venerdì 27 novembre 2009

NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA

       
Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Per il Congresso della Cgil
 
Parte terza

Per una coesione sociale e repubblicana, per la democrazia sindacale
 
A fronte di quanto detto necessita, non solo una mobilitazione sindacale, ma pure un impegno della Cgil e del movimento sindacale per la coesione sociale .

    Per ricomporre il lavoro, oggi, è obbligatorio affrontare l’argomento che riguarda sia una nuova confederalità sia la democrazia sindacale, da perseguire, questa, anche attraverso una campagna per una legge sulla rappresentanza democratica sindacale.

    Se un sindacato vero si qualifica per la sua autonomia e la sua capacità ed autorità salariale e contrattuale, si deve capire fino in fondo che questa autorevolezza sindacale non può prescindere da un mandato e da una verifica dei lavoratori. La ricomposizione del lavoro abbisogna di questa nuova rappresentanza democratica per non andare, come vorrebbero in molti, verso una pratica ossificata di sindacato neocorporativo, gestore delle ricadute sociali delle scelte delle imprese e dei governi. Ed al contempo, non si può evitare una autoriforma, su tali basi democratiche, della pratica confederale.

    Pensiamo, infatti, che sia giusto accorpare contratti nazionali e categorie, ma riteniamo pure che in tale processo di accorpamento non possa e non debba venire meno la prassi ed il ruolo della confederalità. Anzi, la necessità di dare un quadro unitario e generale all’azione sindacale, così ricomposta nelle categorie, corrisponde, secondo noi, anche ad un complementare ruolo di orientamento, mobilitazione ed unificazione, a livello nazionale e locale, della Confederazione.

    Una Confederazione, tra l’altro, che rafforzi il rinnovamento ed il pluralismo dei propri gruppi dirigenti, delle proprie strutture e delle forme di azione ed intervento sindacale. Dando così rilievo ad un lavoro sindacale collettivo autonomo da padroni, governo e partiti, e arricchito dal libero e proficuo confronto interno delle idee.

    E’ proprio con questa libera impronta confederale che intendiamo contribuire all’obiettivo di una società democratica che comprenda il lavoro, dandogli cittadinanza e dignità. Ma per dare dignità e cittadinanza occorre anche che i lavoratori possano eleggere democraticamente i loro rappresentanti nelle Rappresentanze Sindacali Unitarie e svolgere referendum vincolanti di mandato e di verifica degli accordi.

    Se la democrazia oltrepassa realmente i cancelli dei luoghi di lavoro, allora, si può e si potrà affrontare anche quei nodi da tempo irrisolti che si riferiscono alla partecipazione dei lavoratori alle scelte di sviluppo aziendali, dando così finalmente attuazione all’art. 46 della costituzione.

    Ma partecipazione alle scelte, significa innanzitutto, rafforzare la contrattazione e la democrazia sindacale, a partire dalle piccole imprese, iniziando ad agire per una griglia di diritti universali, che stimolino gli stessi piccoli imprenditori contoterzisti a innovare l’ organizzazione del loro lavoro.

    Per questo occorre una estensione pure graduale dei diritti, a partire dal reintegro, nel caso di licenziamento senza giusta causa, anche nelle aziende sotto i 15 dipendenti, tanto per citare un esempio, prevedendo se necessario anche delle agevolazioni. Ed occorre una estensione della democrazia, creando anche nelle piccole imprese una nuova ed estesa filiera di rappresentanza democratica sindacale. Una estensione che può contribuire, tra l’altro, ad un rapporto fecondo con quella parte del lavoro che non rappresentiamo e che è comunque fondamentale, pensiamo alle varie figure dei collaboratori ed a tanti altri.

La Confederazione Generale Italiana del Lavoro
 
E’ evidente che per tutte queste ragioni cercare di trovare una piena sintonia con i soggetti presenti oggi nel mondo del lavoro significa per la Cgil connettersi realmente con le loro nuove esigenze e domande, pensiamo ai giovani lavoratori, precari e non, del Nord e del Sud, alle donne, agli immigrati.

    Vogliamo, anzitutto, soffermarci sul fenomeno dell’immigrazione, per dire di come siano molte le variabili che minano l’efficacia delle politiche pubbliche in materia.

    Quel che è certo, è che un fenomeno di queste dimensioni non si affronta, come oggi in Italia, concentrandosi solo sugli effetti, anziché sulle cause e sulle necessità del paese investito dai flussi migratori.  Infatti, dal reato di immigrazione clandestina, alla denuncia in ospedale degli irregolari; dalla immersione delle rimesse a nuove tasse sui rinnovi: il rischio è quello di una frattura insanabile nella società.

    Non ce ne stiamo, forse, accorgendo, ma il pacchetto di misure proposto e approvato dal Governo ha cambiato lo status dei 4 milioni di immigrati regolari che lavorano e vivono nel nostro Paese, senza contare la situazione degli irregolari. Non più cittadini con diritti formalmente alla pari degli italiani, ma una società di serie B con norme e regolamenti a parte.

    La sanatoria effettuata a settembre non ha risolto tutti i problemi, essendo stata selettiva e parziale: una sorta di regolarizzazione, cioè, che non ha saputo - o meglio non ha voluto - comprendere tutti i lavoratori che avrebbero potuto accedervi.
             Oggi questi quattro milioni di cittadini immigrati, cittadini stranieri che risiedono in Italia, chiedono di essere integrati nelle nostre comunità provinciali, di avere pari opportunità di accesso ai servizi sociali, reali diritti di cittadinanza, sociale e sindacale. Dalle/gli immigrati/e proviene una domanda di tutela individuale e collettiva, e di una rappresentanza sempre più complessa e articolata.

    E’ un fatto incontrovertibile che il lavoro svolto dai cittadini migranti soddisfi i forti bisogni di manodopera del nostro paese, nondimeno le condizioni di quei lavoratori sono spesso precarie, caratterizzate da consuete situazioni di sfruttamento e da un’alta incidenza di infortuni gravi o mortali. Per tali ragioni, in Italia la situazione è grave: questo governo di chiara impronta di destra sta imponendo politiche sociali segnate dall’intolleranza e dal sospetto per ogni diversità, con l’intento di orientare il senso comune verso posizioni di vero e proprio razzismo.

    Perciò la CGIL deve continuare, semmai con più forza, a svolgere quel ruolo di rappresentanza effettiva per dare uno sbocco di impegno e mobilitazione democratica e civile adeguata alle domande dei lavoratori immigrati ed alle loro rivendicazioni, per far sì che ci sia una inversione di tendenza, per non cadere in un oblio e in un rifiuto culturale che impediscano processi di inclusione. E contrastare ogni azione di esclusione, convinti come siamo che questo possa essere l’antidoto migliore contro un futuro di frammentazione sociale e di conflitti.

    La CGIL, insomma, crediamo debba e possa essere ancor più veicolo di dialogo ed integrazione tra tutti i lavoratori e i cittadini. Un veicolo che assuma con coerenza l’obiettivo di un nuovo senso comune, di un nuovo spirito del tempo, in cui l’insicurezza si sconfigga con il rafforzamento dello stato sociale, con il superamento della precarietà del lavoro, con la negazione delle forme di competitività che esasperano l’individualismo, con città e paesi che favoriscano la possibilità di relazioni sociali fra persone e tra realtà diverse.

    E’ infatti proprio in situazioni di incontro, di conoscenza e di convivenza che tutti possiamo sentirci più sicuri.
    Pensiamo, perciò, ai tanti che ancora non rappresentiamo o con cui abbiamo difficoltà ad avere rapporti, che non conoscono diritti e contrattazione, buste paga regolari ed orari contrattuali. Sono molti. E’ quel mondo del lavoro frammentato, disseminato, senza referenti sindacali ed esposto ad abusi, arbitrii e ricatti che non conosce la prassi del soccorso, della solidarietà e della esigibilità dei diritti.

    Questa azione sindacale, oggi, può e deve avere caratteristiche adeguate e dunque non solo di autorità vertenziale ma pure, come agli albori del movimento operaio, di mutua assistenza e solidarietà.  

    Stiamo, infatti, assistendo al florilegio di contenziosi nelle aziende, che spesso rifiutano di applicare le stesse norme contrattuali; contenziosi su lavoro,  diritti, scuola, casa, servizi.

    Non a caso, allora, affiora nella quotidianità un bisogno di assistenza legale e di consulenza giuridica sui vari aspetti della vita dei lavoratori. Una necessità che si può riassumere in una prassi solidale di “avvocatura sociale”, cui la nostra Organizzazione deve e può dare ricerca e vigore, rimodulando e rafforzando confederalmente strutture già presenti e collegate alla Cgil.

    Dentro questo percorso generale che abbiamo cercato di illustrare, davvero complesso ed articolato, deve trovare anche spazio una nuova idea di pluralismo politico dell’organizzazione. Un pluralismo che muova dal riconoscimento della diversità di idee e di punti di vista capaci di relazionarsi e ascoltarsi realmente ed unitariamente, di costruire mediazione rompendo ogni ipotesi di steccati precostituiti, figli di una idea di testimonianza che questa CGIL, di fronte alle sfide che ha davanti, non può più permettersi.

    Ci pare, dunque, ormai chiaro che per riaprire una strada di rinnovato impegno sindacale occorre superare una idea di pura testimonianza e costruire una salto di qualità anche per la Cgil.

    Queste sono le ragioni fondamentali che spingono a chiedere che si creino le condizioni per un congresso unitario, senza mozioni contrapposte, e che si verifichino le possibilità di trovare più i punti in comune che le divergenze, spesso dovute a logiche organizzative.

    La drammaticità della crisi, il degrado della politica, anche a sinistra, i tentativi di isolamento della nostra Confederazione sono tali che esigono sia un reale dibattito sia una unità consistente sia una assunzione di responsabilità dei militanti e dei gruppi dirigenti.

    Non vogliamo essere né ipocriti né ingenui. Non abbiamo velleità “terziste” e sappiamo che gli appelli unitari spesso cadono nel vuoto. Ciononostante pensiamo che i nostri iscritti, i nostri militanti, coloro che guardano alla Cgil come ad un punto di riferimento costante abbiano la urgente necessità di avere una organizzazione non dilaniata da scontri la cui essenza si riduce agli organigrammi ed alla politica organizzativa.

    A questo, infatti, nonostante le enunciazioni, rischia di arrivare il nostro Congresso. Proprio nel momento in cui percepiamo che niente sarà più come prima.

    Dalla crisi, infatti, nessuno uscirà come prima.
    Ciò vale anche per noi. Non è e non sarà possibile riproporre la logica concertativa del 1993, poiché ciò vorrebbe significare comprimere ancor più i salari, gli stipendi e le pensioni. Di altro segno dovrà invece essere la nostra strategia. Una strategia che rimetta al centro la redistribuzione sociale, la democrazia sindacale, nuove norme e nuovi diritti universali, quali ad esempio il salario sociale.

    L’obiettivo di una avanzata griglia di diritti non può, infine, prescindere dalla ricerca di elementi di un nuovo modello sociale ed economico compatibile con l’ambiente. Questa ricerca non può che essere complementare ad un’idea ed un obiettivo di un nuovo mondo multipolare che condanni l’uso della guerra come strumento di offesa.

    Per tali ragioni, pensiamo utile, in un tempo ancor presente di guerre e distruzioni,  porre al centro del nostro dibattito una proposta di strategia di uscita  delle truppe italiane dalla guerra in Afghanistan. E di trasformare la presenza italiana in una presenza di pace e di assistenza, seguendo le orme di grandi costruttori di pace quali Tom Benettollo, Teresa Sarti Strada, lo stesso Gino Strada.

    Sono temi, questi, propri del movimento operaio e sindacale sin dalle origini, appunto. Sono i temi della emancipazione e liberazione del lavoro, della libertà e della pace, ch’è sempre foriera di pane, lavoro e benessere per tutti.

Alessio Ammannati, Presidenza Direttivo CdLM CGIL Firenze
Bruno Carrà, Resp. Centro Lavoratori Stranieri Direttivo CdL CGIL Piacenza
Gianni Leoni, Direttivo Regionale Filt CGIL Toscana
Paolo Niccoli, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Rossana Sebastiani, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Walter Tacchinardi, Direttivo CdL CGIL Piacenza

3/3 - Fine - Le prime due parti del documento sono apparse sull'ADL del 4.11.09 e del 18.11.09.        

La svolta deve arrivare velocemente 

Ipse dixit

La svolta deve arrivare velocemente  - "Qualora il surriscaldamento globale vada contenuto entro un limite massimo di +2°C rispetto ai valori pre-industriali, sarebbe necessario che le emissioni globali raggiungano l'apice tra il 2015 e il 2020 per poi ridiscendere con rapidità. Per stabilizzare il clima occorre comunque, e già in questo secolo, l'affermarsi di una società decarbonizzata, cioè a emissioni di biossido di carbonio tendenti a zero. Più precisamente, sarebbe necessario che l'emissione media annua pro capite di CO2 si attesti entro il 2050 nettamente al di sotto di una tonnellata metrica; questo significa l'80-95% in meno rispetto all'emissione pro capite del 2000 nei paesi avanzati." - The Copenhagen Diagnosis


D'Alema non aveva chances  - "Nell’ambito delle indicazioni delle due famiglie politiche, era abbastanza evidente da diversi giorni che molti capi di governo - innanzitutto il Cancelliere Merkel - volevano una soluzione consensuale, evitare una contrapposizione fra nominativi che sarebbe stata drammatica per l’Europa, premunirsi contro le novità negative di una vittoria del partito conservatore di David Cameron sull’impegno britannico in Europa. Se questo era lo scenario di partenza, la candidatura D’Alema non aveva possibilità sin dall’inizio." - Antonio Puri Purini

       
VISTI DAGLI ALTRI
A cura di Internazionale - Prima Pagina

Fini prepara il dopo Berlusconi
Sarebbe in atto un complotto di palazzo in seno alla destra italiana? Da qualche settimana si moltiplicano gli attacchi del presidente della camera Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi. Fini, 57 anni, ha capito che, con il tramonto del berlusconismo, potrebbe presto arrivare la sua ora. Ma prima di realizzare le sue ambizioni Fini dovrà superare alcuni ostacoli, tra cui quelli interni al suo partito.

Le Temps, Svizzera
http://www.letemps.ch/Page/Uuid/e66106be-d7ae-11de-a5a2-539eee1162dc/Gianfranco_Fini_pr%C3%A9pare_lapr%C3%A8s-Berlusconi

Il vero volto del Duce
"Questi schifosi ebrei, bisogna che li distrugga tutti". Un frase di Adolf Hitler? No, è uno dei tanti deliri antisemiti attribuiti a Benito Mussolini dalla sua amante Claretta Petacci. I diari di Claretta, pubblicati il 18 novembre dopo essere rimasti per cinquant'anni negli archivi di stato, mostrano un Mussolini diverso dall'immagine che ne hanno molti italiani, cioè di un leader che si è fatto
portare sulla cattiva strada da Hitler. La figura dal Duce è ancora molto importante nell'Italia di oggi, dove il governo è composto anche da eredi del postfascismo.

The Economist, Gran Bretagna
http://www.economist.com/world/europe/displaystory.cfm?story_id=14921375       

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

LUMIA (PD), CASO ORLANDI: PARTIRE DA DE PEDIS

"Sul caso Orlandi bisogna far luce, a partire dalla figura di De Pedis e sciogliendo i tanti nodi sugli  intrecci tra malavita organizzata, settori della finanza, personaggi del Vaticano, apparati deviati dello Stato, colletti bianchi, ed esponenti della politica". Lo dichiara il senatore del PD Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia. "Inquietante  soprattutto - aggiunge Lumia - resta la tumulazione della salma di un criminale del calibro di De Pedis in una sfarzosa cripta della basilica vaticana di Sant'Apollinare, a Roma, per la qual cosa nel 2008 presentai un'interrogazione parlamentare, chiedendo spiegazioni al governo. Torno a chiedere, a chi ne ha il dovere, di fare chiarezza e andare fino in fondo. Solo così si potrà dare un contributo alle indagini per giungere alla verità, senza ambiguità e silenzi compiacenti, sulla sorte di Emanuela Orlandi". 

venerdì 20 novembre 2009

SANTA MAFIA

IL LIBRO DI PETRA RESKI SU "SANGUE, AFFARI, POLITICA E DEVOZIONE  DA PALERMO A DUISBURG"

La mafia non è un problema esclusivamente italiano né un affare di coppole e di realtà meridionali arretrate, ma un problema europeo, con molteplici addentellati e risvolti.

"Se andiamo avanti così in pochi anni la 'ndrangheta si mangia la Germania". Petra Reski ha i titoli per dirlo- La giornalista e scritrice tedesca scrive da vent'anni sulle cosche. Ora però il suo ultimo libro è diventato un caso. Scomodo anche per lei.
    Petra descrive gli affari dei mammasantissima della 'ndrangheta, in Italia e in Europa: alberghi, pizzerie, strutture di lusso ma anche finanziarie, conti correnti e investimenti. Fa nomi e cognomi dei boss e dei loro referenti e protettori politici, descrive i raffinati meccanismi del riciclaggio raccogliendo inchieste fatte in Italia e il parere di magistrati che da anni sono impegnati sul difficile fronte della lotta alla mafia finanziaria.
    Duisburg, agosto 2007. Davanti al ristorante "Da Bruno" vengono ritrovati i cadaveri di sei uomini, tutti calabresi, crivellati da 70 proiettili. Sarà chiamata la Strage di Ferragosto: il primo segno evidente della penetrazione delle mafie italiane nel mondo, della lenta ma inarrestabile colonizzazione portata avanti dai "cafoni" in Francia, Spagna e Germania. Ed è proprio qui, nel cuore produttivo d'Europa, che la mafia ha da tempo indirizzato i propri traffici, non solo per farli fruttare ma soprattutto per "ripulirli": alberghi, pizzerie, ristoranti di lusso ma anche conti correnti e finanziarie.
    Il libro di Petra Reski, da vent'anni corrispondente in Italia per la stampa tedesca, è un lungo viaggio di ritorno da Palermo a Duisburg. La ricostruzione di un mosaico di luoghi, persone e vicende che parte dalla Sicilia e sale seguendo le rotte della criminalità: Calabria, Campania, su fino al ricco nord-est. E poi ancora oltralpe, nella sua Germania, terra di elezione della mafia, dove non esiste il reato di associazione mafiosa e non sono ammessi l'uso intensivo delle intercettazioni e la confisca dei beni.
    Nell'edizione originale il libro è uscito censurato per volontà dell'autorità giudiziaria tedesca, intervenuta su richiesta di alcuni personaggi i cui nomi sono ben noti perché figurano nelle informative di polizia (sia italiane che tedesche), nei documenti giudiziari, in numerosi resoconti giornalistici. Tuttavia, di loro non si può parlare in un libro; la gente deve continuare a ignorare il problema. L'edizione italiana poteva scegliere di eliminare semplicemente queste parti del testo; invece ha deciso di riportare le medesime righe nere sulle parole che sono costate a Petra Reski intimidazioni e minacce. Perché il lettore abbia una chiara immagine del bavaglio con cui il potere cerca costantemente di ridurre al silenzio il giornalismo più coraggioso.
    Petra Reski è nata in Germania, nella regione della Ruhr, ha studiato a Treviri, Münster e Parigi. Si è laureata in letteratura francese, scienze politiche e sociologia. Ha vinto il concorso della scuola di giornalismo di Amburgo, la prestigiosa Henri-Nannen-Schule, e ha iniziato la sua carriera come reporter per il settimanale Stern. Attualmente è corrispondente culturale per Die Zeit e altre testate tedesche, mensili e settimanali, tra cui Geo, Focus, Merian, e ha pubblicato svariati libri. Arrivata in Italia nel 1989 per scrivere un reportage sulla primavera a Palermo, decide di rimanervi "per comprendere quelle che sono le contraddizioni di questa terra anche attraverso la mafia". Da allora non ha mai più smesso di occuparsene.
    In Germania è stata eletta "Miglior Giornalista del 2008" nella categoria "reporter" proprio a seguito della pubblicazione di "Santa Mafia".
    In Italia, per il suo impegno "al servizio dei grandi valori del giornalismo", ha ricevuto a il Premio Civitas 2009 con cui l'associazione ANDE insignisce donne particolarmente distintesi per il loro impegno nella lotta alla criminalità organizzata. Petra nReski ha anche vinto il premio internazionale di giornalismo Amalfi Coast Media Award.

Vai al sito www.petrareski.com
 
 
 
 
 
 

Per il Congresso della Cgil


Ipse dixit

Vademecum per un apprendista torero
"Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena."

- Robert M. Pirsig

       
La causa che divide gli Agnelli.

A quasi sette anni dalla morte di Gianni Agnelli, una disputa sull'eredità dell'ex patron della Fiat continua a provocare tensioni e a dividere un paese che un tempo lo considerava il suo re non ufficiale. La settimana scorsa si è tenuta una nuova udienza del processo civile che vede la figlia di Agnelli, Margherita Agnelli de Pahlen, contro tre dei più stretti collaboratori del padre. Il processo, in corso dall'inizio del 2008, si è svolto a porte chiuse. Ma la causa ha esposto la famiglia a una pubblicità che fino a poco tempo fa sarebbe stata impensabile.

The Wall Street Journal, Stati Uniti
http://online.wsj.com/article/SB10001424052748703811604574533721016931970.html 



Per il Congresso della Cgil

NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA

Parte seconda

Questione salariale, difesa del CCNL, piena e buona
occupazione, nuova struttura del salario
 
Vanno precisate ancor più oggi, nel tempo dell’accordo confederale separato sul modello contrattuale e nel settore metalmeccanico, alcune idee da focalizzare per superare questo duro impasse, anzitutto voluto da Confindustria e Governo Berlusconi, a partire dal fatto che nel paese esiste da almeno quindici anni una questione salariale pesante, attribuibile, sostanzialmente, a fenomeni, tra loro correlati: deregolazione del mercato del lavoro, da noi particolarmente decisa; eccessiva moderazione salariale, praticata con l’accordo del 23 luglio del 1993; la scomparsa di meccanismi anche minimi di indicizzazione automatica degli stipendi e dei salari; una bassissima produttività per ora lavorata, ormai strutturale al sistema paese.

    Tra le cause di tali condizioni si possono annoverare la prevalenza di settori a basso contenuto tecnologico, la scarsa innovazione inserita nel ciclo lavorativo nel suo complesso, la particolare arretratezza del nostro sistema formativo ed anche lo sbriciolamento delle unità produttive nel paese. La nostra recessione, quindi, ha motivi lontani, che risalgono al ventennio precedente, nel trend negativo dell’andamento della produttività del lavoro. Ed infatti dal 2000 in poi il Pil è aumentato grazie all’aumento delle ore lavorate, ed all’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro. Insomma, all’incremento della precarietà e non certo grazie alle innovazioni di prodotto e del ciclo produttivo.

    A fronte di questo, come ormai tutti denunciano, vi è stato un aumento dei profitti e delle rendite, ed anche un aumento esponenziale dei redditi dei manager aziendali. Allora, basterebbe citare l’articolo 23 della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 (ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente; ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto a eguale retribuzione per eguale lavoro) per riferirsi ad un obiettivo che può stare realmente in questa fase sociale e politica. Anche per queste ragioni, siamo sempre più convinti del bisogno di una forma di statuto mondiale del lavoro e di un salario europeo, su cui muovere l’azione unitaria dei sindacati europei e della CES rimettendo anche in moto una azione generale  per la riduzione dell’orario settimanale.

    Su queste ragioni si può ritrovare un proficuo intreccio tra azione sindacale e politica, perché pensiamo che solo così si possa affrontare una modifica dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

    Il mercato del lavoro italiano  vede gli operai dell’industria  mantenersi ancora su livelli quantitativi elevati, se poi si aggiungono quindici milioni di lavoratori dei servizi ed un milione di lavoratori agricoli, la massa dei lavoratori dipendenti rimane, anche nella crisi, notevolmente consistente.

    Lavoro e salario appaiono così in tutta la loro forma moderna e per questo si rende ancora utile un sistema universale di contrattazione collettiva nazionale, poiché simboleggia uno degli essenziali strumenti di difesa e sviluppo, generale e solidale, delle condizioni dei lavoratori. E perciò, valutiamo importante sottolineare un insieme di proposte a difesa del contratto nazionale e di estensione di una effettiva contrattazione sindacale di secondo livello.

    Va detto anzitutto che ricomporre l’unità del lavoro subalterno e frammentato e rispondere ad una domanda di giustizia salariale, sono capitoli fondamentali e per molte ragioni, quindi, si pone la necessità, alla luce dei processi economici in corso, di ricomporre la filiera produttiva, riunificare il lavoro e i CCNL.

    Il ricondurre ad unità i lavoratori di una filiera produttiva, non solo si delinea come il fondamento necessario di ogni politica di stabilizzazione del lavoro, ma è pure in simmetria con l’esigenza della fine dei doppi regimi salariali e normativi.

    Riunificare il lavoro, perciò, significa anche dotarsi di CCNL che sviluppino una stabilizzazione del lavoro, che accorpino le attuali filiere del sistema produttivo, oggi frantumate usando  il dumping contrattuale.

    Appare, insomma, sempre più evidente il diritto-dovere di aggregare i lavoratori, allo scopo di evitare il dumping sociale, con una politica salariale e normativa unitaria delle moderne filiere produttive, riducendo così le quantità dei CCNL.

    Ebbene, la difesa dei due livelli di contrattazione può avere efficacia, secondo noi, se la CGIL ed il movimento sindacale rilanciano un nuovo contrattualismo e una proposta per una nuova struttura del salario. Perciò proponiamo un obiettivo che si fondi su criteri di eguaglianza, capacità e professionalità e cioè una struttura del salario costruita su tre voci tra loro vincolanti e connesse: un salario di base (salario minimo nazionale intercategoriale o RSU, Reddito Sociale Unitario) contrattato a livello confederale, riferito alla soddisfazione dei cosiddetti bisogni primari e con annuali adeguamenti  al reale aumento della vita; un salario contrattuale-nazionale e un salario di produttività, legato alla efficacia ed alla innovazione produttiva delle imprese ed agli andamenti positivi dei bilanci aziendali, contrattati a livello categoriale.

      A tale scopo diventa altresì dirimente la rivendicazione del sindacato sul controllo democratico delle politiche di gestione produttive dell’azienda, in capo alle RSU e/o ai sindacati territoriali come previsto dall’at. 46 della Costituzione. Il quale più che alla distribuzione dei dividendi, come sembra prevalere nel dibattito odierno, fa riferimento al controllo dei lavoratori sulle  politiche dell’azienda.

    Tale struttura del salario dovrebbe avere carattere vincolante. Queste tre voci, cioè, dovrebbero comporre la struttura organica del salario per un nuovo schema di contrattazione.

    Con un salario minimo intercategoriale ed una tale struttura del salario crediamo che possa così essere pure più fattibile, per il sindacato, contrattare l’organizzazione del lavoro, da tempo immemore abbandonata, che come il salario attiene alla qualità della vita e del lavoro delle persone. Oggi tutto è misurato in termini numerici, econometrici. Anche il sindacato ha risentito di queste influenze e tornare dunque alla contrattazione dell’organizzazione del lavoro sarebbe già di per sé un bell’augurio per una moderna fisionomia sindacale.

    Una simile struttura del salario, infine, potrebbe permettere la tangibilità di reali aumenti salariali. E’ indubbio, infatti, che stiamo oggi subendo un attacco, anche negli attuali rinnovi contrattuali che faticosamente si concludono senza applicare l’accordo separato confederale. Ed è chiaro che, a fronte di tale attacco di Cisl, Uil, associazioni datoriali e governo, vi è il bisogno di una nostra proposta concreta di un modello contrattuale e di una struttura del salario di carattere redistributivo, che permettano di raggiungere consistenti aumenti salariali.

La crisi, le CIGO, un piano del lavoro
 
Un'altra questione riguarda un aspetto drammatico di questi mesi: le richieste di cassa integrazione guadagni. Molte aziende ricorrono a questa forma di sospensione dal lavoro, come molte altre chiudono i battenti, ricorrono alla mobilità o direttamente ai licenziamenti tout court.

    Certo, stiamo parlando di vertenze che sovente hanno le dimensioni della grande e media impresa e rischiamo di tralasciare quelle piccole imprese, dove si ricorre reiteratamente alla Cig e dove il potere contrattuale dei lavoratori è quasi nullo. Oppure rischiamo di tralasciare quelle situazioni di piccole imprese, dove le ditte chiudono e basta.

    Però, anche in questi casi è giusto pensare a nuove modalità di mobilitazione e di confronto tra le parti, che coinvolgano una dimensione di sito produttivo o territoriale, affinché le parti sociali possano discutere circa il rilancio ed un piano industriale territoriale o di distretto, anche assieme alle istituzioni locali.

    Insomma, occorre, a nostro avviso, che si rimettano al centro del confronto tra le parti sociali alcune idee fondamentali di rilancio dei piani industriali. Ma sempre nell’ambito di una prospettiva di rilancio delle aziende e di stabilità del lavoro. Al riguardo, ci pare molto attuale riprendere in mano alcuni strumenti dell’agire sindacale, quali, ad esempio, il piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio.

    Comincia, inoltre, ad emergere tra gli studiosi della materia la consapevolezza che la crisi non possa essere affrontata con gli ammortizzatori sociali tradizionali, sia pur riformati, e che questi non siano la risposta adeguata  alla durezza della crisi.

    La CGIL non può lasciare ad altri il confronto di merito, ha l’obbligo di aprirsi ad una riflessione seria ed a una elaborazione vera su questi temi e oggi la risposta non può che muoversi su due assi essenziali, individuando strumenti efficaci per il loro raggiungimento: occupazione e difesa del reddito.

    Per ricomporre il lavoro, insomma, occorre agire attraverso gli strumenti del sindacato ed anche con quelli delle scelte politiche per una nuova ed avanzata legislazione del lavoro, che abbia quale asse centrale l’obiettivo di un lavoro a tempo indeterminato per tutti e il sostegno al lavoro previa una determinazione ed un confronto sui piani aziendali di sviluppo, sostenuti da precise scelte della stessa sfera politica ed istituzionale nazionale e locale.

    Divengono, dunque, per noi significativi gli obiettivi di un nuovo piano per il lavoro, anche nei settori della tutela dell’ambiente e dei servizi essenziali, e un salario sociale costruito sulla base del salario minimo contrattato, più un pacchetto di servizi e relativa copertura contributiva dei periodi di inattività. Questi due obiettivi strategici sono per noi una reale risposta alla difesa del reddito delle classi più deboli del Paese, sulla scia delle leggi recentemente approvate da alcune regioni (Piemonte, Lazio, Puglia etc).

    La CGIL, a fronte delle spinte disgregative della stessa unità politica repubblicana che riportano alla ribalta vecchi e sconfitti strumenti come le gabbie salariali,  non può che lanciare una campagna  nazionale che unifichi la condizione dei lavoratori e lavoratrici, pensionati e giovani in cerca di lavoro e questo significa  anche riflettere  sui temi da mettere al centro della contrattazione regionale, che senza indirizzi chiari sui principi indisponibili, rischia, di per sé, di creare disuguaglianze e frammentazione del mondo del lavoro.

Alessio Ammannati, Presidenza Direttivo CdLM CGIL Firenze
Bruno Carrà, Resp. Centro Lavoratori Stranieri Direttivo CdL CGIL Piacenza
Gianni Leoni, Direttivo Regionale Filt CGIL Toscana
Paolo Niccoli, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Rossana Sebastiani, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Walter Tacchinardi, Direttivo CdL CGIL Piacenza

2/3 - La prima parte del documento è apparsa sull'ADL del 4.11.09      

giovedì 12 novembre 2009

Social democrats need to work more closely together in Europe

       
From London 

Down, but (definitely) not out

Social democrats need to work more closely together in Europe to reassert a policy agenda reflective of their values.

Social-democratic parties are not dominating decision-making in Europe. The recent gain in Greece was matched with losses in Germany and Bulgaria, and in Portugal we retained control but lost absolute majority. This decline was reflected in June’s European elections, when the Socialists and Democrats Group in the European Parliament dropped from 200 to 184 seats. There are challenges to face, and we need to set aside time to properly reflect upon these losses – but we should not dwell upon them. More importantly, we, as social democrats, need to reassert ourselves with a policy agenda that reflects our values, reminds people what we stand for and reignites their trust in us.

    At European level, social democrats need to organise themselves as a party of opposition. This will require greater co-ordination of social-democratic politicians throughout the three main institutions: the Council, Commission and Parliament. Structural changes to the workings of the PES (Party of European Socialists) to foster networks between the three will be necessary to encourage a united effort to deliver on policies that will improve people’s lives.

    The policies we prioritise need to reflect our core values. We are the underdog and will face battles at every stage of the legislative procedure, from European Parliament committees to final drafts from the European Commission. But being the underdog does not mean that we need to roll over: it means we need to show some teeth. We must continue to use our networks of trade unions and NGOs, and remind activists within them why social-democratic ideals are the principles we want to resonate throughout Europe. It will be a struggle, but if the fight is for a just cause this will help to reawaken the passion for our beliefs, and trust that we are working towards them.

    Reform of the financial markets is a fight worth having, and one that we should be dominating. Our values are rooted in solidarity, equality and democracy, and these transfer directly to the reforms that social democrats are calling for on this issue. Our priorities should be reform of the market so that it serves the real economy; the enhancement of accountability and transparency throughout the system; the shutting down of tax havens and introduction of a financial transaction tax; and an end to a bonus culture that encourages recklessness and imprudence.

    The political message is simple and effective: we are on the side of the people. We are making sure that the current economic crisis cannot happen again and we are united in achieving these aims.

    But there is a problem: our message is unclear. The necessary co-ordination between the national parties, European institutions and European party is yet to be demonstrated.

    Not only are we struggling to get to grips with the issue, but those on the right are impinging upon our ideals and claiming them as their own. That is a victory for our ideology – but it won’t help us at election time, or with the range of other policy priorities. Sarkozy and Merkel have both been seen as more progressive and willing to allow a supervisory body to regulate the financial sector than some social-democrat parties. They have come across as being on the side of the people, and hijacked our traditional territory.

    Financial reform is key for people living in the European Union and in the rest of the world. But there are more policy areas that we need to consider, including Social Europe and delivering on the Climate Change Package promised during the last parliamentary mandate. We need to re-engage with our networks, co-ordinate a bold message and reflect our values in our political priorities. By doing this we will rebuild trust and the belief that we are on the side of the people.

Katy Dillon, Social Europe Journal     

Dieci domande a Di Pietro e ai parlamentari dell'IdV

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Cari amici,  MicroMega ha chiesto a due suoi collaboratori, Salvatore Borsellino e Andrea Scanzi, tra loro diversissimi per storie politiche ma che hanno manifestato entrambi grande interesse e speranza per il contributo che l’Italia dei valori può  dare a un radicale rinnovamento dell’attuale opposizione, di formulare le domande che considerano più urgenti e sulle quali ritengono che dai vertici del partito fin qui risposte sufficientemente chiare non siano arrivate.

Spero proprio che ciascun parlamentare dell'IdV, alla Camera, al Senato e a Strasburgo, voglia rispondere. Non però con un unico testo, ma puntualmente: bastano poche righe per ogni domanda, ma importante, per la chiarezza del  dibattito, è che siano davvero risposte a tutte le domande, nessuna esclusa.

A nome dei lettori, e dei tanti cittadini democratici che non si rassegnano,  un grazie anticipato.
Paolo Flores d'Arcais

Le domande di Salvatore Borsellino

     1) Di Pietro ha detto in una intervista che nelle liste di IDV non c'è un solo caso di incandidabilità, di immoralità e che tutti gli eletti e i candidati hanno il certificato penale al seguito, precisando che si intende per "immoralità" l'essere condannato con sentenza definitiva. Si rende conto l’Idv che, secondo questa lettura, un personaggio come Marcello Dell'Utri, non ancora condannato in via definitiva, sarebbe da ritenersi candidabile?

     2) Nella stessa intervista Di Pietro ha affermato che Orazio Schiavone non è "neanche più condannato" perché il suo reato, secondo la "normativa successiva non è più neanche reato". Lei ritiene che l’Idv possa candidare persone che hanno commesso reati che tuttavia, grazie alle depenalizzazioni del governo Berlusconi – ad esempio il falso in bilancio – "non sono più neanche reati"? Per quanto riguarda Porfidia, Di Pietro dice che non è vero che è indagato per il 426 bis, ma per un "banalissimo abuso d'ufficio" di quando era sindaco. Non pensa che la base di IDV, soprattutto i giovani, vogliano essere rappresentati da persone che non abbiano commesso neanche dei "banalissimi abusi"?

    3) Di Pietro ha affermato che su 2500 eletti nell'IDV ci sono appena 32 persone che provengono da esperienze politiche precedenti. La cifra sembra molto bassa, ma se anche fosse, non pensa che sia un problema che queste persone abbiano in parecchi casi una storia caratterizzata da disinvolti salti da uno schieramento all'altro che dimostrano, se non altro, una spiccata tendenza all'opportunismo e al trasformismo?

    4) Nel raduno di Vasto sono intervenuto dicendo che per la prima volta avevo accettato di partecipare ad un raduno nazionale di un partito perché in quel partito mi sentivo a casa mia e con me si sentivano "a casa" i tanti giovani che si riconoscono nel movimento delle "Agende Rosse". Dissi anche che mi sarei sentito a casa mia fino a quando anche quei giovani si fossero sentiti a casa loro. Possiamo sperare, sia io che questi giovani, che il processo in atto per fare veramente diventare IDV il partito della Giustizia, della Legalità, della Società Civile prosegua ed arrivi a compimento in maniera da farci sentire "definitivamente" a casa nostra?

   
     5) Non pensa che sarebbe necessario dare una ulteriore spinta alla "democratizzazione" interna arrivando a pensare ad un segretario eletto dalla base attraverso delle "primarie"? Negli incontri che faccio in tutte le regioni d'Italia, per la maggior parte organizzati da giovani, raccolgo un diffuso senso di disagio: molti sono entrati con entusiasmo in IDV ma oggi si sentono scoraggiati perchè non hanno la possibilità, a causa degli ostacoli posti dai dirigenti locali del partito, di tradurre in attività concreta la loro adesione. Non crede che questa situazione possa portare questi giovani ad un passo indietro rispetto alla loro militanza in IDV, e a frenare l’ingresso di tanti altri giovani che potrebbero essere una iniezione di forze nuove, attive e spesso entusiaste?

Le domande di Andrea Scanzi

     6) L’Italia dei Valori è diventato il privilegiato approdo di molti delusi da sinistra, più per demeriti altrui che per meriti propri. E’ un partito che usufruisce di voti fluttuanti, radicalizzati ma non radicati. Un voto "in assenza di": non un’adesione pienamente convinta. Quando scatterà – se scatterà – l’appartenenza?

    7) L’immagine attuale dell’Italia dei Valori è quella di un partito in cui le personalità maggiori coincidono con Di Pietro e De Magistris: due ex magistrati. E’ normale o piuttosto il segnale che il "giustizialismo" può diventare un assillo, quasi una devianza patologica?

    8) La questione morale è centrale nell’Italia dei Valori. L’inchiesta di MicroMega sembra però avere infastidito la nomenklatura. Per chi fa politica come l’Idv, sempre sull’orlo del populismo, è costante il rischio che a furia di fare i Robespierre prima o poi spunti un Saint-Just a rubarti scena (e testa). Non è per questo particolarmente sbagliato minimizzare i problemi interni (per quanto inferiori alla media)? Non avvertite l’esigenza di dimostrare che le Sonia Alfano e i Gianni Vattimo non erano specchietti per le allodole?

    9) Il momento più basso dell’Idv è stato il voto contrario alla Commissione d’Inchiesta sulle mattanze a Bolzaneto e Scuola Diaz, quando il vostro partito era al governo. E’ di queste settimane il calvario di Stefano Cucchi. L’impostazione "poliziottesca" dei quadri dirigenziali dell’Idv (emblematico il caso Giovanni Palladini) può portare a una sottovalutazione di vicende analoghe? La vostra attenzione alla legalità contempla anche il garantismo e il coraggio di non reputare intoccabili magistrati e forze dell’ordine?

    10) L’Italia dei Valori prospera per la risibile debolezza del Pd e perché il bipolarismo italiano è drammaticamente atipico: non centrosinistra e centrodestra, ma berlusconiani e antiberlusconiani. Questa radicalizzazione avvantaggia un partito di lotta come l’Idv: di lotta, ma non di governo. Cosa farà l’Italia dei Valori quando Berlusconi non ci sarà più? Non è un partito che, paradossalmente, per prosperare ha bisogno anzitutto del Nemico?    

Crocifisso

Crocifisso - 1 

I protestanti italiani: "Giusta la sentenza di Strasburgo" 
Un appello "ai cristiani e alla società civile" affinché nel nostro Paese si compia la transizione al rispetto, laico e sostanziale, delle pluralità religiose.

L'Alleanza Evangelica Italiana valuta molto positivamente la decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo espressa nella sentenza su un ricorso presentato da una cittadina italiana. Secondo la Corte la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche costituisce "una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni" oltre ad una violazione alla "libertà di religione degli alunni".

    Si tratta di una sentenza che ripristina la giustizia e non rafforza il privilegio. In ogni società, il presupposto essenziale del pluralismo democratico è il riconoscimento del diritto di libertà religiosa. Quest'ultimo non è solo il diritto di credere alla religione che si preferisce (o di non credere ad alcuna religione). Non è neanche solo il diritto di professare la propria religione, cioè di svolgere tutte le attività lecite attraverso le quali manifestare le proprie convinzioni, ma è anche e soprattutto il diritto di avere pari opportunità per professare la propria religione, cioè di ricevere dallo Stato lo stesso trattamento riservato ai fedeli di tutte le altre religioni.

    L'Alleanza Evangelica è per la promozione dei valori cristiani nella  società, ma senza posizioni di rendita ereditati da un passato all'insegna dell'alleanza tra trono e confessioni religiose di maggioranza. Invitiamo quindi i cristiani e la società civile a continuare ad impegnarsi con coraggio affinché nel nostro Paese si compia la necessaria transizione dal monoconfessionalismo cattolico al rispetto, laico e sostanziale, delle pluralità religiose.

Alleanza Evangelica Italiana, Roma
www.alleanzaevangelica.org


       
Crocifisso - 2

IL GOVERNO PRIMA SMENTISCE LA CORTE
E POI CHIEDE A STRASBURGO DI RISPETTARLA

di Stefano Ceccanti *) 

Dopo l'infelice memoria alla Corte di Strasburgo il Governo commette un secondo grave errore nell'impostare il ricorso, affermando una tesi solennemente smentita dalla nostra Corte costituzionale. La cosa paradossale è che il Governo, in questo modo, sostiene la tesi risultata soccombente di fronte alla Corte degli avvocati della famiglia Lautsi, che ha poi ricorso a Strasburgo.

    Nella newsletter di Palazzo Chigi, la numero 41 diffusa oggi (ieri per chi legge, ndr), il Governo afferma solennemente che: "Nell'ordinamento italiano l'esposizione del crocefisso è regolamentata dal decreto legislativo 297/1994 (Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado)".

    Invece, com'è noto, tale tesi è stata confutata puntualmente dall'ordinanza della Corte costituzionale n. 389/2004, nella quale si sostiene che 'gli articoli 159 e 190 del testo unico si limitano a disporre l'obbligo a carico dei Comuni di fornire gli arredi scolastici, attenendo dunque il loro oggetto e il loro contenuto solo "all'onere della spesa per gli arredi" e che, "per quanto riguarda l'art. 676 del d.lgs. n. 297 del 1994, non può ricondursi ad esso l'affermata perdurante vigenza delle norme regolamentari richiamate, poiché la eventuale salvezza di norme non incluse nel testo unico (...) può concernere solo disposizioni legislative".
    Se la tesi del Governo fosse stata accolta, la Corte avrebbe dovuto decidere con sentenza sulla costituzionalità di quella fonte primaria e non stabilire con ordinanza la propria incompetenza giacché si tratta di sole fonti secondarie.

    Se iniziamo così, ricostruendo male le caratteristiche del nostro ordinamento interno, c'è poco da sperare nell'esito del ricorso giacché un Paese il cui Governo ricorre smentendo un'ordinanza importante della propria giurisprudenza costituzionale non può allo stesso tempo dire alla Corte di Strasburgo di rispettare la specificità del principio di laicità in Italia enucleato in altre sentenze della stessa Corte.

*) Senatore della repubblica (Pd)      

Vent'anni dopo - 2 / Una liberazione che divenne riconquista neo-liberista

Nel 1989, vent’anni dopo la radiazione del gruppo del Manifesto dal Pci, era ancora più chiaro che, se il comunismo poteva avere ancora un futuro, certo non in continuità con l’esperienza sovietica. Una rottura era dunque indispensabile. E più che mai necessaria appariva una riflessione critica. Quella riflessione, però, non ebbe mai luogo e nell'irriformabile Est dilagò il mercato.

di Luciana Castellina 

www.nuvole.it

Vorrei concedermi – e me ne scuso – una breve nota autobiografica. Mi è necessaria affinché, chi di quei tempi antichi che sono ormai gli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70 non può avere memoria (o ha scelto di non averla), non sia spinto a pensare che io sia una incallita ortodossa conservatrice comunista. Perché dico che l’‘89 non è la data di una gioiosa rivoluzione libertaria, ma un passaggio assai più ambiguo e gravido di conseguenze, non tutte meravigliose.

    Insomma: per sgomberare il campo da possibili equivoci voglio ricordare che io, assieme ad altri, dal PCI fui, nel ’69, radiata anche perché ritenevo che il sistema sovietico fosse ormai irriformabile e non più difendibile. Molti di coloro che nei paesi dell’est si battevano per libertà e democrazia sono stati del resto interlocutori diretti (e a lungo esclusivi) della rivista cui demmo vita, Il Manifesto.

    Vent’anni dopo, nell’‘89, era ancora più chiaro che, se il comunismo poteva avere ancora un futuro (come noi pensavamo), non era certo in continuità con l’esperienza sovietica. Una rottura era dunque indispensabile, ma non una qualsiasi. In merito più che mai necessaria appariva una riflessione critica di tutte le forze che a quella storia si erano ispirate se volevano avere ancora un ruolo. Che invece non ci fu.

    Se insisto nel dire – e oggi, ad altri vent’anni di distanza è ancora più evidente – che in quell’autunno dell’‘89, vi fu certo liberazione da regimi diventati oppressivi, ma non una risolutiva liberazione, è perché il crollo del Muro si verificò in un preciso contesto: non per la vittoria di forze animatrici di un positivo cambiamento, ma come riconquista da parte di un occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Thatcher e Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria.

    Quanto seguì non fu infatti certo glorioso. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio e ogni forma di aggregazione nella società civile, espressione di qualche valore collettivo, venne cancellata, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, prepotenza, quando non peggio. Non solo ad est della ormai ex cortina di ferro, del resto, ma anche dal nostro lato. Perché anche qui da noi, la morte del socialismo sovietico è stata vissuta come rinuncia ad ogni ipotesi di cambiamento. Persino un liberal democratico come Bobbio, che certo comunista non era, ebbe – lucidamente – a preoccuparsene.

    Non era scontato che andasse così. La storia non si fa con i se, né può essere accusato il destino “cinico e baro”. Se è andata così non è per caso, ma è per precise responsabilità di cui tutti, chi più chi meno, portiamo il peso. Voglio solo dire che c’erano altri scenari possibili e che a quel risultato si è invece arrivati perché si era nel frattempo consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale, e il 1989 è una data che ci ricorda anche questo. Se il Pci avesse operato la rottura che poi operò nel 1981 con il sistema sovietico quando noi lo avevamo chiesto, in quegli anni ’60 in cui i rapporti di forza stavano cambiando a favore delle forze di rinnovamento in tutti i continenti, sarebbe stata ancora possibile una uscita “da sinistra” dall’esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c’è stata.
Già all’inizio degli anni ’80 il mondo era cambiato, alla fine del decennio era ulteriormente peggiorato.

    Nel terzo mondo i paesi di nuova indipendenza, che avevano cercato di sottrarsi al neocapitalismo, erano ormai largamente finiti nelle mani di corrotte cosche “compradore”, affossate quasi ovunque le grandi speranze che avevano animato i movimenti di liberazione che li avevano portati all’indipendenza.

    Il solo paese che aveva ostinatamente cercato di seguire un modello diverso da quello imposto dalla burocrazia moscovita, la Jugoslavia, si trovava – morto Tito – alla vigilia di un conflitto interno che l’avrebbe dilaniata. Sotterrata, anche, l’illusione accesa dallo schieramento di Bandung di cui Belgrado era stata animatrice e che per qualche decennio aveva realmente contribuito a limitare l’arroganza delle due grandi potenze.
Il movimento operaio, in occidente, era costretto a una linea difensiva per impedire che le conquiste dei decenni precedenti fossero rimangiate (e infatti lo furono). Il ’68, appariva ormai addomesticato dalla rivoluzione passiva che i ceti dominanti erano riusciti a effettuare, integrando quanto in quello straordinario movimento c’era di indolore e cancellando ogni suo segno alternativo.

    La leadership socialdemocratica europea – Brandt, Palme, Foot, Kreisky – che aveva coraggiosamente puntato a rimuovere la cortina di ferro col dialogo anziché con la minaccia militare, ovunque ormai scomparsa dalla scena, espulse dall’o.d.g. le proposte di denuclearizzazione almeno della fascia centrale europea.

    In Italia, si collocava un Pci che prima aveva troppo tardato a prendere atto della crisi sovietica, e poi aveva accantonato il tentativo cui Berlinguer, prima della sua morte improvvisa e inaspettata, aveva lavorato: l’idea di non trarre “dall’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre” conclusioni liquidatorie di ogni ipotesi alternativa, ma anzi, l’indicazione di una possibile “terza via”, ipotesi sulla quale aveva del resto intrecciato un fruttuoso scambio anche con settori importanti della socialdemocrazia. Proprio dalla caduta del Muro, il Pci, il più grande partito comunista dell’occidente, ancora forte di quasi due milioni di iscritti e di quasi un terzo dei voti, prendeva spunto per proporre il proprio scioglimento, accingendosi ad una frettolosa abiura. Laddove, proprio in Italia, a differenza di altri paesi, sarebbe stato invece possibile un altro tipo di svolta: perché la rottura con l’Urss si era ormai consumata da tempo e la critica ai sistemi che aveva generato non più patrimonio di piccole minoranze (come per molti versi era stato, vent’anni prima, all’epoca della radiazione del gruppo de Il Manifesto), bensì di una larga maggioranza di iscritti al partito e di elettori. Non c’era voluta la caduta del Muro, insomma, per svelare il fallimento, quanti credevano ancora nel mito erano a quel punto davvero un’esigua minoranza. Non c’era qui, dunque, nessun bisogno di clamorosi pentimenti, e neppure della frettolosa liquidazione del pensiero, dei valori, delle conquiste che costituivano il patrimonio del partito. E così è stato inferto un colpo durissimo alla memoria collettiva, alla soggettività di milioni di donne e di uomini. Avrebbe potuto invece essere l’occasione, finalmente, per una riflessione critica sulla propria storia che così non c’è stata. Non credo sia un caso se anche i posteriori tentativi di dar vita a partiti di sinistra abbiano prodotto formazioni tanto pasticciate, incapaci di fare i conti con la storia. Complessivamente nessuno sforzo serio di riflettere criticamente su cosa era accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato tentativo di cambiare il mondo, ma solo qualche ristagno nostalgico e, altrimenti, la resa a un pensiero unico che indicava il capitalismo come solo orizzonte della storia. Per me e molti altri la data dell’‘89 è anche data di questo lutto.

    E’ un discorso che non vale solo per i comunisti, del resto. Per il modo come il Muro è caduto era chiaro che un impatto ci sarebbe stato alla lunga anche sull’altra corrente del movimento operaio, la socialdemocrazia. La cui crisi, sempre più accentuata, è oggi palese testimonianza. Perché è la legittimità stessa di ogni idea di sinistra che è stata messa in discussione. Non solo: anche se i partiti socialdemocratici erano stati sempre molto ostili al blocco sovietico bisogna ben dire che le loro conquiste sociali sono state strappate in Europa anche grazie al fatto che la borghesia era stata costretta a dei compromessi perché c’era una società che, con tutti i suoi difetti, aveva però spazzato via il feudalesimo e la reazione. Senza il vento dell’est quelle conquiste sarebbero state impensabili. È tutta la sinistra, insomma, che da quel tipo di crollo dell’Urss ha sofferto.

    Certo, il Muro avrebbe potuto cadere in modi molto più drammatici: incenerito dai missili che proprio in quegli anni ‘80 erano stati installati in tutta Europa, in attuazione della sconsiderata strategia reaganiana cui, con miopia, aveva risposto la corrispettiva installazione di SS20 da parte di Breznev. Se questo scenario devastante non si inverò fu molto – vorrei ricordarlo – per via del movimento pacifista, la più grande mobilitazione giovanile europea dopo il ‘68, che contenne le spinte belliciste e contribuì a far avanzare un negoziato di disarmo che creò lo spazio in cui Gorbachev – vero artefice della caduta del Muro – poté inizialmente muoversi.
Non abbastanza, tuttavia, perché il nuovo leader sovietico, che aveva capito che occorreva cambiare e in fretta, e in questo senso si era mosso con imprevedibile coraggio, non trovò interlocutori ad occidente disposti a costruire quella “casa comune europea” che egli aveva in mente e che avrebbe dovuto essere cosa diversa dalla semplice annessione all’UE dei più obbedienti paesi dell’est. Qualche passo in questo senso lo accennò nel gennaio del ‘90 Jaques Delors, allora presidente della Commissione UE, ma nessuno lo seguì. E così l’‘89 segna la data anche di un’altra sconfitta: quella dell’ambizione europea ad assumere un ruolo, che proprio le aperture di Gorbachev consentivano, nel ridisegnare i rapporti internazionali. E così l’equilibrio bipolare non sfociò in un equilibrio multipolare, diventò semplicemente monopolare.
Se nel nostro pezzo d’Europa ci fosse stata una sinistra più forte e lungimirante, avrebbe potuto cogliere l’occasione dello scioglimento dei due blocchi politico-militari per dare nuova forza al soggetto Europa, così riequilibrando i rapporti di forza nel mondo. E invece la sua debolezza finì solo per avallare una resa incondizionata al blocco atlantico, lasciando tutti alla mercè del dominio incontrastato degli Stati Uniti. La guerra contro l’Iraq, la catastrofe palestinese, e infine l’Afganistan sono lì a provarlo. Quanto alle vecchie “democrazie popolari”, sono tornate allo status vassallo di protettorato a dipendenza del capitalismo occidentale, riservato tra le due guerre all’Europa centrale e balcanica.

    L’esempio forse più illuminante di come malamente hanno proceduto le cose è quello dell’unificazione della Germania, che pure era stata sogno legittimo del popolo tedesco. A 20 anni da quell’evento, una inchiesta pubblicata sul settimanale Spiegel ci dice che il 57% dei cittadini della ex Repubblica Democratica Tedesca hanno nostalgia di quel regime. Che francamente non era davvero bello. Vuol dire dunque che l’integrazione è stata solo conquista, e che l’ovest è arrivato come un rullo compressore, cancellando ogni cosa, anche i diritti sociali che lì erano stati sanciti e oggi vengono rimpianti.

    Se insisto ancor oggi a sottolineare le occasioni mancate dell’‘89, e i guasti che il non averle colte ha provocato, è perché nell’agiografica euforia con cui viene ora celebrato il ventennale della caduta del Muro anche da una bella fetta della stessa sinistra, c’è qualcosa di anche più pericoloso: lo spensierato seppellimento di tutto il XX secolo, come se si fosse trattato solo di un cumulo di orrori, da dimenticare. Senza alcun rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del Novecento. Non solo: una riduzione gretta del concetto di libertà e democrazia, arretrato persino rispetto alla Rivoluzione Francese, che assieme alla parola liberté aveva pur collocato le altre due significative espressioni: egalité e fraternité, ormai considerate puerili e controproducenti obiettivi. Il mercato, infatti, non le può sopportare.

    Io non credo che andremo da nessuna parte se, invece, su quel secolo non torneremo a riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie. Buttare tutto nel cestino significa incenerire anche ogni velleità di cambiamento, di futuro.
In quelle settimane di precipitosa accelerazione della storia che culminò con la fiumana umana che attraversava festosa la porta di Brandenburgo, a Berlino c’ero anch’io. Certo partecipe di quella gioia, come si è contenti ogni volta che un ostacolo al cambiamento viene abbattuto. Ma la libertà vera, quella per cui in tanti che credono che un “altro mondo” sia possibile si battono, quella non ha trionfato. Per questo l’‘89 non è una festa, è un passaggio contraddittorio e difficile.
Un’occasione per riflettere.   
       

Vent'anni dopo - 1 / L'OCCASIONE MANCATA DELLA SINISTRA ITALIANA

Nel nostro Paese il crollo del muro di Berlino non ha portato alla costruzione di una grande sinistra socialdemocratica, come nel resto d’Europa, bensì alla distruzione della sinistra e alla crescita smisurata dell'anomalia italiana.

di Ugo Intini 

www.sinistraeliberta.it

Per celebrare i venti anni dal crollo del muro, tutto è stato scritto. E’ inutile ripetere, ma può essere utile ricordare qualcosa che riguarda i socialisti italiani e che non è stato ancora detto.

    La guerra fredda non è mai stata concepita per essere veramente guerreggiata, ma come un conflitto "virtuale", una lunga partita a scacchi dove sulla tastiera si muovevano divisioni corazzate, basi navali e testate nucleari. Nella quale lo scacco matto, con tutti i vantaggi politici ed economici per il vincitore, sarebbe giunto nel momento in cui lo sconfitto si fosse trovato in irrimediabile condizione di inferiorità militare, con le spalle al muro. Nella seconda metà degli anni ‘70, secondo questa logica, l’Unione Sovietica, di fronte a una crisi economica ormai strutturale, tentò una mossa tanto disperata quanto decisiva. Dispiegò e puntò verso l’Europa occidentale i micidiali nuovi missili SS-20, a testata plurima, che avrebbero dovuto tenere sotto ricatto e intimidire i governi a ovest del muro, separarli dalla lontana Washington, piegarli a una cooperazione economica tale da risanare l’economia russa e colmarne l’arretratezza tecnologica. Il cancelliere socialdemocratico tedesco Schmidt intuì subito che, se non si reagiva, la scacco matto sarebbe stato inevitabile e chiese alla Alleanza Atlantica il dispiegamento di missili che pareggiassero di nuovo la bilancia delle forze in Europa. Si decise la installazione dei Pershing e Cruise, che doveva però essere ratificata e praticamente realizzata dai singoli Paesi europei. A questo punto, la partita divenne propagandistica e psicologica. I tedeschi, con accanto il muro di Berlino e una opinione pubblica in parte attratta dallo slogan "meglio rossi che morti", chiarirono che, se un solo grande Paese avesse vacillato e negato l’installazione dei missili, la Germania si sarebbe tirata indietro e quindi non se ne sarebbe fatto nulla. Milioni di manifestanti pacifisti, in tutte le piazze europee, si mobilitarono contro i Pershing e Cruise. Il leader socialista francese Mitterrand commentò: "strano, i missili stanno a Est e i pacifisti a Ovest".

    L’Italia fu subito vista come l’anello debole, il "grande Paese europeo" che avrebbe potuto dire di no. Il compromesso storico tra DC e PCI era ancora una ipotesi percorribile. Il mondo cattolico (basti ricordare la tradizionale marcia di Assisi) era naturalmente portato al pacifismo. Il Partito Comunista di Berlinguer, all’apice della sua ascesa, parlava sì di quella araba fenice definita "eurocomunismo", che mai si è materializzato e di cui mai si sono comprese le caratteristiche ideologiche, politiche e culturali. Ma nel contempo scatenava contro i missili (esattamente secondo le esigenze di Mosca) tutto il suo peso propagandistico e organizzativo. La Repubblica e la stessa La Stampa di Torino seminavano o dubbi o incoraggiamenti verso i pacifisti. D’altronde, per i proprietari del quotidiano di Torino e di quello di Scalfari, la Russia era o poteva diventare l’affare del secolo: Agnelli la aveva infatti "motorizzata" con Togliattigrad e De Benedetti sperava di "informatizzarla" attraverso la sua Olivetti. Il giorno dopo la più grande manifestazione contro i missili mai avvenuta, nel 1981, La Repubblica titolava "Addio alle armi" (quelle occidentali, naturalmente). E persino Norberto Bobbio, in un fondo su La Stampa dal titolo "Atene e Sparta", poneva sostanzialmente sullo stesso piano Washington e Mosca. L’anello debole dell’Alleanza Atlantica, l’Italia, era vicino a spezzarsi e si sarebbe spezzato senza la resistenza imprevista, testarda e durissima condotta dal Partito Socialista di Craxi. L’Italia alla fine installò i missili e così fecero pertanto tutti i Paesi europei. La mossa disperatamente tentata con i missili SS-20 dalle "mummie meccaniche del Cremlino", come le chiamava Enzo Bettiza, mancò lo scacco matto e a quel punto la guerra fredda scivolò definitivamente verso la vittoria dell’Occidente: dimostratasi impossibile la forzatura sul piano militare, la partita si risolse su quello economico, dove il ritardo sovietico era ormai diventato irrecuperabile. Molti anni dopo, Brezinski, l’ex segretario di Stato di Carter, mi fece un riconoscimento che non avrei mai dimenticato. "Senza i missili Pershing e Cruise in Europa -ragionò- la guerra fredda non sarebbe stata vinta; senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il PSI di Craxi la decisione dell’Italia non sarebbe stata presa. Il Partito Socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo. Anche solo per questo passerà alla storia".

    I socialisti italiani condussero una politica coraggiosa verso l’Est europeo, ma anche difficile, perché spesso isolata a sinistra. Non solo in Italia, per la presenza incombente del PCI, ma anche in Europa, perché le grandi socialdemocrazie non furono necessariamente più lungimiranti o generose del modesto PSI. Craxi appoggiava apertamente gli oppositori frontali del sistema comunista: Sacharov e la moglie Helena (che venne spesso nostra ospite) in URSS, Geremek e Adam Michnik in Polonia, Pelikan in Cecoslovacchia. Ma Pelikan, ad esempio, che parlava perfettamente tedesco, dopo il crollo della primavera di Praga e l’esilio, cercò aiuto innanzitutto in Germania, e solo di fronte alla freddezza incontrata a Bonn ripiegò sull’Italia. Come mai? Voglio raccontare la verità, anche se può non giovare al mito di un leader, come Willy Brandt, verso il quale ancora nutro una grande ammirazione. I socialdemocratici europei coltivavano la realpolitik, quelli tedeschi pensavano soprattutto alla Germania orientale, mentre noi, piccoli socialisti italiani, facevamo semplicemente ciò che ci sembrava moralmente giusto. Un giorno Brandt disse esplicito a Craxi: "Sbagliate ad appoggiare i nemici dei partiti comunisti dell’Europa orientale. Non si deve puntare su di loro che, contrapponendosi frontalmente al sistema, non vinceranno mai. Ciò è addirittura controproducente. Si devono invece appoggiare le componenti moderate e pragmatiche all’interno dei partiti comunisti di governo, così da attirarli a poco a poco verso posizioni riformiste e utili alla distensione".

    Infine, una ultima osservazione, che riguarda più da vicino l’attualità politica italiana. Quando il muro crollò, la nostra sinistra bruciò una grande possibilità e mancò una occasione storica, perché non riuscì a unirsi in tempi brevi sotto la bandiera socialdemocratica, superando finalmente la scissione del 1921 a Livorno. Il mio amico Villetti ripete spesso che incredibilmente il PSI ripeté, di segno opposto, lo stesso catastrofico errore storico del 1947-48. Mentre la cortina di ferro calava sull’Europa, i socialisti di Nenni avrebbero dovuto stare a Occidente, con i partiti democratici e la DC. Invece, in nome dell’unità della sinistra, stettero a Oriente, con Stalin e il PCI. Nel 1989, al contrario, crollata la cortina di ferro, i socialisti di Craxi, allievo e successore di Nenni, avrebbero dovuto costruire con l’ex PCI l’unità della sinistra, non più ostacolata dall’insormontabile impedimento internazionale che la aveva bloccata per decenni. Invece, si trovarono ancora una volta, nel momento storico decisivo, come con Nenni nel 1948, dalla parte sbagliata: questa volta, non contro, ma con la Democrazia cristiana; non con, ma contro il PCI. E’ in parte vero. In parte, perché i tempi (spesso decisivi nella storia) non quadrarono per una non trascurabile circostanza pratica. Craxi aveva sempre perseguito, come obbiettivo di lungo termine, la strategia dell’alternativa di sinistra con il PCI. Ma sempre sottolineava che la alternativa era raggiungibile soltanto dopo il riequilibrio elettorale tra PSI e PCI (o almeno dopo il bilanciamento della situazione che vedeva i comunisti con il doppio dei voti socialisti e quindi egemoni). Il ribaltamento o il bilanciamento tra PSI e PCI erano indispensabili non per una ambizione socialista, ma perché obbiettivamente una sinistra a maggioranza e guida comunista mai e poi mai avrebbe potuto attirare i voti del centro necessari a vincere le elezioni in uno schema bipolare. Diciamo la verità. Il bilanciamento nel 1989-90 non c’era e non era prevedibile in tempi brevi. Uno schieramento "PSI più ex PCI" in elezioni anticipate sarebbe risultato perdente e avrebbe consegnato il Paese alla DC.

    I tempi non quadrarono dunque, e anzi portarono al disastro, per errori certo anche nostri. Si affacciò infatti la prospettiva di Mani Pulite e l’ex PCI pensò di risolvere tutti i suoi problemi non affrontando la questione socialista. Bensì, più semplicemente, avvantaggiandosi della distruzione del Partito Socialista. In quel momento, prevalse la facile tentazione di sottintendere che sia il comunismo sia il socialismo democratico avevano fallito, che si poteva non fare i conti con la storia, non sanare la lacerazione del 1921 a Livorno, ma correre oltre, verso l’indistinto "nuovismo" di un Partito Democratico senza passato e senza memoria. Magari cavalcando le mode del momento, la anti "partitocrazia" e addirittura la anti politica, la personalizzazione, il populismo. Così, sul terreno di un indistinto nuovismo, priva dell’ancoraggio saldo all’unica realtà internazionale esistente, quella socialista, è naufragata, insieme al Partito Democratico, la sinistra italiana. Il crollo del muro di Berlino, paradossalmente, non ha portato alla costruzione, come nel resto d’Europa, di una grande sinistra socialdemocratica, che cancellasse finalmente la anomalia italiana, bensì alla distruzione della sinistra e alla crescita smisurata della anomalia italiana stessa.        

Un lungo tragitto da compiere assieme

Ipse dixit

In posti piccoli  -
"Dove nascono, in fin dei conti, i diritti umani universali? In posti piccoli, vicino casa. In posti così piccoli e vicini che non possono essere visti in nessuna mappa. Eppure questi luoghi sono il mondo dell’individuo: il quartiere in cui vive, la scuola o l’università che frequenta, la fabbrica o l’ufficio in cui lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cerca la parità senza discriminazioni nella giustizia, nelle opportunità e nella dignità. Se questi diritti non hanno significato là, significano poco ovunque e se non sono applicati vicino casa non lo saranno nemmeno nel resto del mondo." - Eleanor Roosevelt        

VISTI DAGLI ALTRI
A cura di Internazionale - Prima Pagina
 
Un subsecretario de Berlusconi, acusado de colaborar con la Camorra

Nicola Cosentino, sottosegretario all'economia e membro del Pdl guidato da Silvio Berlusconi, è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Avrebbe infatti collaborato con la camorra in cambio del suo appoggio elettorale. Raffaele Piccirillo, il giudice di Napoli per le indagini preliminari, ha segnalato che Cosentino contribuiva dagli anni novanta a rafforzare le attività dei clan camorristici Bidognetti e Schiavone. Il gip Piccirillo ha chiesto il via libera al parlamento per eseguire una misura di custodia cautelare. Cosentino, che è anche il coordinatore del Pdl in Campania, si sarebbe presentato alle elezioni amministrative di marzo come candidato a governatore della Campania.

El Mundo, Spagna
http://www.elmundo.es/elmundo/2009/11/11/internacional/1257894988.html



In breve
Good morning, Mr. Pesc Sta per scoppiare la pax bersaniana nel centro-sinistra? Chissà. Fatto è che PD, PSI e SeL convergono sulla possibile nomina di D'Alema quale Ministro degli Esteri dell'UE.  

“Se verrà confermata la scelta dei socialisti europei, espressa a Bucarest da Schultz, per Massimo D’Alema sarà spianata la strada a ministro degli esteri dell’Unione europea”. E’ quanto afferma il segretario del Psi, Riccardo Nencini commentando le affermazioni del capogruppo dell'Alleanza dei socialisti e democratici al PE. “Oltre che un importante successo per l’Italia, tutta insieme, e un riconoscimento per D’Alema, con la sua nomina a Mr. Pesc, saremo di fronte alla più evidente e definitiva certificazione della caduta del Muro di Berlino”. La presa di posizione di nencini segue alla valutazione positiva che il PSI ha dato dell'elezione di Bersani alla guida del PD: “Il Pd delineato oggi da Pierluigi Bersani è costruito su un’impostazione solidamente riformatrice che ci consente di immaginare un lungo tragitto da compiere assieme, come socialisti e come Sinistra e Libertà”, aveva commento il segretario socialista, Riccardo Nencini, dopo il discorso inagurale tenuto dal neosegretario del Partito democratico: “Questo ci consente di progettare, già dai prossimi giorni, una collaborazione sui temi più importanti per il futuro del Paese a cominciare da quelli legati al lavoro e, soprattutto, alla disoccupazione, in una situazione di crisi economica che resta grave e che non interessa solo l’Italia. Non mancheranno le occasioni di confronto anche con gli altri partiti della famiglia socialista europea come il prossimo congresso del Pse che ci vedrà assieme a Praga, nei primi giorni di dicembre”. Intanto il coordinamento nazionale di Sinistra e Libertà ha deciso di prendere parte con una propria rappresentanza all'assise eurosocialista in calendario nella capitale ceca il 7 e l'8 dicembre prossimi.


L'ELEZIONE DI ROSY BINDI ?
UNA BUONA NOTIZIA PER LE DONNE

“L’elezione di Rosy Bindi alla presidenza del Pd è una buona notizia per tutte le donne, indipendentemente dalla loro fede politica”. E’ quanto afferma Pia Locatelli, presidente dell’Internazionale socialista donne. “Seria e preparata, non potrà che fare del buon lavoro per il suo partito e per il Paese. La sua nomina è una nuova conferma che le donne, in condizioni di democrazia e trasparenza delle regole, non hanno bisogno per fare le ministre o per aspirare ai vertici della società civile, di nessuna scorciatoia, nemmeno di investiture del ‘capo’”.



Scudo fiscale e liste nere 

In vendita, come prevedibile, la lista svizzera con i nomi di "corentisti famosi".  Un CD sarebbe stato offerto alla redazione di Mf-Milano Finanza

Roma, 11 nov. (Apcom) - E' già partita l'offerta delle liste nere della Svizzera sui correntisti famosi che hanno nascosto capitali nei Cantoni. Che si tratti di una semplice minaccia o di qualcosa di più concreto lo si capirà più avanti. Di sicuro, riporta Milano Finanza, un elenco sarebbe già in circolazione. Secondo il quotidiano, tra il Canton Ticino e Zurigo ci sarebbero un paio di funzionari (probabilmente italiani) di una banca locale, pronti a offrire, a chiunque sia disposto a pagare un prezzo adeguato, un dischetto contenente un elenco di correntisti italiani in odore di irregolarità fiscali. Ieri un intermediario (così si è presentato al telefono) ha preso contatto con la redazione di Mf-Milano Finanza, riporta il quotidiano, dicendosi pronto a fissare un appuntamento con i possessori del dischetto. Ma, assicurano dal quotidiano, la trattativa è durata poco. Nè danno risultato le successive indagini per rintracciare la chiamata al telefono. Dunque solo un mitomane, in vena di tirare un brutto scherzo? Può darsi, scrive Mf, ma di questi tempi nulla può essere escluso.

       

lunedì 9 novembre 2009

Tre bugie sul Terremoto

Abruzzo
Tre bugie sul Terremoto
"Sul terremoto in Abruzzo il presidente del Consiglio continua a dire bugie". Ne è convinto il senatore del Pd Giovanni Legnini che elenca quelle che secondo lui sono le tre falsità proclamate dall'attuale presidente del consiglio.

Prima di tutto non si può parlare di 'ricostruzione post-terremoto': "Non c'è stata alcuna ricostruzione - afferma il sen. Legnini - ma solo la realizzazione di case provvisorie, per altro non in numero sufficiente a tutti gli sfollati".

"Inoltre - aggiunge Legnini - sostenere che gli interventi sono stati realizzati attraverso l'abolizione di spese e sprechi è altrettanto falso. E' infatti universalmente noto che le risorse utilizzate sono state prese dal Fas, il fondo per le aree sottoutilizzate, sottraendole ad investimenti destinati al Mezzogiorno del Paese".

"La terza bugia detta da Berlusconi - conclude il parlamentare democratico - è che si sarebbe impegnato affinché il 50% dei lavoratori impegnati fosse abruzzese. Non è vero: non c'è nessuna norma che lo preveda e nella realtà non è così. Il presidente del Consiglio farebbe invece bene a preoccuparsi dei 17mila disoccupati creati dal terremoto e che a fine anno si ritroveranno senza ammortizzatori sociali".      

Ambiente
Spostarsi in città
con la bici a idrogeno È in mostra a Roma una bicicletta a pedalata assistita alimentata a idrogeno. Il veicolo è in grado di percorrere 150 km con un "pieno".

La bicicletta elettrica si evolve: l'Itae-Cnr di Messina ha ideato e relizzato un prototipo di bici elettrica a pedalata assistita alimentata a idrogeno, dotata di un sistema di accumulo a stato solido.

I vantaggi rispetto ai mezzi dotati di batterie tradizionali (a parità di peso) stanno nell'autonomia e nei costi: con soli 18 euro è possibile fare il pieno e muoversi per circa 150 Km (12 centesimi al chilometro), provando l'ebbrezza di spostarsi in città con una bici a idrogeno tra le gambe.

La bici a idrogeno è solo parte del progetto complessivo, che prevede un sistema di rifornimento composto "da una fonte di energia rinnovabile (solare fotovoltaico) e un elettrolizzatore per la produzione di idrogeno da acqua. Questo abbasserà di molto il costo del combustibile e chiuderà il cerchio in termini di emissione zero", spiega Vincenzo Antonucci, dell'Itae-Cnr.

Il progresso tecnico sta anche nei tempi necessari per la ricarica: mentre una batteria convenzionale richiede dalle sei alle otto ore, il prototipo si accontenta di circa 15 minuti per tornare alla piena efficienza. Il che si traduce in un aspetto particolarmente vantaggioso nella gestione di flotte - illustra il responsabile della ricerca, Giorgio Dispenza - "poiché consente di ridurre il numero di mezzi per garantire la continuità del servizio".

La presentazione del prototipo è avvenuta in occasione dell'evento H2Roma Energy e Mobility Show, in calendario nella capitale fino al 5 novembre. [ZEUS News