lunedì 23 febbraio 2015

ITALICUM - MA QUESTO MOSTRO NON E’ MITE (2/3)

Che la legge elettorale partorita dal patto del Nazareno sia un po' mostruosa lo riconoscono anche i più benevoli. Pochi si sono accorti che questo mostro non è per nulla mite.

 

di Luciano Belli Paci

 

Il premio di maggioranza ed il ballottaggio eventuale: incostituzionalità al quadrato. - La Corte Costituzionale con la sentenza n° 1/2014 ha cassato il premio di maggioranza previsto dal Porcellum perché "tale da determinare un'alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi". La sentenza, citando espressamente la giurisprudenza dell'Alta Corte tedesca, sottolinea che "qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell'elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del "peso" del voto "in uscita", ai fini dell'attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell'organo parlamentare". Su questi presupposti è stata dichiarata l'incostituzionalità del premio di maggioranza perché "determina una compressione della funzione rappresentativa dell'assemblea, nonché dell'eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un'alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l'intera architettura dell'ordinamento costituzionale vigente".

    Giova osservare che in nessuna delle democrazie occidentali esiste un "premio di maggioranza" che, in una elezione su base proporzionale, trasformi la maggioranza relativa in maggioranza assoluta dei seggi.  L'unico esempio simile è quello della Grecia, dove però il premio alla lista prima classificata è in misura fissa, 50 seggi, e non necessariamente assegna la maggioranza in parlamento.  Tutti gli altri sistemi maggioritari si innestano sui collegi uninominali, ponendo così l'elettore di fronte ad una scelta consapevole che ha in palio esclusivamente l'eletto di quel singolo collegio.

    La convivenza tra proporzionale e "premio", prima del Porcellum, ha avuto in Italia due infelici precedenti: la "fascistissima" legge Acerbo del 1923 e la "legge truffa" del 1953, mai di fatto applicata, che rafforzava col premio la coalizione che avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti.  Se quella era una truffa, chissà quale fattispecie del codice penale si dovrebbe usare per il Porcellum e per l'Italicum !

    La legge concepita al Nazareno e poi più volte rimaneggiata prevede un premio che varia in misura tale da far ottenere il 55 % dei deputati, ma inserisce la soglia minima del 40 % per l'attribuzione del premio ad una singola lista (non più alla coalizione), prevedendo che in caso di mancato raggiungimento di tale soglia si dia luogo ad un secondo turno di ballottaggio tra le prime due liste.

    Un caso davvero unico al mondo, che stravolge i principi democratici più elementari.

    Nelle democrazie conosciute le regole sono semplici.  Se si vota con il cosiddetto maggioritario "secco" a un turno, il primo classificato vince anche con la maggioranza relativa (ma sempre nei collegi uninominali, uno per uno).  Nel nostro caso, poiché la sentenza della Consulta impone l'adozione di una soglia minima e l'impianto della legge è proporzionale, è chiaro che per rispettare la prescrizione si sarebbe avuta l'attribuzione del premio solo al raggiungimento del quorum, mentre in difetto sarebbe rimasta la ripartizione proporzionale (salvo eventuali sbarramenti).

    Se invece si vota con un sistema a doppio turno, ovunque nel mondo, dalla Francia al Cile, dal Brasile alla Tunisia, innanzitutto il ballottaggio riguarda solo cariche uninominali e mai l'attribuzione ad un partito della maggioranza parlamentare, e poi c'è una regola-base: se nessuno ottiene la maggioranza assoluta al primo turno, si deve andare al ballottaggio.

    Solo in Italia, benché da più di 20 anni pratichiamo il doppio turno per l'elezione dei sindaci e siamo tutti ben consapevoli del fatto che anche il 49,99 % dei voti non basta per vincere al primo turno, proprio quelli che per anni hanno sostenuto il modello del "Sindaco d'Italia" vogliono imporre un'inedita democrazia minoritaria, nella quale con il 40 % (cioè avendo contro il 60 % !) si vince senza dare agli elettori il diritto di scegliere col ballottaggio quale delle minoranze far prevalere.  Ergo, al motto "la maggioranza vince" si deve sostituire quello opposto: "la minoranza vince".   Con il che la "compressione della funzione rappresentativa dell'assemblea", la "lesione dell'eguale diritto di voto" e la "alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica" che rendevano illegittimo il Porcellum non solo non sono state rimosse, ma per certi aspetti risultano perfino aggravate.

 

(2/3 – continua)

 

 

 

IPSE DIXIT

 

L'Italia 1 - «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.». – Costituzione della Repubblica italiana, Articolo 11

 

L'Italia 2 - « L'Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa è la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire». – Sandro Pertini

 

Cinquemila - «Se hai 5000 uomini "pronti", fagli riparare le scuole, ché quelle non sono "pronte"». – Crozza

 

venerdì 13 febbraio 2015

Una sconfitta culturale, prima che politica

La damnatio memoriae degli ex Pci-Pds-Ds.
 
di Ettore Colombo
 
Una ricostruzione apparsa sul Corriere della Sera a firma Maria Teresa Meli mi ha fatto pensare. Il succo dell'articolo e' questo: le rivalita' tra ex leader del Pci-Pds-DS-Pd si sono elise da sole nella corsa al Quirinale. Vero, e anche abbastanza evidente. Ne deriva una marginalita' di fatto: i protagonisti di quella storia non hanno in mano piu' nulla. Ne' il Quirinale, ne' palazzo Chigi, ne' le presidenze di Camera e Senato. Non succedeva, in effetti, da vent'anni. Non interessa qui discutere come e' stato possibile. Materia quotidiana per noi retroscenisti di Palazzo.
    Bersani, che ha rinunciato a proporre se stesso, chiudendo con Renzi su Mattarella, neppure e' stato invitato al ricevimento al Quirinale. "Presidente del Consiglio incaricato è scaricato" ha detto di se, con una considerevole dose di autoironia. D'Alema, che puntava su Amato, non e' neppure piu' parlamentare e, come ama dire con disprezzo per le vicende altrui, si occupa di Europa di Pse tramite le sue fondazioni. Veltroni, altro sconfitto nella corsa per il Colle, si occupa di film, libri, cultura. Fassino fa il sindaco e si limita a schiumare di rabbia per essere stato tagliato fuori. Di Occhetto si sono perse le tracce e nessuno ne sente la mancanza. La sinistra dc, invece, nelle sue diverse versioni che la videro protagonista ai tempi della Balena Bianca (cattolico-democratica, di Base, morotei, sindacale) non ha solo conquistato il Colle, con Mattarella, e palazzo Chigi, con un epigono sia pur lontano e nuovista, oltre che nuovo, della sua storia, Matteo Renzi, ma ha sempre coltivato storia e memoria di se', ritrovandosi unita, sia pure con la discrezione tipica dei paludati ex-Dc, e rinfrancata grazie alla convergenza di anime diverse su un nome solo. Mattarella, appunto.
    Ex andreottiani come Fioroni, ex forlaniani come Guerini, ex cattolici democratici ed esponenti dell'ultimo Ppi come Castagnetti, Bianco, e altri, ex sindacalisti neocentristi come Marini e D'Antoni, ex rinnovatori poi fondatori della Rete come Leoluca Orlando, ex dicci' di sinistra come Franceschini hanno lavorato con un solo obiettivo , portare Mattarella al Colle. E ci sono riusciti alla perfezione. Senza invidie, gelosie, veti reciproci. Coltivando soprattutto l'antico vizio della memoria.
    Cosa resta, invece, della storia del Pci e della sinistra italiana, negli epigoni del Pci-Pds-DS poi confluiti nel Pd? Poco o nulla. Eppure, un tempo, non era cosi'. Togliatti inserisce la lezione di Gramsci nel corpus dello storicismo crociano e liberale italiano, smussando ne gli angoli del pensiero e la portata rivoluzionaria. Amendola, il 'destro' Amendola, recupera la storia e il patrimonio del socialismo delle origini e degli albori del movimento operaio per proporre (gia' negli anni Sessanta!) il "partito unico della classe operaia" cercando, pur senza successo, di agganciare il Psi. Ingrao, negli anni Settanta, propone in un famoso saggio, Masse e potere, l'esaltazione dell'ingresso salvifico delle masse proletarie nelle architetture del sistema istituzionale, cercando il raccordo con le forme di protesta e di ribellione che animarono gli anni '70. Persino Craxi riscopre, in funzione anticomunista, il pensiero laico, libertario e radicaleggiante di Proudhon contro Marx e i marxisti. Le attivita' di istituti come il Gramsci o di scuole di politica come Frattocchie, prima di chiudere, negli anni Novanta, continuano a produrre e sfornare ricerche, analisi,dossier, intelligenza politica collettiva. Persino Occhetto, per giustificare la nascita del suo Pds, propone l'ardito collegamento alla Rivoluzione francese e al suo radicalismo giacobino in funzione anti-Urss e anti-mummificazione del pensiero socialista classico. Dagli anni Novanta in poi, e' il nulla. Quando nascono i DS, l'approdo a esso di componenti minori (socialista, cattolico sociale, repubblicana) e' una pura operazione di ceti dirigenti.
    Quando nasce il Pd, Veltroni getta nel calderone riferimenti tanto larghi e vasti (dai fratelli Kennedy a don Primo Mazzolari…) quanto improbabili e incoerenti tra loro. La tradizione del Pci, anche solo la trasmissione della sua memoria, viene azzerata, cancellata a tal punto che neppure si puo' piu' nominare. Viene 'salvato' solo Enrico Berlinguer, ma del pensiero di Berlinguer si prende solo la figurina della questione morale, pure importante, rimuovendo tutta la sua carica di esploratore di nuove frontiere (l'eurocomunismo, il compromesso storico, l'alternativa democratica). La destra ex amendoliana che assurge al Quirinale con Napolitano ne recupera l'afflato europeista, ma ne dimentica la carica sociale. Bersani, pur dicendo di voler rimettere mano alla 'Ditta', non opera alcun radicamento del partito nei luoghi del conflitto, a partire da quelli sociali e sindacali, lasciando avvizzire sezioni e gruppi dirigenti locali, memoria storica e identita' culturali e politiche. Poi arriva Renzi, e quello che sappiamo.
    Una sconfitta, quella del gruppo dirigente che ha vissuto la fine del Pci (e, cioe', dei vari D'Alema, Veltroni, Fassino, Bersani) che diventa presto pura perdita di posti di potere e vani tentativi di pallido riposizionamento tattico che si riducono a battaglie di retroguardia. Che fare?, dunque, direbbe Lenin. Nulla, ormai. La battaglia culturale, quella che gramscianamente consisteva nella conquista delle "casamatte" del Potere, che puntava a innervare la tradizione socialista verso equilibri sociali ed economici piu' avanzati, che vedeva nella storia e nella memoria elementi imprescindibili e antecedenti ogni possibile battaglia politica, e' persa. Restano piccole posizioni di potere, tattiche correntizie e posizionamenti politicisti che permetteranno, forse, a pezzi della sinistra del PCI-PDs-DS che furono di sopravvivere a se stessi, ma la battaglia per l'egemonia nell'album sinistra – o in cio' che si chiama adesso – attuale e' persa. In modo definitivo, temo.

ITALICUM IL MOSTRO NON E’ MITE

di Luciano Belli Paci
 
Che la legge elettorale partorita dal patto del Nazareno sia un po' mostruosa, nel senso di Frankenstein, lo riconoscono anche i più benevoli: è una miscela di maggioritario e proporzionale, di turno unico e ballottaggio, di preferenze e liste di nominati.
    Molti però si stanno affannando con cortigiano realismo a spiegare che, benché difettosa, è un "bicchiere mezzo pieno", soprattutto se confrontata con la sua versione primitiva, che era un modello tra il turco e la pirateria.
    Ma il fatto che si siano scongiurati ancor più arditi esperimenti in corpore vili non può impedirci di vedere che il mostro non è per nulla mite.
    Il Porcellum portato alle estreme conseguenze. - L'aspetto più velenoso del Porcellum del 2005 non era la presenza dei, pur gravissimi, meccanismi incostituzionali condannati dalla sentenza n° 1/2014 della Consulta (l'abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate), ma era il disegno di fondo che mirava a determinare un radicale cambiamento della forma di governo con  legge ordinaria, appunto la riforma elettorale, senza formalmente riformare la Carta fondamentale con le garanzie dell'art. 138.
    Col Porcellum si dava vita di fatto all'elezione diretta del governo e del suo premier, addirittura ostentata con l'obbligo per le coalizioni di indicare un capo politico.
    Però c'era un baco, dolosamente inserito dai suoi stessi autori con interessata prudenza: la netta differenziazione tra i sistemi maggioritari della Camera e del Senato rendeva assai probabile che il vincitore non arrivasse ad un controllo pieno di entrambi i rami del parlamento, come difatti si è puntualmente verificato sia in questa legislatura sia nelle due precedenti.
    Il combinato disposto dell'Italicum e della demolizione del bicameralismo, eliminando il baco, porta invece quel disegno al suo pieno compimento e lo fa senza alcuna inibizione, all'insegna del dogma qualunquista per cui la sera delle elezioni si deve sapere chi governerà per i prossimi 5 anni.
    Il presidenzialismo si attua così nella sua forma più pericolosa e meno funzionale, quella dell'elezione diretta dell'esecutivo in uno con la sua maggioranza parlamentare.  Un sistema che non a caso non esiste nelle democrazie occidentali e di cui si ricorda un unico precedente recente: quello attuato in Israele negli anni '90 e presto rimosso, dopo un paio di travagliate legislature, perché non funzionava.
    La Costituzione formalmente non viene modificata, ma è manomessa. Il presidente del consiglio ed i ministri non verranno più nominati, se non pro forma, dal presidente della Repubblica, ed il parlamento monocamerale, nel quale una sola lista con la maggioranza relativa avrà in premio il 55 % dei seggi, assumerà inevitabilmente un ruolo servente nei confronti del governo e del suo leader, il quale è anche capo del partito e dominus delle candidature.
    Chi dice che è più o meno così anche nelle altre democrazie, grazie a sistemi maggioritari o presidenziali, mente sapendo di mentire.
    Nella grande maggioranza degli stati europei vigono sistemi proporzionali, più o meno corretti.
    Dove vi sono leggi maggioritarie si vince collegio per collegio, o in un turno unico (Regno Unito) o in due turni (Francia).  Nel primo caso, se il primo partito non conquista la maggioranza assoluta dei collegi, si deve formare una coalizione in parlamento.  Nel secondo caso i collegi si conquistano solo con la maggioranza assoluta dei voti, al primo turno o al ballottaggio; e se nessuno ottiene la maggioranza assoluta dei collegi anche qui occorre formare una coalizione in parlamento.
    Nei sistemi presidenziali si sa effettivamente la sera delle elezioni chi governerà per l'intero mandato, ma l'assemblea legislativa è sempre eletta con una separata votazione e non necessariamente la maggioranza parlamentare è dello stesso colore dell'esecutivo.
    Montesquieu, nel suo Spirito delle leggi (1748) fonda la teoria della separazione dei poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - sull'idea che "chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere".  È saggio rottamare Montesquieu?
(1/3 – continua)

LA BOLGIA IN PARLAMENTO E IL VUOTO DELLA POLITICA

di Emanuele Macaluso
 
Rotto il Patto del Nazareno, la Camera dei Deputati – dove si discutono legge elettorale e riforma del Senato – è una bolgia.
    Forza Italia, che queste leggi aveva votato al Senato, si è affiancata ai "grillini", alla Lega e alla piccola pattuglia di SEL, nell'opposizione schiamazzante. Il Partito Democratico, da parte sua, non mostra di possedere una strategia e tiene unito il suo gruppo parlamentare non già sul contenuto delle leggi bensì usandolo come ostacolo contro gli schiamazzatori.
    Insomma, come fatto osservare più volte, la politica non si vede. Prevalgono il casino (mi si scusi il termine) e l'antipolitica.
    Ora ci si domanda se non sia meglio andare al voto con la proporzionale indicata dalla sentenza della Corte Costituzionale. Forse sì. Ma adesso tutti, a destra e a sinistra, temono lo scioglimento delle Camere. In ogni caso questa decisione dipende da Renzi: se c'è il governo il Presidente della Repubblica non può mandare a casa il Parlamento. E Renzi valuta che, nonostante tutto, il Parlamento approverà tutte le sue leggi. Si vedrà.
    È vero che la legge sul Senato dovrà tornare a Palazzo Madama per la seconda lettura. Eppure, quel che si deve registrare è l'assenza di una vera strategia politica. Siamo al tira a campare nella confusione e nell'incertezza del domani. Un'incertezza che rivela una sostanziale debolezza nella guida politica.

lunedì 9 febbraio 2015

C’ERAVAMO TANTO AMATI

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

  

A distanza di poche ore l'elezione di Mattarella produce i primi effetti politici. Non la sua persona ovviamente, ma il contesto con cui si è arrivati alla sua nomina fa la prima vittima, e di quelle eccellenti. Forza Italia è precipitata nel caos e il 'patto del Nazareno' si frantumano anche se non è escluso che rinasca dalle ceneri come l'Araba fenice.

 

"Denunciamo – si legge in un passaggio del documento approvato dal Comitato di presidenza di Forza Italia riunito in giornata – il metodo scelto dal Partito Democratico per arrivare alla designazione del candidato Presidente. La stima e il rispetto, umano e politico, per la persona designata, non possono farci velo nel giudicare inaccettabili le modalità adottate nella trattativa tra le forze politiche dal partito di maggioranza relativa. Modalità che hanno sconfessato quel principio di condivisione delle scelte istituzionali, elemento fondante del patto sulle riforme da noi sempre onorato". Parole pesanti che mettono una pietra tombale sull'accordo del Nazareno.

    Una giornata convulsa quella di Forza Italia. Da una parte la 'voce contro', quella di Fitto che chiede l'azzeramento dei vertici del partito, i quali si riuniscono, mettono sul tavolo le loro dimissioni e si vedono confermare la fiducia da parte di Silvio Berlusconi. Fitto inceve incontra i giornalisti alla Camera proprio mentre a palazzo Grazioli si riunisce l'Ufficio di presidenza FI: l'europarlamentare azzurro ne fa parte ma da tempo ne ha disconosciuto la legittimità formale e quindi lo diserta. Fitto ribadisce che non pensa proprio di andarsene da Forza Italia. Al contrario "resto e porterò avanti questa battaglia dall'interno", al grido "vanno azzerati tutti i vertici: basta con i nominati dall'alto".

    Ieri Berlusconi ha tentato di comporre le fratture incontrando prima Denis Verdini e poi lo stesso Raffaele Fitto e, in serata, ha  riunito a palazzo Grazioli i fedelissimi. Ed è proprio a quella riunione che a tarda sera è stata decisa la convocazione prima dell'ufficio di presidenza 'ristretto', con la partecipazione dei soli aventi diritto di voto, ovvero una trentina di componenti, poi la convocazione dei gruppi di Camera e Senato nel pomeriggio. Fitto chiede tabula rasa ed ecco che capigruppo, vicecapigruppo e i vertici FI in blocco presenti al Comitato di presidenza affidano le loro dimissioni dai rispettivi incarichi a Berlusconi. Il quale le respinge, confermando a tutti piena fiducia. Dopo gli errori clamorosi degli ultimi tempi – afferma Fitto in una conferenza stampa alla Camera – c'è la necessità di un azzeramento totale degli organi del partito".

    "Il patto del Nazareno è rotto, congelato, finito" annuncia a questo punto Giovanni Toti, consigliere politico di Forza Italia. E proprio il patto siglato tra Berlusconi e Renzi è finito sul banco degli imputati durante la riunione del comitato ristretto di Forza Italia.  I vertici del partito di Berlusconi hanno duramente criticato le posizioni assunte dal presidente del Consiglio in occasione dell'elezione del nuovo Capo dello Stato. È stato proprio Renzi, dicono gli azzurri, a disattendere la parola data.

    Dal Partito democratico arrivano le riposte. La prima dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti: "Contenti loro – dice – contenti tutti. Ognuno per la sua strada, è meglio per tutti. Per noi, sicuramente". La seconda di Debora Serracchiani, vice segretario del Pd: "Se il patto del Nazareno è finito, meglio così. La strada delle riforme sarà più semplice. Arrivare al 2018 senza Brunetta e Berlusconi per noi è molto meglio". Insomma il Pd non sembra stracciarsi le vesti, anzi ora vede più facile e senza ostacoli il cammino delle riforme. Ma il voto di Forza Italia, come ricorda Toti è stato "più volte determinante. I voti parlamentari non sono problemi nostri, noi siamo all'opposizione. Stando ai numeri che abbiamo espresso in Senato – conclude – io non starei così sereno". E poi aggiunge: "Forza Italia non è affatto antiriforme. Stando noi all'opposizione da oggi ci sarà un cammino diverso. Abbiamo dato mandato ai gruppi parlamentari di valutare di volta in volta i singoli provvedimenti e voteremo quello che sarà utile al paese. Il Pd non può pretendere di condividere ad intermittenza le scelte". Parole che a dire il vero non sono nuove. È da vedere ora se dalle minacce passeranno ai fatti. E soprattutto è da vedere cosa farà Alfano dopo la clamorosa giravolta sul Quirinale. "Per noi – dice al Tg3 il ministro dell'Interno – non è una buona notizia l'addio al Patto del Nazareno da parte di Forza Italia, sarebbe stato meglio che il Patto durasse. Noi ci stiamo per fare le riforme e cambiare volto al Paese. C'e' quindi la maggioranza per fare proseguire le riforme. Speriamo in un riaggancio di Forza Italia, ma in ogni caso noi ci siamo". Sempre dal Nuovo centro destra parla anche Lupi: "Alfano non deve dimettersi da ministro ma dobbiamo rilanciare la nostra azione di Governo: non dobbiamo cambiare organigrammi ma logica politica, non è questione di cariche ma di contenuti".

    E sulla eventualità di una verifica di Governo interviene il segretario del Psi Riccardo Nencini: "La coralità del voto espresso sul Capo dello Stato rende vana ogni verifica di Governo. Bisogna invece 'spingere' con determinazione per affrontare ora le questioni aperte e in transito tra Camera e Senato per evitare colli di bottiglia con l'inizio della campagna elettorale per le elezioni regionali e amministrative".

 

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Il nuovo Capo dello Stato

Un uomo dai tempi in cui c’era la politica

 

di Paolo Bagnoli

 

Per i prossimi sette anni il Colle più alto di Roma avrà il volto severo di Sergio Mattarella. Vedremo come sarà la sua presidenza; crediamo ben diversa da quella del suo predecessore. Facciamo al nuovo Presidente gli auguri più sinceri di un buono e proficuo lavoro convinti che, chi di solito parla poco, combina per lo più non male.

    Oggi quello che possiamo fare è di vedere il contesto politico nel quale è maturata la candidatura di Mattarella con la quale Matteo Renzi, va riconosciuto, porta a casa un risultato che lo rafforza. L’esigenza primaria che egli aveva era quella di tenere insieme un partito-contenitore che è un caleidoscopio in cui c’è tutto e pure il contrario di tutto. Per farlo doveva recuperare la dissidenza interna guidata da Bersani e qui si è cristallizzata la candidatura, non sappiamo se scientemente o per puro caso visto che il presidente del consiglio ha conosciuto di persona Mattarella solo pochi giorni orsono. I postcomunisti, quando vedono uno della vecchia sinistra DC, non resistono. A prescindere, avrebbe detto Totò. Il personaggio non era certo di quarta fila. Con ciò il partito-collettore si è ricompattato nel voto e il richiamo della sirena DC ha suonato anche in altre forze; così Mattarella ha avuto un successo innegabile.

    Renzi, inoltre, raccoglie un altro importante risultato che irrobustisce la sua leadership alla segreteria del PD. Oramai Bersani e i suoi hanno chiuso la loro corsa. Sul piano politico sono oggettivamente meno forti di prima e non potranno che omologarsi del tutto all’insieme renziano.

   Con la solita spregiudicatezza e velocità Renzi ha beffato Berlusconi. Prima gli ha carpito il voto sulla legge elettorale e poi lo ha mollato spaccandogli l’alleanza rimessa in piedi con Alfano. Crediamo che anche Raffaele Fitto, pure lui già dc, non debba lagnarsi della salita di un già dc al Quirinale!

    Nessuno sa più in che consista il cosiddetto “patto del Nazareno”. Era, e rimane, un’oscura sconcezza che ci sembra tanto profumare di assetto radiotelevisivo. Uno dei contraenti, Berlusconi ha ben poche armi in mano: quasi una forza di riserva di cui, nei momenti di difficoltà, il sulfureo presidente del consiglio si può servire come meglio crede.

    Ora, se esaminiamo in parallelo le sorti di quella che fu FI e di quella dei postcomunisti, pensiamo si possa dire che la Seconda Repubblica è sepolta. Essa ci lascia in eredità una democrazia dallo spazio più stretto, come ci dicono l’abolizione dei consigli provinciali e del Senato nonché una legge elettorale con un premio di maggioranza che equivale a circa la metà dei membri della Camera e un alto numero di nominati. Questo bipolarismo consegna il Paese a un partito padrone e, di fatto, istituisce un premierato forte.

    Ultima osservazione: se la Seconda Repubblica è tramontata e bisognerà pensarne una Terza è veramente significativo che al ruolo di garanzia e di traghettatore sia stato chiamato un uomo politico democristiano della Prima Repubblica, cioè di un’epoca in cui, pur con tutti i limiti e i difetti, c’era tuttavia la “politica”.

    

    

Il nuovo Capo dello Stato

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

L’ARBITRO E QUELLO DEL “CARPE DIEM”

 

di Emanuele Macaluso

 

Non voglio commentare, per filo e per segno, il discorso del presidente Mattarella. Ma sono rimasto estasiato da tutti i commenti degli addetti ai lavori e di tanti esponenti di primo, secondo, terzo e anche quarto piano i quali tutti, all’unisono, si attribuiscono i meriti della scelta e che adesso sotto tutti “mattarelliani”. E tutti accolgono con ovazione l’annuncio che il presidente sarà un arbitro imparziale.

    E cosa s’aspettavano che dicesse: “sarò di parte”? Uno spettacolo, quello dei commentatori, non proprio di grande levatura.

    Il discorso di giuramento del presidente della Repubblica, pregno di riferimenti alla Carta costituzionale, quasi una lectio costituzionale, viene da una profonda cultura politica del cattolicesimo democratico. Dove si trovano il tema dei diritti, del sociale, della politica internazionale e dei sentimenti popolari. Insomma, un discorso che contiene una visione della società, della politica e del ruolo istituzionale del Quirinale. 

    Anche il presidente del Consiglio, Renzi, si è profuso in sperticati giudizi. Ma io, detto con tutto il rispetto, non gli ho mai sentito pronunciare, anche in occasioni di una certa importanza, un discorso di forte spessore e che contenesse una visione strategica. Anche Renzi viene dal filone cristiano democratico. Ma tutti noi sappiamo che la storia dei cattolici impegnati in politica è fatta di esponenti di destra, di centro e di sinistra.

    A me Mattarella, persino nella figura fisica, ricorda Aldo Moro. Quello stile.

    Renzi è ancora fermo al “carpe diem”.

 

 

Il nuovo Capo dello Stato

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Litanie

 

E come non parlare del discorso di insediamento del dodicesimo Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella?

 

di Edoardo Varini

 

La prima cosa che vorrei dire è che non è stato un discorso, è stata una litania. Dalla struttura di una litania: c'è un sacerdote che enuncia e un'assemblea che risponde. Assomiglia tanto, assomiglia troppo, alla Litania dei santi secondo il rito ambrosiano, quella da recitarsi prima delle sepolture.

 

·         Santa Maria / Intercedi per lei!

·         San Michele / Intercedi per lei!

·         San Giovanni / Intercedi per lei!

·         San Giuseppe / Intercedi per lei!

 

“Lei” è la Repubblica Italiana. Turrita, sì, come sempre, ma anche battuta, depredata, vilipesa, svenduta, irrisa, lapidata a morte da tutti quelli che hanno scagliato la prima, la seconda e la terza e la quarta e l'ennesima pietra per tacersi la coscienza con il loro frastuono.

 

·         Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro. / Applausi!

·         Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro. / Applausi!

·         Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale. / Applausi!

·         Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici. / Applausi!

·         Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace. / Applausi…

 

La litania continua, ma io mi fermo qui. Per concludere con un passo che il Presidente ha messo in cima: «Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione». Rischio? Presidente, non è un rischio. È già mille volte accaduto… >>> Continua la lettura sul sito

           

 

 

 

IPSE DIXIT

 

Molti anni dopo - «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.» Gabriel Garcia Marquez

 

martedì 3 febbraio 2015

L’analisi - Il contagio greco

 di FeliceBesostri

 

La vittoria di Tsipras e Syriza è netta, anche se per 2 seggi non ha la maggioranza assoluta nel Parlamento monocamerale greco. Spero che a sinistra non si levino grida o imprecazioni di disappunto: Syriza ha il 36, 34%. La legge elettorale greca è meglio dell'Italikum, perché il premio di maggioranza è fisso, pari a 50 seggi e quindi non conferisce una percentuale fissa di seggi a prescindere dai voti. Quindi minore è il consenso elettorale tanto più alta è la consistenza del premio. Con il Porcellum era evidente, con l'Italikum al turno di ballottaggio. Altro elemento è la percentuale dei votanti ferma al 63,87%, peraltro superiore a quella italiana alle europee, e in leggera crescita rispetto al 62,49% del giugno 2012. L'elemento più spettacolare è la progressione geometrica del consenso di Syriza 16,79% e 52 seggi nel maggio 2012, 26,89% e 71 seggi nel giugno 2012 fino al 36,34% e 149 seggi nel gennaio 2015. Un successo indirettamente proporzionale a quello del PASOK, che nello stesso arco di tempo è passato dal 13,18% e 41 seggi del maggio n2012 al 12,28% e 33 seggi del giugno 2012 per finire al 4,68% e 13 seggi delle ultime elezioni.

    Un successo preparato da una coerenza politica e programmatica e da un radicamento sociale con la sua presenza con iniziative di welfare sociale solidale, sostitutivo di quello pubblico smantellato dall'austerità imposta dalla Troika. Una strategia simile a quella di Hamas nella striscia di Gaza o delle formazioni islamiste tunisine o egiziane: una caratteristica di formazioni nazional-popolari, lontane sia dal modello leninista, che socialdemocratico classico, piuttosto più simile alla fase iniziale del movimento operaio quello delle leghe e delle società di mutuo soccorso.

    C'è da sperare che la lezione greca non si traduca in un'imitazione invidiosa di un modello di successo, cui mancherebbe, comunque, il leader con il carisma di Tsipras. Certe parole d'ordine hanno segnato sconfitte clamorose della sinistra, come il "Faremo come in Russia!" del 1919-1921, nell'illusione di una Rivoluzione imminente, mentre montava la reazione fascista.

    Syriza nasce da una ricomposizione unitaria di formazioni diverse di sinistra: un prodotto di successo. Quando pezzi di gruppi dirigenti di sinistra si sono uniti in Italia hanno dato vita al fallimento della Sinistra Arcobaleno nel 2008 e alla Rivoluzione Civile del 2013. SEL si è salvata grazie ad un incostituzionale premio di maggioranza.

    Via via la sinistra italiana si è appassionata alla Linke, al Parti de la Gauche e più recentemente a Syriza o Podemos, come nell'ambientalismo il modello erano i Grünen tedeschi, tanto per rimanere in Europa. Ci sono state anche infatuazioni. terzomondiste da Castro al Sub-comandante Marcos, da Lula a Chavez.

    A sinistra sono progressivamente scomparsi o ridotti ai minimi termini i filoni ideali storici socialista e comunista, insieme con la rete delle Case del Popolo, solo parzialmente sostituite dai Circoli ARCI, per non parlare della trasformazione irreversibile del movimento cooperativo e dalla progressiva separazione dal Sindacato.

    Due pilastri della sinistra in Europa usciti da un circuito virtuoso di confronto e dibattito plurale a sinistra. Come fa la sinistra a rinnovarsi e ripensarsi in assenza di luoghi, anche fisici, di confronto? Questa è la prima necessità e soprattutto non pensare che i problemi sarebbero automaticamente risolti con la scoperta del leader, che mediaticamente possa competere con Renzi e Salvini: ammesso e non concesso che quello sia il problema dovremmo prima domandarci perché la sinistra non sia stata capace di produrre un leader. La ragione, non l'unica, ma la principale, è la sua mancanza di credibilità, come classe dirigente alternativa.

    Gli scandali dei rimborsi regionali sono stati generalizzati e trasversali. Le scelte di sopravvivenza hanno prevalso rispetto alla coerenza politica ed istituzionale. Un esempio recente, mentre in Parlamento la sinistra e i M5S contrastavano l'Italikum e la revisione costituzionale si partecipava alle elezioni farsa di secondo grado in 64 province e nelle città metropolitane continentali, escluse Venezia e Reggio Calabria. Ovvero la difesa del Porcellum nelle Giunte delle elezioni per compiere le surroghe, malgrado l'annullamento della Corte Costituzionale. Questa notizia non è di pubblico dominio, ma resta una vergogna.

    Le divisioni e gli esodi verso la maggioranza renziana sono un altro segno di una classe politica disinvolta.

    La scelta di allearsi con una formazione di destra dei Greci Indipendenti dell'ANEL desta perplessità, ma con i suoi 13 seggi mette con 162 seggi la maggioranza al sicuro e più coesa. Né con il Pasok con 13 seggi né con il KKE con 15 seggi vi era una possibile coalizione.

    Tuttavia se, come è doveroso, siamo convinti che Syriza non debba fallire per cambiare segno all'Europa, dobbiamo costruire una sinistra nuova anche in Italia. Una sfida per tutti, ma in particolare per i socialisti. Ci sono tre scelte teoriche: 1) conquistare la maggioranza del PSI; 2) Costituire un altro partito socialista; 3) Dare vita ad una Federazione per il Socialismo che abbia quantitativamente e qualitativamente una massa critica tale da rappresentare l'area socialista, i suoi valori, la sua storia, il suo pensiero e la sua elaborazione programmatica dentro alla società italiana e all'interno del dibattito della sinistra italiana per una proposta alternativa di governo e un progetto di società più giusta, libera e solidale che coniughi sogni e bisogni.

    Ciascuna delle complenti della sinistra e dei suoi filoni ideali si deve mettere alla prova nel confronto con tutti gli altri . I punti in comune vanno trovati con urgenza perché l'emergenza democratica è una priorità da affrontare. Una emergenza aggravata dalla crisi economica da cui bisogna uscire e che, invece, le politiche europee stanno rendendo più acuta con ricadute politiche e sociali, che minacciano la stessa costruzione europea. Non lo possiamo permettere.

 

Tsipras e sindacati, un dialogo difficile

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

  

di Dimitri Deliolanes

 

La dura crisi scoppiata nel 2010 ha dato un colpo decisivo alle due organizzazioni centrali. Sia la GSEE che l’ADEDY hanno proclamato più di una trentina di scioperi generali, ma senza alcun risultato. Non solo è stato violentemente abbattuto il costo del lavoro (in media di circa il 40%) ma anche i diritti sindacali sono stati drasticamente limitati. Perfino i contratti collettivi di lavoro hanno perso ogni rilevanza legale. Questo ha provocato una grave crisi di rappresentanza e incisività nel movimento sindacale greco. Syriza ne soffre ancora di più. La sua impetuosa crescita di consensi non si è tradotta anche in maggiore influenza all’interno delle due confederazioni. Persino al livello dei sindacati di categoria o negli ordini professionali, la corrente del partito, denominata META (Schieramento di Classe e di Lotta degli Operai e degli Impiegati) si trova in minoranza. L’intervento sul mondo del lavoro, quindi, deve per forza passare attraverso l’opera del governo.

    Nel programma economico del nuovo esecutivo la questione del lavoro sta ovviamente al primo posto. Come Tsipras ha annunciato già a settembre a Salonicco, i provvedimenti previsti si basano su due pilastri. Il primo è l’immediato intervento in favore delle famiglie senza alcun reddito. A questo si è voluto associare, però, anche un ripristino del minimo salariale ai valori pre-crisi, cioè 780 euro al mese al posto degli attuali 470. Il secondo pilastro è quello più noto e riguarda l’elaborazione di una strategia di sviluppo economico del paese. Su questo Syriza e lo stesso Tsipras sono stati molto riservati finora, e c’è un motivo. Il ragionamento del premier è che la Grecia ha ottenuto, con un costo altissimo e con una dose di contabilità creativa, un surplus notevole, quindi il settore pubblico non costituisce più quel pozzo senza fondo che inghiottiva enormi risorse statali. Il problema è il debito che pesa in maniera determinante sul bilancio dello stato, visto che ha raggiunto oramai il 176% dell'esiguo Pil greco. La proposta di rinegoziare il debito nasce da questa esigenza di liberare risorse per investimenti in favore dell’economia reale e creare occupazione, ed è accompagnata anche dalla condizione che la restituzione del debito sia accompagnata da una ripresa dello sviluppo. Tsipras ha ripetuto molte volte che non ha intenzione di tornare all’epoca dei deficit e per questo lascia ogni elaborazione riguardo una possibile strategia di sviluppo agli esiti della trattativa con l’Unione Europea. Sarebbe impossibile per qualunque governo greco fare piani sulla carta con capitali inesistenti, rispettando le norme in vigore sul deficit ed evitando di ricorrere ai mercati.

    Non resta quindi che valutare i possibili effetti che potrebbe avere sull’economia greca il ripristino dei minimi salariali del periodo pre-crisi. Secondo Tsipras, tali effetti sarebbero sicuramente positivi: aumentando, anche se di poco, gli stipendi, c’è speranza che tragga nuovo alimento il mercato e il denaro cominci a girare e provochi un aumento dei consumi, dando un po’ d'ossigeno all’oceano dei ceti medi ora in condizioni disastrate. Di più non si può sperare.

    Come finirà questa trattativa? Non è possibile fare previsioni. Evidentemente, non tutto il piano di Atene sarà recepito da Bruxelles è possibile dire già da ora che nessuno tirerà la corda con il rischio di spezzarla. Quindi tutte le chiacchiere sul possibile “grexit” erano solo espedienti pre-elettorali, finalizzati a spargere il terrore tra gli elettori incerti. Una volta che si sono dimostrati inefficaci, sono stati dimenticati già dopo la chiusura delle urne. L’essenziale è comprendere l’importanza attribuita dal nuovo governo ateniese alle reazioni degli altri governi europei, in particolare di quelli dei paesi indebitati come l’Italia. Tsipras ritiene, non a torto, che il caso greco fungerà da catalizzatore in modo da accelerare il processo di sganciamento dal merkelismo di gran parte dei governi interessati. D’altronde, in questa direzione lavora anche Draghi.  >>> Continua su rassegna.it