lunedì 23 giugno 2014

Le politiche che uccidono l'Europa

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

La questione salariale. Oltre alla “austerità espansiva” si punta ancora sulla “precarietà espansiva”, con conseguenze pesanti sui redditi. Scelte sostenute da una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorderebbe molto l’ancien régime.

di Paolo Pini *)

La Commissione europea ha presentato all’inizio di giugno le sue “Raccomandazioni 2014-2015” per i singoli paesi dell’Unione. Il responso elettorale ha ammorbidito il timing delle stesse, ma non la loro sostanza. La rotta non muta: vincoli di bilancio da rispettare, consolidamento fiscale da proseguire, riforme strutturali da realizzare. D’altra parte non vi erano aspettative per un cambiamento, semmai per una “non indisponibilità” a fornire qualche forma di flessibilità a seguito della richiesta del nostro ministro dell’Economia dopo l’approvazione del Def 2014.

Nel caso italiano, la Commissione ha attestato che non siamo allineati nel percorso di rientro dal debito e quindi nel raggiungimento degli obiettivi di medio termine di pareggio del bilancio strutturale. Si richiede che entro settembre 2014 si realizzi questo allineamento con interventi aggiuntivi, oltre che il rispetto degli impegni assunti sul terreno di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, riforme sul mercato del lavoro, e altro ancora, rinnovando le precedenti raccomandazioni e chiedendo un più attento monitoraggio e verifica degli interventi realizzati e programmati. Come dire “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Poche settimane fa sono stati resi pubblici i dati congiunturali di crescita del reddito nei paesi europei per i primi tre mesi del 2014 e di crescita tendenziale a un anno, rispetto allo stesso periodo del 2013. La rappresentazione era sconfortante, ma allo stesso tempo non sorprendente.

A fronte dei segnali di uscita dalla crisi di fine 2013, che troppi commentatori ottimisti interpretavano come indicazioni inequivocabili della “luce alla fine del tunnel”, il dato congiunturale più recente ha scioccato i più, riconsegnandoci un’Europa squilibrata che si muove a più velocità, peraltro tutte deboli se confrontate a quella statunitense e anche a quella giapponese. In questo quadro deprimente, l’Italia si è presentata con un -0,1% nel primo trimestre 2014 e un -0,5% come dato tendenziale a un anno di distanza (rispetto al primo trimestre 2013). L’obbiettivo del Def 2014, che programmava una crescita del +0,8% per il 2014, non appare più alla portata; peraltro le stesse previsioni internazionali, che indicavano un minore +0,6%, vengono aggiustate ulteriormente verso il basso, a +0,5%.

Dall’inizio della crisi, il Pil italiano è diminuito di 7 punti percentuali, e analoga è oggi la distanza (output gap) tra reddito effettivo e reddito potenziale nonostante che quest’ultimo sia diminuito proprio a causa della crisi. Il Pil reale italiano è oggi al livello del 2000, 14 anni orsono. La prospettiva di farlo crescere da qui al 2018 di oltre il 7% appare una chimera, in assenza di una vigorosa politica economica di domanda che sostituisca quella attuale di rigore che amplifica la depressione.

L’Istat (La situazione del paese, 2014) ha poi certificato che le politiche di austerità in Italia, con avanzi primari crescenti durante la crisi (oltre il 2% sul Pil), hanno contribuito alla diminuzione del reddito peggiorando allo stesso tempo il debito pubblico (giunto al 133% sul Pil) e portando le persone disoccupate e inattive ma potenzialmente sul mercato del lavoro (scoraggiati e giovani senza lavoro e senza formazione) a superare la soglia dei 6 milioni nel 2013. Ma l’Europa insiste sul fatto che la via dell’austerità espansiva non deve essere abbandonata, anche se siamo entrati nel settimo anno della crisi, come i dati di inizio 2014 certificano e soprattutto anche se la lunga depressione che dal 2008 investe l’Europa è anche un lascito delle politiche economiche adottate: le politiche di austerità espansiva e di precarietà espansiva, attuate quasi in contemporanea nei vari paesi.

Le prime, del rigore dei conti, hanno agito sulla base della fallace idea secondo la quale dal contenimento dei deficit pubblici conseguissero riduzioni dei debiti e si liberassero risorse che il privato sarebbe andato a utilizzare più efficacemente. Ma non si è tenuto conto del “vuoto di domanda” che così l’arretramento del pubblico creava, oltre che dell’efficacia spesso solo presunta del privato. La minore domanda pubblica non è stata compensata da una maggiore domanda privata, anzi consumi privati e investimenti privati sono diminuiti mettendo in crisi tutta la domanda interna, europea e nei singoli paesi, lasciando tutto l’onere della crescita a una domanda estera peraltro non più trainante. L’esito è stato che proprio a seguito del rigore i debiti invece di diminuire sono aumentati – nell’Eurozona, da un rapporto del 65% sul Pil, si è superata la soglia del 95% – e al contempo la crescita del reddito si è azzerata, mentre quella dell’occupazione è divenuta negativa.

Le seconde, della competitività salariale, hanno avuto il loro pilastro nella flessibilità del lavoro, contrattuale e retributiva. Anche in questo caso un’idea fallace le ha alimentate, ovvero che l’aumento dell’occupazione potesse essere conseguito unicamente a condizione che si realizzasse un trasferimento di tutele del lavoro e di diritti da chi li aveva a chi ne era privo. Gli esiti sono stati molteplici, e prevedibili, sull’offerta e sulla domanda. Si è ridotta la platea del lavoro tutelato ed è aumentata quella del lavoro non tutelato, senza peraltro accrescere le tutele per questo ultimo. Si è così realizzata una sostituzione di lavoro più che una creazione di lavoro, con conseguente riduzione di tutele e diritti sia per chi li aveva conquistati nel passato, sia per chi si attendeva una alleggerimento dello stato di precarietà lavorativa e sociale. Ma non sono stati intaccati solo tutele e diritti: le stesse retribuzioni ne hanno sofferto, sia quelle degli insider che quelle degli outsider. Le retribuzioni nominali sono state compresse, e le retribuzioni reali diminuite; queste ultime non hanno certo tenuto il passo della pur debole crescita della produttività, determinando un’ulteriore fase di diminuzione della quota del lavoro sul reddito (si veda Janssen R., Social Europe Journal, 30 maggio 2014: http://www.social- europe.eu/2014/05/ wage depression/).

Questa politica di svalutazione interna caricata sul lavoro ha forse contribuito ad aumentare la competitività del sistema e la sua crescita Non appare questo l’esito, semmai tale politica sembra produrre due effetti, entrambi perniciosi. Da un lato, ne è derivato un contenimento della domanda di beni e servizi che trae origine dal reddito da lavoro, andando ad aggravare gli effetti negativi delle politiche di austerità sulla domanda interna. Dall’altro, la competitività del sistema non ne ha tratto vantaggio, se è vero che sia per effetti di scala (minori volumi di produzione) che per quelli di sostituzione (lavoro meno retribuito e meno produttivo), la dinamica della produttività langue in tutta Europa, e prosegue la sua ventennale stagnazione in Italia in presenza di contenimento dei salari nominali.

D’altra parte, che queste non fossero le politiche più adatte da adottare nella crisi lo aveva ben indicato Keynes nel capitolo dedicato ai “Cambiamenti dei salari nominali” (il capitolo numero 19) della sua Teoria generale. Tuttavia la Commissione non è interessata a ciò che scriveva Keynes, e neppure a ciò che sostiene una platea, a dire il vero molto vasta, di economisti più o meno keynesiani. Per cui le sue Raccomandazioni del 2 giugno continuano a prescrivere per l’Italia, come per gli altri paesi, niente altro che la continuità delle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, contrattuali e retributive, per accrescere la competitività salariale. La crescita è affidata al contributo della componente estera della domanda, anche se questa pesa meno del 20% per i paesi dell’Unione, mentre il rimanente 80% è domanda interna, consumi delle famiglie, investimenti privati e pubblici, servizi collettivi.

Per accrescere la prima ci raccomandano di proseguire nelle politiche coordinate e simmetriche che comprimono la seconda, anche se queste hanno effetti depressivi sul reddito complessivo e sull’occupazione, producendo anche l’effetto collaterale di un innalzamento del rapporto debito/Pil per tutti i paesi. La competitività salariale è intesa come lo strumento cardine per conseguire questo obiettivo, che opera via riduzioni del costo unitario del lavoro, tale da accrescere la competitività di costo europea nei mercati globali. Per la Commissione ciò si realizza con interventi che ridimensionano il ruolo della contrattazione collettiva, nazionale e di settore, nella determinazione dei salari nominali, che invece devono essere allineati alla produttività dell’impresa, meglio ancora dei singoli lavoratori.

Al contempo i salari reali non devono essere preservati da un meccanismo d’indicizzazione e salvaguardia del potere d’acquisto, ma rispondere alle condizioni di un mercato del lavoro concorrenziale, dove ingressi e uscite devono essere peraltro deregolati per servire le esigenze produttive dell’impresa, senza interferenze esercitate dalle istituzioni che vincolano l’agire manageriale e creano anche barriere tra i lavoratori protetti e garantiti, gli insider, e coloro che non lo sono, gli outsider. In fondo la precarietà o la disoccupazione non sono altro che l’altra faccia della medaglia dell’operare di istituzioni collettive: ridimensionate queste, saranno ridimensionate sia la precarietà che la disoccupazione.

Una narrazione questa che viene resa più appealing dalle tecniche economiche sulla disoccupazione strutturale che portano quella italiana all’11% lasciando un misero 2% per quella involontaria keynesiana. Così da far risultare evidente ciò che evidente non è, ovvero che non sia la domanda il problema, semmai le condizioni di offerta, e quindi la necessità delle riforme strutturali. Una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorda molto l’ancien régime.

*) Professore di Economia politica, Università di Ferrara

 

IL DIBATTITO SULLE RIFORME

Fermatevi

di Pietro Folena

Prima che sia tardi Matteo Renzi e i suoi consiglieri, con l'appoggio di larga parte dell'ex-minoranza, dovrebbero evitare un cortocircuito traumatico nella coscienza del Paese. Non basta evocare i “voti”, come si è fatto in queste ore, mentre scrivo queste righe: non c'è voto, né “plebiscito” che giustifichi atti di prepotenza e di intolleranza come quello che ha visto il PD cacciare Vannino Chiti e Corradino Mineo dalla Commissione Affari Costituzionali perché non “allineati”. Non ho memoria, in epoche recenti, di un atto di questa brutalità. Il tema va al di là del merito della riforma: viene messo in discussione un principio costituzionale sacro, e cioè la non esistenza di un vincolo di mandato del parlamentare, il quale non deve rispondere al partito, ma alla sua coscienza, interpretando lì il senso del mandato ricevuto.

Ricordo le sacrosante polemiche bersanian-renziane contro Beppe Grillo quando a più riprese è intervenuto per imporre un vincolo agli eletti del M5S. Oggi Anna Finocchiaro, che presiede la Commissione, giustifica questa sostituzione affermando che il problema della libertà di coscienza esiste solo per l'Aula!

Non si sta discutendo della fiducia al Governo né della legge di stabilità; né di temi come quelli del lavoro, su cui le sensibilità nel PD sono molto differenti, e acute; e neppure della pace – chi scrive nei DS, in Commissione e in Aula, votò a più riprese in dissenso all'epoca di controverse decisioni sulle missioni militari, senza mai subire atti di imperio paragonabili a questo.

Qui si discute di Costituzione, di una materia di per sé al riparo, più di ogni altra, da diktat delle nomenklature di Partito.

Il PCI, nell'era del Cominform, affrontò la formulazione della Costituzione con un'apertura e una disponibilità ben superiori rispetto a quelle dimostrate ora.

I quattordici senatori del PD hanno fatto bene a autosospendersi. Bisogna chiamare i vertici del Partito a riflettere, e a tornare indietro, sperando che sia solo l'inesperienza ad aver provocato questo autogol. Bisogna invitare i circoli e gli iscritti a esprimersi sulla questione.

Matteo Renzi ha vinto largamente. Ma farebbe un errore a voler stravincere. Non c'è 41%, e neppure 51% che giustifichi sulla questione delle regole un'intolleranza per chi la pensa diversamente.

Ora questo giovane leader deve dimostrare di non essere un altro capo populista, come altri che abbiamo conosciuto in questi anni, ma uno statista, e un leader che vuole promuovere una nuova stagione “democratica”.

Avere la capacità di fermarsi non è un atto di debolezza, ma una dimostrazione di forza: la forza della ragione, contro le ragioni della forza.

 

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IL DIBATTITO SULLE RIFORME

L’appello agli autosospesi

“Salvaguardate l’unità del Partito”

La riforma costituzionale e, in particolare, il profilo e la natura che il nuovo Senato dovrà avere hanno dato al confronto interno al PD una connotazione che rischia di far male non solo al Partito, reduce da una vittoria elettorale nettissima che lo carica di particolari responsabilità, ma anche al Paese, che richiede determinazione e coerenza nel processo di cambiamento che il Governo Renzi ha avviato.

La decisione di autosospendersi dal gruppo di 13 senatori del Pd, tra i quali i 3 eletti all’estero, a seguito della sostituzione di alcuni di loro nella commissione nella quale si sta discutendo della riforma costituzionale ci appare non convincente e non giustificata.

La rivendicazione della libertà di coscienza, infatti, sacrosanta su questioni che attengono alla sfera etica e morale, a noi sembra inappropriata rispetto a una questione di architettura costituzionale che, per quanto importante e delicata, va affrontata nell’ambito e con le regole del confronto democratico, per il quale vale il rapporto maggioranza-minoranza.

Il diritto al dissenso rispetto a specifiche soluzioni, anch’esso intangibile in ogni sede, di partito e istituzionale, non può diventare di fatto, in particolari condizioni, un grimaldello per scardinare un’impostazione che in più occasioni ha avuto il vaglio della discussione e della decisione democratica. I gruppi del PD di Camera e Senato, infatti, hanno numerose volte discusso la questione delle riforme costituzionali ed orientato la propria azione, non senza posizioni dialettiche, al sostegno del progetto di riforma presentato dal Governo. L’iter in Commissione Affari costituzionali del Senato doveva passare per una fase istruttoria di confronto con le altre forze, con l’obiettivo di arrivare a un testo unificato, garantito dalla maggioranza che sostiene il Governo e dal Partito Democratico, che ne è il fulcro.

La libertà di esercitare il mandato parlamentare e di dissentire, valori certamente da tutelare, trovano giustificazione e certezza nel dialogo costante con il proprio gruppo di appartenenza e nel rispetto del vincolo fiduciario con esso che giustifica il rapporto di rappresentanza. La sede propria, dunque, per manifestare una diversa opinione rispetto a quella del gruppo di appartenenza è quella dell’Aula, dove ci si misura con la proposta definitiva e si parla all’intero Parlamento e all’opinione pubblica. Non può essere quella della Commissione, se la diversa opinione nelle condizioni date impedisce ad un partito che ha responsabilità di maggioranza e di governo di avanzare una proposta complessiva già passata attraverso i filtri di una confronto democratico interno.

Queste considerazioni non sono un giudizio sulle decisioni assunte dal Gruppo PD del Senato, né una valutazione sulla decisione di autosospendersi assunta anche da tre colleghi senatori eletti all’estero. Sono, piuttosto, un’espressione di quella libertà di opinione che loro stessi rivendicano.

Ci auguriamo sinceramente che prevalga il senso di responsabilità, che si lavori per salvare questa legislatura e che si metta a frutto la credibilità politica guadagnata con il voto del 25 maggio, che ci impone di proseguire sulla strada delle riforme indicata dal Governo e sostenuta dalla grande maggioranza del PD. La questione che ci troviamo ad affrontare è tutta politica, non costituzionale. Il Partito Democratico è chiamato a usare la forza che ha ricevuto dall’elettorato per portare a buon fine il cammino delle riforme e dare segni concreti di saper corrispondere con i fatti all’attesa di cambiamento. Questo vale per tutti, non solo per una maggioranza interna.

I deputati Estero cel PD

Farina, Fedi, Garavini, La Marca, Porta

 

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IL DIBATTITO SULLE RIFORME

PARLANO GLI AUTOSOSPESI

“RIENTRIAMO NEL GRUPPO MA…”

Sosterremo i nostri emendamenti al testo base del Governo

Abbiamo preso atto delle dichiarazioni del presidente del gruppo Pd del Senato, Luigi Zanda. Le riteniamo positive su due punti di grande rilievo.

1) Viene confermato come l'articolo 67 della Costituzione valga sempre, tanto in aula quanto in commissione.

2) I 20 senatori che avevano firmato il Ddl Chiti e i 14 che si sono autosospesi dal gruppo a difesa dell'articolo 67 della Costituzione, fino a quando non fosse intervenuto un chiarimento, non vengono considerati 'frenatori delle riforme' o 'ricattatori della maggioranza', ma colleghi impegnati in una battaglia politica, che come tutte le battaglie può essere discussa, ma resta legittima.

Riteniamo non positiva, invece, la decisione di confermare le sostituzioni di Corradino Mineo e di Vannino Chiti nella Commissione Affari Costituzionali.

Con questa seria riserva, riteniamo che le dichiarazioni del presidente Zanda ci consentano comunque di riprendere il lavoro all'interno del gruppo Pd del Senato. In particolare, continueremo a sostenere i nostri emendamenti al testo base del Governo che, peraltro, le trattative in corso o in fieri con Lega, Forza Italia e M5S potrebbero ulteriormente modificare.

Gli emendamenti verranno sostenuti in Commissione. Quelli che non fossero accolti potranno essere ripresentati in Aula. Una speciale attenzione verra' data alla riduzione contestuale del numero dei senatori e dei deputati, alla elezione diretta di tutti pur nel superamento del bicameralismo paritario, all'obbligatorieta' del referendum confermativo, qualunque sia la maggioranza parlamentare che approvera' la riforma''.

I senatori del PD: Chiti, Corsini, D'Adda, Dirindin, Gatti, Giacobbe, Lo Giudice, Micheloni, Mineo, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci e Turano.

P.S.: Non e' stato possibile contattare il senatore Felice Casson, in missione all'estero.

 

giovedì 12 giugno 2014

Riflessioni sulla sinistra italiana - NON E’ LA TERZA VIA !

di Felice Besostri

Le elezioni europee pongono alla sinistra italiana seri interrogativi, se non si fa incantare dalla vulgata, che viene quotidianamente propinata dai mezzi di informazione: vittoria netta del Pd (e) di Renzi . che pur in fase di diminuzione della partecipazione elettorale incrementa in percentuale e in voti assoluti rispetto al 2013 e raggiunge una percentuale del 41%, un record per un partito italiano, a parte la DC di Fanfani.

Il successo è innegabile e il PD è comunque l'interlocutore essenziale per ogni alleanza vincente di centro sinistra e i suoi militanti, iscritti ed elettori, in parte più o meno consistente, comunque necessari, soggettivamente e oggettivamente, per ogni ipotesi di sinistra nel nostro Paese e/o in Europa, a prescindere dalla fragilità di questa vittoria nel prossimo futuro.

Per una sinistra che si ripensi e conseguentemente si riorganizzi, c'è una questione pregiudiziale, cioè un giudizio sulla collocazione del PD sull'asse destra-centro-sinistra. Se il PD è giudicato/percepito come un partito di sinistra in senso lato, l'ultima incarnazione di un filone storico, politico e ideologico, che risale al PCI, poi PDS e infine DS, non riducibile alla sola eredità comunista, ma comprensiva degli apporti socialisti, cristiano sociali, repubblicani e laici ed infine della sinistra popolare democratica cristiana: piaccia o non piaccia individualmente non c'è altra scelta da fare che entrare nel PD e combattere al suo interno una battaglia per uno spostamento a sinistra delle sue scelte programmatiche. Una scelta, l'entrismo, rafforzata dalla decisione improvvisa, ma irrevocabile, di aderire al PSE. Soltanto una pregiudiziale anti-socialdemocratica potrebbe giustificare un rifiuto di principio di questa scelta. C'è soltanto un ostacolo, ma non di poco conto: il PD non si è mai definito un partito di sinistra a partire dalla intervista di Veltroni al Pais all'indomani della sua plebiscitaria investitura come leader della nuova formazione. Già nel discorso del Lingotto la dialettica innovazione/conservazione faceva aggio sul binomio destra/sinistra. Fatta salva una breve parentesi bersaniana, sconfitta nelle urne nel 2013, il PD nel suo complesso e nella sua maggioranza non si definisce un partito di sinistra. Con l'elezione di Renzi alle primarie di fine 2013 la scelta è talmente chiara, che va rispettata. Con coraggio Renzi si è liberato di classici idola fori della sinistra dal finanziamento pubblico della politica al rispetto del ruolo del sindacato, in particolare della CGIL alla elettività degli organi delle amministrazioni territoriali e della stessa seconda Camera, il Senato, perciò di un organo comunque partecipe del processo legislativo.

L'apice di una concezione leaderistica e quindi di svalutazione dei corpi intermedi è la proposta di legge elettorale conosciuta come Italikum (che per un mio vezzo scrivo con la kappa). In Renzi l'autonomia della politica dal diritto è non solo praticata, ma anche teorizzata: soltanto con le sue riforme si può salvare l'Italia: il decisionismo del capo è giustificato dallo stato di necessità e quindi dall'emergenza. Sul piano della politica economica non può ignorare i vincoli degli impegni europei, può solo contrattare tempi più lunghi e una maggiore flessibilità giustificata dalle riforme istituzionali messe in cantiere, che ridurranno a regime la capacità interdittiva delle corporazioni e degli interessi organizzati intorno al settore pubblico che va ridotto attraverso le privatizzazioni.

Il sostegno alle politiche di Renzi è massiccio nei mezzi di informazione dalla carta stampata all'audiovisivo (Berlusconi anche all'apice del suo consenso politico non ha mai avuto un consenso così vasto). Nelle elezioni europee ne ha tratto profitto. Il popolo italiano ha bisogno di rassicurazioni più della verità e se l'alternativa è tra speranza e paura, che vinca la speranza è umanamente giustificabile, tanto più in assenza di una sinistra con vocazione maggioritaria, cioè rappresentativa di una cultura di governo con proposte alternative, ma credibili e realistiche. L'unica opposizione aveva innalzato le bandiere di un leader greco, giovane ed anche simpatico, e anche non estremista. Tuttavia l'immagine data era quella di una testimonianza, che doveva vincere la battaglia della sopravvivenza, altro che alternativa di governo. La crisi investe la stessa democrazia rappresentativa: dunque occorre contrapporre un altro modello di società. Paradossalmente questa radicalità non contraddice il realismo e il gradualismo perché legati alla scelta del consenso democratico, che impone di cercare il consenso della maggioranza sia nella conquista sia nella gestione del potere. Bastano due scelte di fondo per caratterizzare la sinistra : difesa della democrazia a cominciare dal sistema elettorale e riduzione delle diseguaglianze, che hanno raggiunto livelli intollerabili e incompatibili con il comune senso di giustizia.

Le terze vie non sono più praticabili perché non ci sono ricchezze vere o virtuali da distribuire ed anche il quadro istituzionale presenta mutazioni che non sono state analizzate a fondo nelle loro implicazioni: il capitalismo finanziario non ha bisogno dello Stato e neppure che la democrazia passi dallo stato nazionale, dove si è storicamente realizzata in parallelo, in Europa, con lo sviluppo del welfare state, ad istituzioni sovranazionali democratiche, quali le Federazioni. In particolare progressivamente si riducono i ruoli e i poteri delle assemblee elettive rappresentative a favore dagli esecutivi, anche grazie a leggi elettorali maggioritarie e al trasferimento di poteri alle organizzazioni internazionali dominate dai governi e ad accordi come il NAFTA e il TT&IP, attualmente in discussione a Bruxelles in assenza di ogni trasparenza.

Il capitalismo finanziario ha sue regole e istituzioni, che abbattono le barriere nazionali tradizionali, le agenzie di rating giudicano in modo inappellabile le politiche economiche dei governi, prescindendo dalla legittimazione democratica e dal consenso popolare, di cui dispongano. Progressivamente gli Stati nazionali sono svuotati dagli attributi classici della sovranità, quale il battere moneta, grazie a strumenti finanziari creativi, neppure trattati in mercati trasparenti. Persino la guerra e la sicurezza sono privatizzate o privatizzabili (contractors e appalti a società private di video-sorveglianza, in generale l'estensione del Sesto Potere, come definito da Bauman) e la politica estera viene sottratta al monopolio della diplomazia: in Italia il caso dell'ENI è paradigmatico. Negli affari importanti l'amministrazione della giustizia è sottratta alla sfera pubblica, ma affidata a decisioni inappellabili di collegi arbitrali spesso istituiti nell'ambito di accordi internazionali neppure ratificati dai parlamenti (WTO-OMC per esempio) Se la democrazia è il governo dei poteri visibili è indubbio che gli spazi democratici si stanno restringendo, perché gli organi rappresentativi elettivi perdono poteri decisionali e persino di controllo, perché finalizzato ad assicurare una maggioranza preventiva all'esecutivo, cui sono subordinati: un paradossale rovesciamento del principio per il quale il governo deve rispondere al Parlamento. Il principio della divisione dei poteri, fondamento costituzionale dello Stato democratico, insieme con la garanzia di diritti (Art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1793), comune alla forme di governo parlamentare e presidenziale, è stato superato in Italia con l'elezione diretta dei vertici esecutivi accompagnata da un premio di maggioranza nell'organo assembleare funzionale alla stabilità dell'esecutivo: una pericolosa concentrazione di potere sconosciuta ai sistemi presidenziali e semipresidenziali. Non solo, con le liste bloccate si è assegnato un potere enorme ai vertici di partiti, non soggetti a alcuna legge organica sui partiti politici come nel resto d'Europa e come richiesto dall'art. 49 della Costituzione.

L'individuazione dei problemi da risolvere e dei compiti da svolgere non è sufficiente per costruire un soggetto politico , l'esigenza di avere in Italia una sinistra con vocazione maggioritaria non può prescindere da un a sua concreta possibilità, perché se si rivolge a soggetti politici esistenti e già operanti nelle istituzioni deve anche rispondere all'esigenza di garantire, almeno apparentemente, la possibilità di rielezione. Se questa, peraltro, diventa l'unica motivazione il fallimento di un progetto politico diventa altamente probabile.

Il punto di partenza è la crescente astensione dal voto, che alle europee del 25 maggio ha raggiunto un nuovo record. I non votanti non sono una categoria omogenea, ma un semplice confronto con elezioni passate, anche limitate alle elezioni 2008-2013 consente di concludere, he vi è una quita consistente di elettori insoddisfatti dell'offerta politica a sinistra. La somma del voto PD-PSI del 2008 di 12.450.791 voti è superiore di 1.247.560 all'eccezionale risultato del PD 2014, dovuto in grandissima parte al recupero di voto centrista precipitato dai 3.591.607 voti del 2013 ai neanche 200.000 voti del 2014. Il recupero della lista Tsipras, ammirevole per aver raccolto le firme e superato la soglia, è comunque stato parziale (1.108.457 voti) se confrontato sia con la Sinistra Arcobaleno 2008, che al complesso delle liste di sinistra alle europee del 2009 (Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e SeL ottennero 1.986.286 voti): l'unico raffronto vincente è con i 765.188 voti di Rivoluzione Civile del 2013. Il M5S è diversamente apprezzato a sinistra, da un atteggiamento di attenzione positiva al disprezzo totale, ma penso si possa convenire che nel parlamento si opponga alle leggi elettorali e riforma e costituzionali proposte dal PD e che le motivazioni di protesta e cambiamento del voto pentastellato potrebbero coincidere con quelle di un movimento di sinistra: ebbene tra il 2013 e i 2014 sono mancati circa 2.900.000 voti.

La base materiale per una sinistra alternativa non protestataria esiste, dunque si pone la questione su quali culture politiche si possa fondare. Si possono in questa fase soltanto formulare ipotesi, che sono nel contempo proposte da verificare sul campo.

Poiché si tratta di superare una debolezza specifica della sinistra italiana in confronto a quella europea la prima cultura politica che sarebbe necessaria è quella socialista sia nelle sue componenti di sinistra riformatrice e progettuale, che di capacità di governo, quella del primo centro-sinistra. I socialisti sono dispersi in tutto l'arco politico che va dal PD alla sinistra antagonista, pare che il loro destino, ma a sinistra non sono i soli a condividerli, sia quello di scegliere tra essere testa di topo (in formazioni intellettualmente vivaci, ma senza peso politico) o coda del leone(testimonianza rassegnata nel PD), per usare un modo di dire spagnolo.

I primi, ma non esclusivi interlocutori, nel reciproco interesse per non muoversi soltanto sul passato e nel presente, sono le componenti confluite in SEL, che nelle loro formazioni di origine (Rifondazione Comunista, DS e Verdi) hanno posto il problema di una rottura con le eredità del passato ed individuato in un socialismo europeo rinnovato ed idealizzato un possibile comune approdo. Una sinistra rinnovata su queste basi ha interlocutori naturali nei sindacati e nell'associazionismo (ARCI p.es.), come nel Terzo Settore e nel volontariato civile e, senza mitizzazioni, nei popoli viola o arancioni o di altri colori dell'iride che la fantasia dei giovani saprà inventare. Nuova linfa per la formazione di una classe politica rinnovata potrebbe venire dalle pratiche di movimenti come quelli per i beni comuni o contro il precariato o dei comitati di base su problemi specifici di un territorio, che sono stati alla base del successo iniziale del M5S. Vanno individuate forme non rigide si dialogo e confronto e di sviluppo di azioni comuni, che dovrebbero avere come base comune iniziale la difesa e estensione della democrazia costituzionale repubblicana e la lotta alle diseguaglianze nello spirito dell'art. 3 c. 2 della Costituzione.

 

La sfida del sindacato

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

Quello che serve per riformare davvero la P.A. Il progetto Renzi-Madia è deludente: nessun ragionamento di sistema, nessuna proposta di ridisegno complessivo delle funzioni , nessun approccio generale e organico. Serve una forte azione negoziale che coinvolga i sindacati.

di Rossana Dettori,

segretario generale Fp Cgil

Siamo arrivati alla fine di questa estenuante fase “preparatoria” della riforma della pubblica amministrazione del governo Renzi e ciò che resta sul tappeto è ben poco rispetto alle aspettative che si sono volute ingenerare. Nessun ragionamento “di sistema”, nessuna proposta di ridisegno complessivo delle funzioni pubbliche, nessun approccio generale che possa farci leggere la possibilità di un progetto organico. Nulla che sia nulla sugli errori del passato, sulle controriforme Brunetta-Monti e sulla necessità di un loro superamento. E nulla, ancora, sulla crisi economica in corso, che ha inciso, fra le altre cose, sia sulla garanzia dei servizi ai cittadini, sia sulle condizioni di lavoro, aggravando, anche per questa via, una crisi istituzionale che è sotto gli occhi di tutti.

La pubblica amministrazione avrebbe avuto bisogno non di un dibattito fatto di mail, hashtag e post sui social, ma di una discussione vera, trasversale, coinvolgente, per certi versi anche appassionante, e questo anche al di là del rapporto che il governo Renzi intende avere con il sindacato. Così non è stato, ma ciò non esclude che così può ancora essere: si sottragga il tema delle pubbliche amministrazioni dall’agorà della comunicazione mediatica e si recuperi il tempo perduto, aprendo nel paese quella discussione che è mancata clamorosamente. Il sindacato confederale vuole, pretende, di fare la sua parte, e intende farlo non in difesa, ma rilanciando. Le proposte ci sono, la disponibilità a concorrere a un progetto di riforma che serve al paese pure.

Abbiamo bisogno di riorganizzare innanzitutto le istituzioni territoriali e il sistema di relazioni e responsabilità che le lega ai diversi livelli di governo della cosa pubblica. Nell’ultimo decennio la spesa inutile per eccellenza, e quindi da tagliare, è stata demagogicamente individuata in quella degli enti locali. L’assenza di una strategia precisa nell’affrontare il tema del riassetto complessivo del territorio ha aggravato le difficoltà e aumentato i problemi di funzionalità. Sono ormai indispensabili, quindi, riforme strutturali in questo senso, a cominciare da una nuova scrittura del Titolo V della Costituzione, dalla ridefinizione delle competenze attribuite a Stato e Regioni e da una nuova disciplina delle modalità di esercizio della potestà legislativa e della riduzione delle materie concorrenti.

Le Regioni, tanto per fare un esempio, devono riappropriarsi del loro ruolo di programmazione e legislazione, aggiungendo a ciò anche un rinnovato esercizio di coordinamento e regolamentazione delle funzioni locali. A valle di ciò, bisogna anche rivedere il sistema fiscale, ridefinendo il giusto rapporto tra funzioni attribuite e risorse economiche necessarie al loro esercizio, abbattendo, anche per questa, via gli sprechi, i costi impropri, le sovrapposizioni di enti e strutture. Occorre intervenire sulla miriade di società partecipate che esercitano impropriamente funzioni che la Costituzione assegna alle autonomie locali e colmare il vuoto che l’abolizione delle Province ha prodotto rispetto alle funzioni e al loro esercizio. Si chiariscano una volta per tutte le funzioni di area vasta, città metropolitane comprese, e si operi affinché questo livello di governance diventi strategico. Si renda obbligatoria la gestione associata dei servizi per i Comuni, realizzando così economie di scala efficaci: l’associazionismo comunale come obiettivo strategico per creare condizioni economiche favorevoli, assicurando la gestione ottimale delle funzioni. Si assuma l’obiettivo di creare, dalla fusione dei Comuni più piccoli, nuove comunità in grado di gestire più facilmente l’amministrazione del territorio: mezzi, professionalità, risorse, centri di acquisto in comune come leva per migliorare l’esercizio dell’intervento pubblico in queste comunità.

E poi lo Stato, o meglio le amministrazioni centrali dello Stato. La riforma che vogliamo non prevede in alcun modo l’abdicazione ai privati del ruolo di garanzia dei diritti di cittadinanza. Per questo abbiamo bisogno di una progettualità organica che non faccia considerare esclusa dal processo riformatore nemmeno un’amministrazione, nemmeno il più piccolo degli enti. Nessuno può essere escluso dall’innovazione e dal cambiamento: una riforma è tale se coinvolge lo Stato nella sua interezza. Alle amministrazioni centrali vanno affidati compiti di fissazione dei “livelli essenziali di qualità dei servizi” e di vigilanza e controllo, per garantire legalità a tutto il paese, mentre alle loro articolazioni periferiche va assegnata la funzione di gestione dei servizi, in stretto rapporto con Regioni ed enti locali. Non può più esistere un modello organizzativo totalmente avulso dai bisogni del cittadino: noi chiediamo si realizzino nel territorio poli unici dello Stato cui cittadini e imprese possano rivolgersi, senza duplicazioni e moltiplicazione dei costi; una nuova organizzazione delle amministrazioni che unifichi e riaggreghi quelle funzioni attualmente svolte da più soggetti, liberando risorse e tempo per cittadini e imprese.

Vogliamo cominciare – così, per indicare delle priorità – dalle ispezioni su sicurezza e regolarità del lavoro, dalle incombenze contributive-fiscali, dalle funzioni relative al mercato del lavoro e all’avviamento al lavoro? Noi siamo pronti. Ma per fare questo, se ne convincano la ministra Madia e il presidente Renzi, bisogna costruire una forte azione negoziale, che governi i processi di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, a cominciare da quelli derivanti dai percorsi di riordino istituzionale. Un’azione che governi un sistema di deroghe alle normative attuali sui tetti di spesa del personale e che rafforzi, non annichilisca, il sistema delle relazioni sindacali, anche attraverso l’individuazione di nuovi livelli di confronto dove affrontare problematiche derivanti dai processi di riorganizzazione. In tutto ciò, due semplici e inequivoci presupposti: la salvaguardia dei livelli occupazionali, garantendo per questa via anche una prospettiva di stabilità dei rapporti di lavoro, a garanzia dei livelli quali-quantitativi dei servizi erogati; il ritorno dei contratti collettivi nazionali di lavoro a un ruolo di autorità salariale e strumento di propulsione di un livello integrativo partecipato, anche per migliorare l’efficienza dei servizi ai cittadini. Avranno abbastanza coraggio il presidente Renzi e la ministra Madia per dare gambe alla parola “rivoluzione”?