scaldino uno stanco brodo incapace di produrre alcun sapore visto che è un errore culturale, talora sfidante l'onestà intellettuale, definire la crisi del Pd come la crisi della sinistra per il semplice motivo che il Pd non è mai stato di sinistra. Esso, anzi, è nato con volontà 'ultronica': ossia andare oltre la sinistra oramai data per morta, al pari del socialismo, in tutta l'Europa. Si tratta di un elemento non piccolo fuorviante la discussione che si vuole avviare. 
    Il paniere delle delusioni raccolte non sintetizza una critica politica degna di questo nome; sono delusioni vere, ma ciò non è sufficiente per quel salto qualitativo che sarebbe necessario, ma che non vi può essere poiché il Pd è, ed è sempre stato, altro rispetto a ciò che storicamente si intende per sinistra. Quando, poi, si cerca di intrecciarlo con l'altro problema, il tutto diviene ancor più confuso essendo lapalissiano che non si può parlare della necessità – che c'è ed è bruciante – di un partito socialista se non si parla di socialismo e del suo portato storico, culturale e politico. Potremmo aggiungere che per creare un luogo socialista occorrono in primo luogo i socialisti e nessuno degli interpellati, sempre a ora, si dichiara tale: infatti, non lo è. 
    Non solo, ma rilanciare l'ipotesi di costituzione di un soggetto socialista non può essere solo il richiamo nostalgico a esperienze passate; non significa, in altre parole, cercare di far rinascere il Psi, ma certo non si può prescindere da una riflessione seria su cosa ha rappresentato il Psi nella storia d'Italia evitando di soffermarsi più di quanto è dovuto sulla stagione craxiana e sulla sua amara fine. Con il Psi, infatti, se ne è andato quello che, al netto di tutte le esperienze vissute, è stato il vero e proprio partito della democrazia italiana. 
    Il fatto, comunque, che da qualche parte – se pur timidamente – il problema venga posto è già significativo; è un segnale che, però, va colto nella sua specificità e non come succedaneo alla crisi del Pd che è questione di altra e diversa specificità. La storia della nostra lunga transizione ci dimostra che non c'è stata, né tantomeno c'è adesso, una forza capace di contrastare non solo le tendenze barbariche del capitalismo globalizzato, ma nemmeno la decadenza della democrazia politica democratica, altrimenti non ci troveremmo di fronte allo spettacolo odierno; uno spettacolo inquietante considerato che la scena è padroneggiata da una doppia trazione populistico-demagogica. Ossia, di un tarlo che sfarina dal di dentro lo Stato e la società, l'ordine politico e la coesione sociale in una complessiva decozione del sistema repubblicano. 
    Il rischio – visti anche i tentativi maldestri di cambiare la Costituzione – è di marciare anche noi verso quella che Zoltàn Kovacs, l'ideologo di Viktor Orban, ha teorizzato come "democrazia illiberale"; per Kovacs, infatti, "la democrazia non è per forza liberale". Ecco qualcosa su cui riflettere seriamente: se la democrazia non è la forma politica della libertà e delle libertà, cos'è? Cosa può essere? Un qualcosa che si chiama sempre democrazia di cui si nega, però, ogni nozione sociale e, quindi della società quale campo autonomo delle libertà e soggetto proprio della sovranità popolare; si spaccia, cioè, per democrazia un sistema affidatario confliggente con la concezione dello stato di diritto cui è strettamente connessa. 
    L'Ungheria, a veder bene, non è poi tanto lontana poiché in Italia i 5Stelle, sostenendo che la democrazia rappresentativa è superata, si affidano addirittura ad una "piattaforma online" e il loro uomo di punta, invece di chiamarlo leader, preferiscono appellarlo "capo", vale a dire comandante supremo cui, tramite la piattaforma, viene chiesto di affidarsi sulle ceneri, appunto, della democrazia rappresentativa. 
    Basterebbe solo questo motivo per dare ragione del perché occorra un partito della democrazia fondato sui principi della giustizia sociale e delle libertà politiche e civili, cioè un partito socialista. Ma se ciò ha una validità su un piano generale, l'ha anche e forse di più su quello del "sociale" nel momento in cui le diseguaglianze aumentano e la povertà si incrementa in un processo di disgregante atomizzazione sociale che lacera l'idea stessa di solidarietà. Questa idea non ha niente a che vedere con le pur non irrilevanti forme di carità in essere poiché essa implica porre al centro della condizione collettiva l'uomo e non stancarsi nel tirare avanti quelli che nascono indietro. E l'ha, ancora, per rilanciare il valore della lotta e della mobilitazione sociale per non rimanere schiacciati dalla potenza dell'economia che privatisticamente insegue la propria ricchezza ricattando chi non può opporre niente e talora, prima del vivere, ha il problema del sopravvivere. 
    Ecco perché servirebbe una forza socialista capace di compattare un blocco sociale e culturale ampio, quale centro promotore di un campo largo di una sinistra non solo socialista, poiché la lotta per la libertà e la giustizia è una battaglia di civiltà. Ed è di civiltà che il mondo di oggi ha principalmente bisogno.
 
Testo già apparso su "nonmollare" n° 18, quindicinale 
post azionista on line di Critica Liberale, 16 aprile 2018.

La razionalità di una catastrofe

di Andrea Ermano
 
Cosa ci suggerisce la tesi di Emanuele Macaluso (vai al video sul convegno "Sini­stra anno zero") circa la prevedibilità della crisi a strapiombo in cui versa il PD? Forse vuol dire che l'attuale situazione può essere compresa razionalmente e che quindi forse un rimedio è ipotizzabile. 
    Crisi talmente tanto prevedibile e prevista, che sulla nascita del PD, accom­pa­gna­ta all'epoca dalle solite fanfare mediatiche, noi manifestammo controcorrente e con molta chiarezza, già nel 2006, una serie di obiezioni fondamentali. E poi ancora due anni fa, nel giugno 2016, ci domandavamo preoccupati che cosa stesse succedendo di quella forza politica. L'onnipotente Renzi correva alla cieca verso una revisione costituzionale in "combinato disposto" con l'Italicum proprio mentre l'Italia, per dirla con Stefano Folli, scivolava "un passo dopo l'altro verso i Cinque Stelle". 
    Renzi puntava a un Senato ridotto a 100 seggi di nomina regionale. Ma non si rendeva conto di predisporre così le condizioni per un assalto al Colle?! In base all'Art. 90 della Costituzione «il Presidente della Repubblica (…) è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». Ora, se il Parlamento passa da 945 a 730 membri, e per di più eletti con quelmaggioritario, di fatto sul Capo dello Stato pende una spada di Damocle perché a quel punto basteranno 366 voti in tutto per avviare, o minacciare di avviare, la procedura di impeachment, con esiti istituzionali di gusto, diciamo, brasiliano.
    Ipotizziamo che un governo populista intenda far fibrillare la nostra adesione al­l'Eu­ro annunciando per esempio una consultazione popolare su di un qualche rego­la­mento applicativo connesso alla moneta unica. Il Presidente della Repubblica po­trebbe pur sempre replicare che la Costituzione vieta di abrogare per via refe­ren­da­ria i trattati internazionali, e poco importa se ciò non potendo avvenire diretta­men­te, si realizzi indirettamente, aggredendone "solo" il regolamenti attuativi. Su questa base il garante della Costituzione avrebbe buon gioco a rifiutarsi di firmare le eventuali deliberazioni del governo. E fin qui tutto bene.
  
Ma che ne sarebbe di noi oggi se ci muovessimo, invece, nella logica del "com­bi­na­to disposto" renziano? In tal caso il Parlamento sarebbe dominato, si badi, da un'u­ni­ca forza politica, minoritaria nel Paese, ma maggioritaria alla Camera grazie al­l'Ita­­li­cum che l'avrebbe messa in grado di innescare da sola lo stato d'accusa, ov­via­mente gridando al tradimento del mandato popolare, e senza bisogno di trattative o allean­ze. Disporrebbe così di una deterrenza inaudita contro l'inquilino del Qui­ri­na­le. E al­lora chi potrebbe tutelare l'ancoraggio euro-occidentale dell'Italia?
    Fortunatamente nel referendum del 4 dicembre 2016 ha vinto il No. E il "nostro" Felice Besostri, l'avvocato socialista autore del ricorso contro il Porcellum, è poi riuscito a portare anche il contenzioso sull'Italicum al giudizio d'incostituzionalità della Consulta, pronunciatasi con la sentenza n. 35 il 25 gennaio 2017. 
    
Ma già sull'ADL del 9 giugno 2016, di fronte all'azzardosa prospettiva tratteggiata qui sopra, noi scrivevamo (e ci si consenta l'autocitazione): «Com'è mai possibile che un fattore politico di tali proporzioni sia rimasto celato alla consapevolezza dei piani alti del renzismo?». La conclusione che ne traevamo (accanto a un po­si­zio­namento per il No al referendum) era di grande inquietudine, perché: «Non sarà agevole affrontare il mare mosso su una nave istituzionale malsicura. E dunque, come si capisce, i due anni di renzismo, perduti, oggi pesano e domani peseranno ancor di più.» E in ciò facevamo esplicito riferimento anche alle dinamiche esplo­si­ve, poi effettivamente esplose, di un'immigrazione completamente sgovernata, ad ul­teriore incentivo della radicalizzazione: «Basterà attendere che la "radica­liz­za­zio­ne" degli immigrati si "islamizzi" e quella degli autoctoni si "fascistoidizzi" ("le­pe­nizzi", "salvinizzi", ecc.)… Il risultato sarà quello di destabilizzare dalle fon­da­men­ta ogni ragionevole proposta politica».
    Al punto in cui si era valutammo, infine, che: «Renzi dovrà decidere se dare fuo­co alla casa e auto-rottamarsi oppure superare il proprio atteggiamento divisivo, riaprendo un dialogo con le componenti di sinistra, all'interno e al di fuori del suo partito. Il senso della misura e della responsabilità consiglierebbero a tutti uno sforzo di riflessione unitario. Perché ogni grande disastro ha una ricetta rela­ti­va­men­te semplice, ma infallibile: sopravvalutare le forze proprie sottovalutando del pari l'entità dei problemi da affrontare». 
    Questo scrivevamo allora. Cosa possiamo aggiungere oggi? Ascoltiamo il prin­ci­pa­le esponente della posizione mai stata comunista e neanche mai socialista, il gran­de giornalista, scrittore e regista italiano Walter Veltroni: «Amo l'idea del PD che ho fondato con milioni di persone e che non vorrei vedere affondare. Rischio che si ma­nifesta evidentemente quando un partito che ha perduto la metà dei voti, il rap­porto con gli strati popolari e con i giovani, che è stato sconfitto a tutte le elezioni da quattro anni, che ha inaridito la sua vita interna in un delirio di capicorrente e capi bastone, oggi – invece di approfondire le ragioni della più grande sconfitta delle forze di progresso dal dopoguerra e della nascita di un nuovo bipolarismo populista – sembra continuare come in questi anni, impermeabile ai risultati.»
    Di ritorno da un altro continente, lui ama l'Idea del PD... Non vorremmo in­ter­rompere emozioni, ma il problema di questa sinistra, a nostro sommesso parere, sta nel non avere proprio nessuna Idea. E mai la gente si fida di un personale politico senza Idee cioè al soldo di tutte le metafore. Non da ultimo anche per questa ragione la sinistra italiana a trazione PD è complessivamente passata, nel computo dei con­sen­si, dal 45% al 35% (firmato Veltroni), dal 35% al 30% (firmato Bersani) e dal 30% al 25% (firmato Renzi). Non chiamatelo tradimento ideale, se non vi piace, purché vi sia chiaro che la catastrofe ha una sua regolarità.
    E per le esigenze giornalistiche di un editoriale potremmo anche fermarci qui. 
    Ma c'è una notazione del 1971 di Carl Schmitt sul "progresso scatenato" che aiu­ta la comprensibilità. Si trova nel volume Le categorie del 'politico', curato dal­l'ideo­logo della Lega d'antan, Gianfranco Miglio: «Il progresso sca­tenato (…) ri­manda al futuro e induce aspettative crescenti, che esso stesso supera con nuove aspet­tative sempre più grandi». Quando la Società Editrice "il Mulino" pubblicava queste parole, Matteo Renzi non era ancora nato, ma il suo ritratto po­li­tico di "an­nunciatore" era già tutto inscritto nel firmamento del "progresso scatenato". 
    Poi nacque, crebbe, divenne sindaco di Firenze, e si scatenò. Chi non ricorda le prime assemblee alla Leopolda, il fervore di mille iperboli cibernetiche, e lui che tutti elogiava e tutti motivava: di più, di più, di più! 
    Che cosa resta di quella bellissima cavalcata? Resta che su itinerari di questo ge­nere alla fine vincono sempre gli Schmitt, i Miglio e le destre reazionarie. Perché tra il populismo degli annunci mirabolanti e quello della paura securitaria, il secondo fi­ni­rà sempre per ereditare la bolla del primo non appena questa scoppia.
    Dicevamo del senso della responsabilità che consiglierebbe a tutti uno sforzo di riflessione unitario, utile a fornire risposte in positivo e nell'interesse generale. Gui­do Calogero osservò una volta che due premesse o negative o particolari non con­cludono. Così anche in politica: non basta rottamare avversari o impadronirsi di un partito o anche di un'intera nazione per fare Politica con la P maiuscola. Occorrono premesse universali e affermative, cioè occorrono Idee, se uno ne ha. Cioè occorre essere anche disposti a pagare un prezzo: a) per averle, b) per non tradirle.
    Quindi, sbaglia chi va sostenendo che il PD non potrebbe fare governi con nes­su­no, pena la propria scomparsa: è un altro combinato di premesse inconclu­den­ti, l'una negativa, l'altra "particulare". Senza contare, nel merito, che il PD "potrebbe", e che l'interesse del Paese sta al di sopra dei singoli partiti o esponenti politici.

AI FERRI CORTI

Da Avanti! online 
 
La nuova Guerra Fredda 
tocca il suo punto più caldo
 
di Redazione Avanti!
 
Aumenta alla stelle la tensione in Siria, con Stati Uniti e Francia che si preparano ad una reazione dopo l'attacco chimico di Douma, di cui viene accusato il regime di As­sad, che nega sostenuto dall'alleato russo. Nelle prossime 24/48 ore Donald Trump prenderà la decisione sulla risposta da dare. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato che il Pentagono sta esaminando le prove e che tutte le opzioni sono sul tavolo. Proprio in queste ore, la US Navy sta schierando una task force di proiezione al largo della costa siriana: ciò non significa ovviamente un'op­zio­ne militare imminente. Washington invece chiede al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di votare la bozza di risoluzione per istituire un nuovo meccanismo d'in­chie­sta indipendente sull'uso di armi chimiche in Siria. Alcuni jet russi avrebbero sorvolato a bassa quota il cacciatorpediniere Donald Cook della marina militare Usa, compiendo manovre di disturbo mentre si avvicinava alle acque territoriali siriane.
    Il presidente francese e quello statunitense hanno avuto un colloquio sulla situa­zio­ne in Siria e hanno espresso il desiderio di una "ferma risposta" da parte della comunità internazionale. Macron e Trump hanno ribadito di vo­le­re una reazione decisa alle nuove violazioni del divieto delle armi chimiche. Se "la li­nea rossa è stata superata" in Siria, ci sarà "una risposta": è l'avvertimento ri­ba­di­to dal portavoce del governo francese, Benjamin Griveaux, alla luce del presunto at­tac­co chimico lanciato il 7 aprile contro Douma, l'ultima roccaforte dei ribelli nel­la Ghou­ta orientale, alla periferia di Damasco. Lo scambio di informazioni tra il pre­si­den­te americano e l'omologo francese, ha aggiunto, "conferma a priori l'uso di ar­mi chi­miche". Dell'attacco è stato accusato il regime siriano di Bashar al-Assad che ha ne­gato, sostenuto dall'alleato russo, secondo cui si tratta solo di una montatura. Trump ha promesso che gli USA risponderanno "con forza" all'"orribile attacco" chimico.
    Insomma la situazione tra le due superpotenze torna ad essere tesissima: il Crem­li­no difende a spada tratta Damasco accusando l'occidente di 'fake news'. Trump non vuole sentir ragione. Sull'altro fronte, il ministero degli Esteri russo minaccia "gravi ripercussioni in caso di attacco". Così la nuova Guerra Fredda ormai in atto tra Stati Uniti e Russia tocca probabilmente il suo punto più caldo: inutile dire che le conseguenze sono attualmente imprevedibili. Intanto Trump cancella la sua par­te­ci­pa­zione all'8/o summit delle Americhe a Lima a fine settimana e la visita a Bogotà, come originariamente previsto, e "resterà negli Usa per sovrintendere alla risposta americana alla Siria e monitorare gli sviluppi nel mondo".