domenica 8 dicembre 2019

LA LEGGE ELETTORALE

Il problema della legge elettorale sembra essere tornato nell'agenda della politica italiana. Vi ha fatto ritorno in piena sintonia con il clima incerto e cupo che avvolge la nostra democrazia nella quale non tiene campo il Paese, ma la crisi irreversibile dei 5Stelle, la falsa saldezza del Pd, i proclami di Salvini, le uscite utilitaristiche di Renzi e le corse sul posto di Calenda.

 

di Paolo Bagnoli

 

Per ogni Paese la legge elettorale non è strumentale alle esigenze dell'immediato, bensì un istituto fondante del sistema democratico; di come si ritenga debba essere la cifra della democrazia medesima. Il proporzionale puro era in sintonia con un'Italia fondata sulla centralità del Parlamento. Non è più così poiché il Parlamento da troppo tempo è un organismo sonnecchiante e la sua maggiore forza politica, addirittura, è dell'idea che debba essere superato. Giocando sulle parole dovrebbe transitare dall' essere la casa di tutti alla Casaleggio; ossia alla mera risonanza di risposte rousseauiane. Il Parlamento, inoltre, sonnecchia anche perché la quasi totalità dei suoi componenti, per lo più digiuni di ogni concetto fondamentale delle istituzioni e della politica, non ha percezione di cosa significhi farne parte e della dignità istituzionale che a tale funzione si lega.

    In questi lunghi anni di post prima repubblica abbiamo avuto diverse leggi elettorali. Se si eccettua quella che va sotto il nome di Mattarellum, le altre sono state, anche violando le norme costituzionali, strumenti pensati per conquistare il potere; per andare al governo. Andarci, a ben vedere, non per governare, ma per affermare come legittima l'arroganza di un'impostazione politica; impropriamente e pericolosamente un'espressione della democrazia quale valore e sistema racchiuso nel governo. Il risultato è che in Italia abbiamo un sistema parlamentare sempre più debole e governi o arroganti come il Conte I o surreali come il Conte II. 

    Agli inizi della seconda repubblica la classe politica di allora, cui andrebbero riconosciuti i serti di alloro della modestia, incapace di pensare la portata della crisi indotta da Tangentopoli, si teneva alla larga dalla politica e pensava che tramite lo strumento della legge elettorale – nemmeno a conoscenza del vecchio adagio per cui non c'è soluzione tecnica che ne risolve una politica – si potesse surrogare il vuoto politico, considerato che la legittimità del mandato politico consisteva solo nel conquistare il governo e, quindi, delegittimare gli avversari. Chi vinceva conquistava non solo il governo, ma la verità; chi perdeva le elezioni non solo era stato sconfitto, ma posto addirittura nel recinto della non-verità. Così, chiudendo gli occhi sulla crisi, le sue cause e relative conseguenze, si finiva per dare a un sistema malato una cura fatta di bacilli e non di anticorpi. Le leggi elettorali sono state considerate quali atti strumentali per andare contro qualcuno non per dare al Paese la giusta rappresentanza delle sue tendenze politiche. 

Un'abitudine che continua. Oggi la preoccupazione che regna sovrana è fare una legge che impedisca alla destra a trazione salviniana di "vincere" il governo. Non sembra si sappia bene, nel concreto, cosa fare, ma a battere Salvini non sarà una particolare legge elettorale, ma la politica; quella politica che ci aspettavamo da questo governo che sta dimostrando la propria pochezza, incapacità di pensare l'Italia e che, per battere Salvini, fino a ora non ha fatto niente. I 5Stelle, come tutte le superfetazioni improvvise, al loro sgonfiarsi creano confusione e sbandamenti; Zingaretti dopo una serie di interventi conditi da sorrisi sublimanti la mancanza di pensiero e dopo aver cercato di rieditare una vecchia ricetta di scuola comunista – Togliatti cercò di istituzionalizzare per le proprie necessità l'Uomo Qualunque e D'Alema ripeté lo schema con Di Pietro ed entrambi fallirono – ha proposto un matrimonio strategico, una cosa fuori da ogni ragionevolezza e lucidità, solo dettata dal vuoto di linea e dalla paura del domani, alla fine si è attaccato a Grillo pregandolo di intervenire e sta marciando – udite, udite!! – verso la stipula di un contratto coi 5Stelle; non è nemmeno la storia che si ripete, ma l'educazione ci impone di fermarci qui. Ci sia permesso di aggiungere che pensavamo esistesse ancora, nonostante tutto, anche in politica un comune senso del pudore.

    Questo è il clima nel quale si colloca la discussione della legge elettorale; non sfioriamo nemmeno il merito delle possibili soluzioni, ma qualunque cosa venga fuori è facile ritenere che sarà l'ennesimo deleterio pasticcio.

     

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/



Beste Grüsse
 
Gregorio Candelieri
 
Im Feldtal 2, 8408 Winterthur
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Perché i 5 Stelle sono arrivati a questo punto?

I capi 5S hanno seminato troppi tradimenti e ora (gli altri) raccolgono consensi.

Il maggiore autogol del 5 Stelle è stata la Lega "partito nuovo e antisistema". Il più` vecchio (1989) partito oggi insediato sul territorio italiano, partito dominato da una vecchia volpe della Prima e della Seconda repubblica (Salvini è nella Lega dal 1991) e` stato per vent'anni la peggiore Casta ed è invischiato in scandali e ruberie. Se per il Movimento c'è ancora una speranza, questa dovrà passare attraverso un esame di coscienza collettivo, in un congresso in carne e ossa.

 

di Marco Morosini *)

 

Perché i capi 5 Stelle hanno fatto perdere al Movimento in un anno tanto di quel consenso che raccolse in un decennio? Chi si fida ora del M5S, passato dal né destra né sinistra al né carne né pesce? Alcuni suoi elettori di sinistra non lo voteranno più dopo il tradimento che lo ha visto andare con l'estrema destra. Alcuni suoi elettori di destra non lo voteranno più dopo l'improvvisato governo con le sinistre.

    Per anni i capi 5 Stelle dissero che il Movimento era l'argine contro l'avvento dell'estrema destra. Nel 2018 però è accaduto il contrario. Anche grazie alla grande visibilità che il 5 Stelle ha dato al senatore Salvini, l'estrema destra più pericolosa d'Europa ha moltiplicato i suoi consensi. Invece che un argine alla destra, il Movimento è stato purtroppo il suo incubatore.

    Il Movimento 5 Stelle, inoltre, ha coltivato alcuni temi della Lega, pensando di toglierle la terra sotto i piedi. A lungo i capi 5 Stelle hanno criminalizzato le organizzazioni umanitarie che salvano i naufraghi nel Mediterraneo definendole "taxi del mare" e "business dell'immigrazione". Mesi di fango gettati dall'onorevole Di Maio hanno indotto milioni di persone a pensare che "le Ong" nel loro insieme siano associazioni di malfattori.

    Il maggiore autogol del 5 Stelle, però, è stato l'accreditare la Lega come partito nuovo e antisistema. Il più` vecchio (1989) partito oggi insediato sul territorio italiano, partito dominato da una vecchia volpe della Prima e della Seconda repubblica (Salvini è nella Lega dal 1991) e` stato per vent'anni la peggiore Casta ed è invischiato in scandali e ruberie. Ci vuole un bel coraggio a chiamare "governo del cambiamento" una compagine dominata da un tale protagonista della Casta. Quanti elettori potranno perdonare al 5 Stelle questo gioco di prestigio con le parole?

    Il miglior indicatore della deriva del Movimento e` il confronto tra le due trattative di governo del 2013 e del 2018. La prima porto` al rifiuto di un governo con il Partito Democratico guidato dal deputato Gian Luigi Bersani. La seconda porto` alla formazione di un governo con la Lega del senatore Matteo Salvini. Ciò` dimostra che l'avversione del Movimento non era contro "i partiti ", come si diceva, ma solo contro i partiti di sinistra, che infatti sono stati fino a ieri il bersaglio preferito del Blog e delle dichiarazioni 5 Stelle. 

    Vale la pena di comparare i due leader politici, Salvini e Bersani, trattati cosi` diversamente dalla centrale 5 Stelle. Il motto del giornale della Lega "Il populista ", fondato da Salvini, e` "Libera la bestia che c'e` in te". Il sottotitolo "Audace, istintivo, fuori controllo ". In fondo e` questo il vero programma di governo del senatore Salvini, con buona pace dei suoi ultimi alleati di governo. Perché allora questo personaggio fu considerato il partner ideale del Movimento (Di Maio: "Grande sinergia, ci capiamo al volo ") mentre il senatore Bersani, che non dice né fa le cose detestabili che fa e dice Salvini, fu rifiutato come partner nel 2013?

    Nel 2013 una coalizione 5 Stelle-Pd con il 52% dei voti sarebbe stata equilibrata perche´ ognuno dei due partiti ebbe 9 milioni e il 26% dei voti. In settant'anni di Repubblica, per sessant'anni la sinistra non ha governato e mai una forza di rinnovamento radicale come il Movimento 5 Stelle aveva governato. Una maggioranza riformatrice ben preparata 5 Stelle-Pd con piu` del 50% fu un'occasione mai presentatasi prima. 

    Nel 2013 si sarebbe davvero potuto cominciare una riforma del Paese, forse piu` profonda di quella del centrosinistra negli anni Sessanta. Invece, nel 2018 si e` scelto di riportare al potere la parte peggiore della Casta. Nel 2013 un accordo ben maturato con Bersani avrebbe permesso al Movimento di realizzare una parte maggiore del programma 5 Stelle di quanto esso possa fare con la Lega o con il Pd del 2019.

    Purtroppo, è bastato un anno di "governo dei cittadini "con a capo "l'avvocato del popolo "per deludere le speranze di chi vide nel Movimento 5 Stelle un'occasione per rinnovare la politica in Italia. Se per il Movimento c'è ancora una speranza, questa dovrà passare attraverso un esame di coscienza collettivo, in un congresso in carne e ossa, senza computer di mezzo, dove si liberi la parola e si torni ai principi e agli obiettivi originari del Movimento.

     

*) Nel suo libro dal titolo "Snaturati. Dalla social-ecologia al populismo" (2019), il professor Marco Morosini – che insegna analisi delle politiche ambientali presso il Politecnico federale di Zurigo ed è stato per quasi trent'anni il ghostwriter di Beppe Grillo – ricostruisce una "(Auto)biografia non autorizzata del Movimento 5 Stelle".


martedì 19 novembre 2019

L’Ilva non deve chiudere.

a cura di www.rassegna.it


Cgil: «Governo torni indietro»

 

Landini: "L'esecutivo deve rimettere lo scudo, ma il piano non si tocca". Mercoledì in mattinata l'atteso confronto a Palazzo Chigi tra la multinazionale e il presidente del Consiglio Conte dopo la decisione del gruppo franco-indiano di ritirarsi

  

"È utile che il governo corregga una evidente forzatura di utilizzo politico di una vicenda delicata e complessa come quella dell'ex Ilva. Quella norma sullo scudo era stata oggetto di confronto nel momento in cui era stato fatto l'accordo. E ricordo che quel che è stato fatto nei confronti di Mittal, in passato è stato fatto anche per i commissari che hanno gestito l'Ilva per anni". A fare il punto sugli ultimi sviluppi del caos Ilva è il segretario generale della Cgil Maurizio Landini in una intervista all'Huffington Post. "È una norma logica: chi arriva è responsabile di quello che fa da lì in avanti e non prima. Penso che il governo sia nelle condizioni di trovare una soluzione soddisfacente. È chiaro che in Parlamento c'è stata una strumentalizzazione politica. Con Cisl e Uil – aggiunge Landini – abbiamo chiesto al governo di togliere ogni alibi a Mittal. Non le si può permettere di dire che deve terminare la produzione a causa di un clima ostile da parte della politica e della magistratura. Da Mittal ci aspettiamo che chiarisca le sue intenzioni, dica che non se ne vuole andare e che intende mantenere gli impegni sottoscritti sia per il piano industriale che ambientale".

    Nel frattempo l'ad ArcelorMittal Italia Lucia Morselli ha confermato ai segretari generali di Fim, Fiom, Uilm e Usb, nel corso di un incontro che si è svolto oggi pomeriggio nello stabilimento tarantino, la volontà di recedere dal contratto per l'acquisizione della fabbrica già espressa ieri. Lo hanno reso noto gli stessi sindacati al termine della riunione. 

    LA GIORNATA - Ore decisive per il futuro della ArcelorMittal, dopo che la multinazionale indiana ha annunciato il ritiro dalla ex Ilva di Taranto. In mattinata si è tenuta a Taranto la riunione del Consiglio di fabbrica, che ha deciso "di dare vita mercoledì 6 novembre a un presidio vicino la direzione, lasciando il consiglio di fabbrica permanente", mentre nel pomeriggio si è tenuto un vertice tra Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil territoriali e la direzione aziendale dello stabilimento nel quale è stata confermata la volontà di procedere alla cessione. Per mercoledì 6 è in calendario (ore 11) a Roma, presso Palazzo Chigi, il confronto tra ArcelorMittal e il governo, rappresentato dal premier Conte e dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, previsto inizialmente per oggi. 

    La situazione è precipitata in seguito alla nota della società in cui riferiva di aver inviato ai commissari straordinari "una comunicazione di recesso dal contratto o risoluzione dello stesso" riguardo all'affitto e al successivo acquisto condizionato dei rami d'azienda di Ilva e di alcune sue controllate. ?Il gruppo ha ricordato che il contratto prevede che la società possa recedere dallo stesso nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto, in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l'attuazione del piano industriale.

    Il governo "deve togliere ogni alibi ad ArcelorMittal facendo applicare l'accordo a suo tempo firmato". Così il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, intervistato ieri (martedì 5 novembre) da Rai Radio1.

    Nel mirino di ArcelorMittal, dunque, c'è il provvedimento con cui, dal 3 novembre 2019, "il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso". In aggiunta, si legge ancora nella nota aziendale, i "provvedimenti emessi dal tribunale penale di Taranto obbligano i commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019. Tali prescrizioni dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni dello stabilimento di Taranto. Lo spegnimento renderebbe impossibile per la società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il contratto".

    ArcelorMittal ha infine evidenziato che "altri gravi eventi, indipendenti dalla volontà della società, hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa che ne ha ulteriormente e significativamente compromesso la capacità di effettuare necessari interventi presso Ilva e di gestire lo stabilimento di Taranto". Secondo il gruppo tutte queste circostanze "attribuiscono alla società anche il diritto di risolvere il contratto in base agli applicabili articoli e princìpi del Codice civile italiano. In conformità con il contenuto del contratto la società ha chiesto ai commissari straordinari di assumersi la responsabilità per le operazioni e i dipendenti entro 30 giorni dalla loro ricezione della predetta comunicazione di recesso o risoluzione".

    Per il segretario confederale della Cgil Emilio Miceli "Taranto e l'Italia non possono pagare il prezzo di un contenzioso infinito tra ArcelorMittal e governo. Mai come in questo caso il futuro dipende dal presente, c'è bisogno dell'impegno di tutti per evitare un disastro: l'azienda si fermi e l'esecutivo tenga fede agli impegni presi e ristabilisca le condizioni dell'accordo". L'esponente sindacale rileva che "in nessuna area del Mezzogiorno che ha vissuto grandi dismissioni industriali c'è mai stata traccia di sviluppo industriale, urbanistico e ambientale. Da Crotone a Termini Imerese, il Sud ha conosciuto solo sopportazione e assistenza, mai sviluppo e modernizzazione. Taranto dispone di un progetto importante di riqualificazione, di risorse pubbliche e private. Evitiamo quindi di disperdere questo patrimonio, che rappresenta un'opportunità di costruire attorno alla ex Ilva quel progetto di ampio respiro e di ambientalizzazione di cui c'è bisogno, altrimenti sarà un salto nel buio". Miceli, in conclusione, ha invitato il governo "a fare i passi necessari e l'azienda ad agire di conseguenza".

    "Siamo molto preoccupati per il rispetto del piano industriale, occupazionale e ambientale all'ex Ilva. Da tempo chiedevamo una verifica. La questione dell'immunità offre un alibi: non fornire un quadro legislativo certo è l'opposto di fare politica industriale". A dirlo è la segretaria generale della Fiom Cgil Francesca Re David: "Mi preoccupa che la discussione sia misurare chi ha ragione da un punto di vista giuridico: penso che il governo abbia fatto un errore e a volte riconoscere gli errori è un fatto positivo, significa togliere l'alibi all'azienda". Secondo Re David, il governo deve "chiamare l'azienda al tavolo e chiedere il rispetto degli accordi, altrimenti è a rischio non solo l'Ilva ma anche tutta l'industria del Paese, visto che l'acciaio è il settore primario del manuffatturiero e noi siamo il secondo Paese manufatturiero d'Europa. Vorremmo capire, perciò, se vogliamo continuare a esserlo o meno". 

    Enorme la preoccupazione anche della Cgil Puglia. "Siamo alle solite: un'azienda che rimarca gravi responsabilità nei propri atteggiamenti, un governo che non è lineare nelle proprie scelte, le conseguenze sono per i lavoratori e i cittadini di Taranto, vittime sacrificali del rimpallo tra governo e azienda in quella che rischia di essere una bomba sociale", commenta il segretario generale Pino Gesmundo: "Il governo spaventa le aziende perché non è coerente con le scelte che assume, perché con il Conte 1 aveva dato l'immunità, ma con il Conte 2 l'ha tolta. È un problema che riguarda sicuramente l'ex Ilva, ma riguarda tutti coloro che vorranno venire a investire in Italia". Gesmundo invita impresa e governo "a rispettare gli accordi già presi che consentono, non senza responsabilità sul mantenimento dei livelli occupazionali e impegni di investimento sulla compatibilità ambientale, di affrontare una situazione in cui sono in gioco il diritto al lavoro e alla salute dei cittadini tarantini".

    Netta la presa di posizione di Confindustria. "La vicenda è emblematica e consegue a una scelta fatta in Parlamento, nelle scorse settimane, di revocare uno dei punti qualificanti del contratto che l'investitore aveva firmato con lo Stato italiano. Mi auguro che, chi deve, capisca quali sono le conseguenze di scelte irragionevoli e non meditate". Così il direttore generale Marcella Panucci: "I continui cambiamenti di norme, gli interventi a gamba tesa sulle norme penali, l'instabilità del quadro non solo non attraggono investimenti, ma fanno scappare quelli che ci sono".

 

LANDINI: "Nel caos di queste ore facciamo chiarezza sulla vicenda ex Ilva" 

 

Non si può ritenere Arcelor Mittal responsabile per i problemi ambientali creati da chi c'era in precedenza. 

Così come sono stati protetti dall'imputabilità i commissari, così va fatto con Arcelor Mittal che deve invece essere responsabile se non realizza gli investimenti e il piano ambientale pattuiti

Il governo deve togliere ogni alibi ad Arcelor Mittal facendo applicare l'accordo che a suo tempo fu firmato



Beste Grüsse
 
Gregorio Candelieri
 
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giovedì 16 maggio 2019

Ragioniamo sul 25 aprile

Come ogni anno, dall’epoca Berlusconi in poi, la ricorrenza del 25 aprile

è motivo di discussioni, polemiche, provocazioni, falsità, assurdità

storicopolitiche e potremmo continuare.

di Paolo Bagnoli

A ben 74 anni dalla Liberazione, ogni anno occorre puntualizzare, ricordare, ammonire, rimettere in colonna tutti gli addendi storici per arrivare, ancora una volta, all’unica conclusione possibile: il 25 aprile è la festa della libertà del popolo italiano. Della sconfitta del fascismo; la data che segna la chiusura della stagione del fascismo. Da qui la nascita della Repubblica, la Costituzione, la vita della democrazia: una nuova stagione senza nome e senza qualità se si prescinde dall’antifascismo. L’Italia è una Repubblica che rimane fedele a se stessa fino a che rimane saldamente legata all’antifascismo. Appena se ne scosta – i fatti lo dimostrano – sbanda e il fascismo del tempo presente rialza baldanzosamente la testa inquinando la convivenza civile del nostro popolo. Ma perché è così?

    Cerchiamo di ragionare. Sulla Resistenza e sulla guerra di Liberazione, l’Italia sconta la propria storia. È vero che non si possono condannare i popoli, ma ciò premesso bisogna anche riconoscere che quello italiano, nella sua stragrande maggioranza, aderì al Regime; tanta parte lo subì e una minoranza vi si oppose fin dall’inizio strenuamente pagando un costo altissimo di sofferenze e di sangue. La democrazia poi, come doveva essere, accolse tutti, ma nel suo complesso la Repubblica non fece da subito pubblicamente i conti fino in fondo con il fatto di essere stata per vent’anni sotto il tallone della dittatura. Diciamo la Repubblica, quale istituzione del nostro sistema; si preferì andare avanti e stare lontano da una certa italica mentalità e dal considerare, passata la guerra, l’antifascismo non come un dato politico che richiedeva una dimensione pubblica ben chiara, ma quasi esclusivamente come un dato storico. Ciò comportò, da un lato, la ritualità delle ricorrenze amministrate dagli apparati statali saldamente presidiati dalla DC; dall’altro, lo spargersi della retorica soprattutto da parte del PCI. Con questo non sono mancati spazi seri di riflessione storicopolitica grazie soprattutto a quella cultura di matrice azionista che non solo non sparì con la fine del PdA, ma rimase in piedi attiva e operante e che, a tutt’oggi, è attiva e operante. Tale schema, tuttavia, era chiaro che non poteva reggere perché, a suo modo, era insufficiente lasciando fuori il nocciolo centrale della questione: del perché i germi del fascismo non erano stati sconfitti con la vittoria sul fascismo e, quindi, del perché lo spirito repubblicano della Costituzione non aveva pervaso tutta la realtà nazionale, rendendo operativo l’antifascismo quale dato politico valoriale imprescindibile affinché la democrazia italiana fosse vissuta come avrebbe dovuto essere vissuta.

    Con il crollo del partito-Stato e di quello del partito-opposizione, l’affermazione di Berlusconi si salda in un comune disegno politico con il partito motivante l’eredità della RSI; il liberarsi di tutto quanto è antifascismo viene quasi naturale. Il disegno è chiaro: passare dal paradigma storico della Repubblica antifascista a quello della Repubblica ‘a-fascista’. A tale disegno non è stata data una risposta politica seria come ci dice anche il clima che abbiamo visto in occasione dell’ultimo 25 aprile.

    Il discorso del presidente Mattarella a Vittorio Veneto è stato esemplare e le manifestazioni per la festa pienamente riuscite e consolanti, soprattutto quella di Milano per la presenza di tanti, tanti giovani che hanno voluto rendere visiva e militante l’adesione alla ricorrenza e ciò che questa rappresenta; ma se, nuovamente, si deve parlare di “memoria condivisa” vuol dire che ancora non ci siamo; che l’antifascismo, quale dato politico da cui non si può prescindere per essere democratici, ancora non si è affermato. Vuol dire che c’è da fare un grande lavoro di pedagogia civile in condizioni oggi più difficili di ieri, se si pensa che i partiti dell’antifascismo non ci sono più e che si è arrivati al punto, come è successo a Savona, di impedire da parte del questore al corteo della Liberazione di passare nella strada ove è la sede di Casa Pound! Pedagogia civile, quindi, cominciando a spiegare che una significa antifascismo con il trattino e cosa senza trattino. Con il trattino significa riferirsi a un’esperienza storica, periodizzata, di lotta contro la dittatura; senza trattino, affermare in positivo i valori civili, morali e sociali che quella lotta ha affermato. Sono i valori che stanno alla base della Costituzione. Essa li costudisce e li indica a fondamento della democrazia italiana il cui inverarsi, naturalmente, è demandato alla politica. La questione, così, rimane aperta.

    L’augurio è che non ci si ricordi del 25 aprile solo alla ricorrenza; altro che memoria condivisa, oggi se c’è qualcosa da condividere è il credere nella democrazia e nelle sue pratiche.

 

Da "NONMOLLARE" / E' uscito il quarantunesimo numero del

quindicinale on line di Critica Liberale / scaricabile gratis qui

 

 

 


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Datemi fiducia alle Elezioni Europee del 26 Maggio 2019

DALL’ON. FARINA RICEVIAMO

E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO

 

Per l'Italia, per il lavoro, per una nuova Europa

 

Carissime/i compagne/i dell’ADL, vi scrivo perché ci conosciamo da tanti anni ed ho bisogno del vostro supporto.

    Ho deciso di accettare la candidatura con il Partito Democratico per le elezioni europee del 26 Maggio nella circoscrizione Nord Ovest (Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria), perché sono fermamente convinto che ognuno di noi debba dare il suo contributo.

    Il prossimo Parlamento europeo avrà molti poteri in più di quello uscente e contribuirà in modo decisivo a definire le future politiche sociali, di accoglienza, di solidarietà, ma anche di sviluppo e occupazione. L’unico modo per fronteggiare l’odio di un populismo becero e di un sovranismo senza sovrani è il lavoro. Solo il lavoro può dare benessere agli italiani, in quella nuova Europa che sarà compito degli eletti riformare, sia a favore dei giovani che di coloro che hanno dato il loro contributo di crescita al nostro paese ma che credono nell’unione di tutte le nazioni europee in un progetto unitario.

    Vi chiedo quindi di contattare amici, parenti e conoscenti che risiedono in queste regioni per darmi tutto il sostegno possibile per la nascita di nuova Europa.

    Chi desidera darmi una mano può rispondere a questa email comunicandomi i dati delle persone da contattare (nome, cognome, email, cellulare), residenti in Piemonte, Liguria, Valle d'Aosta e Lombardia, cliccando qui sul link CONTATTI.

    Ringraziandovi per la preziosa collaborazione, vi chiedo ancora una volta di darmi fiducia! Un caro saluto.

 

Gianni Farina, Zurigo

già deputato del PD eletto nella Circoscrizione Estero/Europa

 

 

 


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Aiutate Radio Radicale!

Appello

 

 

Radio Radicale non è soltanto la voce – spesso scomoda – di un progetto politico e culturale. Radio Radicale è un grande progetto di informazione, di pubblica utilità, la dimostrazione di quel che potrebbe e dovrebbe essere il servizio pubblico il cui motto e ispirazione è da sempre “conoscere per deliberare”, convinti che solo permettendo un ampio accesso alla libera informazione, all’approfondimento, al dibattito, dando voce a tutti i componenti del dibattito pubblico senza distinzione, si dà la possibilità alle persone di scegliere in mono consapevole. Radio Radicale è il più grande archivio della democrazia italiana. Ad oggi conta più di 250.000 registrazioni audiovideo, oltre 19.000 sedute dal parlamento, 6.700 processi giudiziari, 19.300 interviste, 4.400 convegni. Radio Radicale rischia di chiudere a causa della scelta del governo di tagliare i contributi pubblici portandola a far spegnere il suo importantissimo segnale.

 

I tanti modi per sostenere >>> Radio Radicale

 

 

 


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giovedì 18 aprile 2019

A Livorno senza livore

 

Le idee

 

Pubblichiamo di seguito ampi stralci tratti dal testo del saluto di Felice Besostri al Congresso di Articolo1: “Dobbiamo pensare di promuovere un’iniziativa di ampio respiro. Nel 2021 sarà il centenario della divisione della sinistra a Livorno, proprio nel pieno di un’offensiva di destra e reazionaria. Proprio Livorno ha ispirato un’iniziativa socialista di sinistra, Socialismo XXI, che non ha come obiettivo il solito partitino, ma di elevare la qualità della proposta programmatica. Proviamo a pensare ad una riunificazione della sinistra come movimento ampio che nasca dal basso, con due testimonial d’eccezione: Matteotti e Gramsci.”.

 

di Felice Besostri, Presidente del Gruppo di Volpedo,

rete dei circoli socialisti e libertari di Nord ovest

 

Avrei voluto che i rapporti politici che mi hanno legato da anni con molti di voi si svolgessero e consolidassero in tutt’altro contesto. Sono stato membro del gruppo parlamentare DS-L’Ulivo del Senato nella XIII legislatura e ho militato nel Partito fino alla decisione della sua maggioranza di sciogliersi nel PD: una decisione, che non potevo condividere. Venivano meno le ragioni dell’adesione di molti socialisti al progetto delineato negli Stati Generali della Sinistra del 1998 a Firenze.

    Abbiamo perso 20 anni nel tentativo di riunire una sinistra superando storiche divisioni ideologiche e psicologiche, quando non frustrazioni e rancori. Non riuscita malgrado la comune adesione al PSE, che non è mai diventato un partito europeo transnazionale, ma una confederazione di partiti, condizionati dalla loro collocazione nella politica nazionale di governo o di opposizione, piuttosto che da una comune visione europeista ed internazionalista.

    La formazione del PD e il suo primo atto significativo, la coalizione alle elezioni del 2008, hanno giustificato la diffidenza. Nessun accordo vi fu con liste di sinistra, che comprendessero aree socialiste, preferendo l’Italia dei Valori. Tuttavia, quelle elezioni dimostrarono anche l’incapacità di rappresentare una credibile alternativa: si ebbe un coacervo rosso verde, quello della Sinistra Arcobaleno, che con 1.124.298 voti e il 3,08% non superò la soglia di accesso alla ripartizione dei seggi. Vi fu l’incapacità di superare i propri recinti, nemmeno per sopravvivere, dimostrata dal fatto che il Partito Socialista raccogliendo 355.495 voti e lo 0,98% avrebbe consentito di raggiungere quella soglia.

    Altra iniziativa ostile del PD è stata quella di aver introdotto, d’intesa con FI la soglia anche per le europee 2009 con la motivazione esplicita di impedire che rientrassero in gioco le forze escluse dal Parlamento nazionale nel 2008. Con la legge precedente sarebbero state rappresentate sia la lista Sinistra e Libertà, con socialisti e la futura Sinistra Italiana, sia la lista di unità comunista, nonché i Verdi e i Radicali.

    La lezione vera, e cioè che le alleanze elettorali e strumentali non hanno futuro, non è stata compresa. E l’errore è stato ripetuto dieci anni dopo con LeU, altra esperienza condivisa con molti di voi con una candidatura di servizio, malgrado che esponenti di punta avessero sulla coscienza un grave strappo della Costituzione avendo ammesso voti di fiducia, su richiesta del governo, per far approvare due leggi elettorali, l’Italikum e il Rosatellum, in violazione dell’art. 72 c.4 Cost.

    La prima è stata dichiarata incostituzionale, prima ancora di essere applicata, grazie ad un’iniziativa giudiziaria, di cui rivendico il merito avendo promosso e coordinato un pool di avvocati costituzionalisti. La seconda è sub iudice innanzi ai Tribunali di Messina e Catanzaro e prossimamente di Roma…

    Nessuno ha mai detto con chiarezza che LeU in base ai voti avrebbe dovuto avere 21 deputati invece di 14 (- 33,33%) e al Senato 10 seggi invece di 4 (-60%). Non lo si è detto, ma probabilmente ci sarebbero state meno tensioni interne. Se sommiamo questi seggi perduti a quelli sottratti al Centro Sinistra (-22 deputati e -12 senatori) l’attuale maggioranza sarebbe più fragile, o forse inesistente, al Senato.

    La difesa prima, e ora l’attuazione, della Costituzione dovrebbero essere il terreno prioritario e comune di ogni aggregazione a sinistra, anche per rispettare la vittoria al referendum costituzionale, ma una forza di sinistra non può limitarsi ai diritti civili, che peraltro sono essenziali per lo sviluppo democratico di una società e del suo grado di civiltà, deve avere un suo progetto economico e sociale per ridurre le diseguaglianze, anche questo c’è nella Costituzione a partire dal secondo comma dell’art. 3 Cost. e il complesso del Titolo III Rapporti economici della Parte Prima.

    Vi si delinea una società solidale e di economia mista. Per molti, anche nel PD, si tratta di arcaismi. Alcuni sono passati dal comunismo al liberismo, senza nemmeno concedersi una pausa socialdemocratica.

    Anche dopo il cambio di segreteria non ci sono cambiamenti di fondo, non basta la cosmesi zingarettiana per un cambiamento effettivo rispetto all’epoca renziana. Bastano certe parole dal sen sfuggite, come quelle sulle colpe della vittoria del NO, per gettare dubbi sull’opportunità di allearsi con il PD alla prossima tornata elettorale: non basta un francobollo del PSE per giustificare l’operazione.

    L’adesione di Renzi al PSE fu puramente strumentale, altrimenti niente posizioni di vertice per un esponente del suo PD nella Commissione: la spartizione PPE-PSE non lasciava spazi.

    Tuttavia, a fronte dell’ondata di destra, cui partiti affiliati al PPE come l’austriaco ÖVP e l’ungherese FIDESZ, lo stato delle sinistre in Italia e in Europa è preoccupante.

    I partiti del PSE, pur non avendo avuto il maggior numero di seggi, sono stati i più votati, ma l’eventuale fuoriuscita del Labour minaccia questo primato di consensi, così come l’indebolimento di partiti come il PS francese, la SPD e il PvdA olandese.

    La sinistra alternativa non sta meglio. Perché le perdite dei partiti socialisti solo in parte non consistente si sono spostate alla loro sinistra o verso i Verdi, tranne che in alcuni casi, comunque complessivamente la sinistra in tutte le sue sfumature conta meno che nei gloriosi trent’anni dell’espansione nel secondo dopoguerra dello stato sociale e dell’aumento del benessere delle classi popolari.

    L’inversione di tendenza è stata pagata dai più deboli e i partiti di sinistra non raccoglievano in molti paesi, compresa l’Italia, la maggioranza dei voti dei lavoratori dell’industria.

    La sopravvivenza elettorale detta l’agenda politica, ma è una cattiva consigliera perché di corto respiro.

    Per non rassegnarsi dobbiamo pensare di promuovere un’iniziativa di ampio respiro. Nel 2021 sarà il centenario della divisione della sinistra a Livorno, proprio nel pieno di un’offensiva di destra e reazionaria. Proprio Livorno ha ispirato un’iniziativa socialista di sinistra, Socialismo XXI, che non ha come obiettivo il solito partitino, ma di elevare la qualità della proposta programmatica. Proviamo a pensare ad una riunificazione della sinistra come movimento ampio che nasca dal basso, con due testimonial d’eccezione: Matteotti e Gramsci.

 

 


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Libia sull’orlo della guerra civile

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

Ricordate la stretta di mano tra al-Sarraj e Haftar con in mezzo il Premier italiano Conte? Accadde nemmeno cinque mesi fa alla conferenza di Palermo. Fu propagandata da una marea di foto che avevano invaso i media. Oggi tutto ciò assume i contorni del tragicomico visto quello che sta accadendo in Libia.

 

di Alessandro Perelli 

 

È in atto in queste ore una furibonda battaglia alle porte di Tripoli che può essere il presupposto di una vera e propria guerra civile. L'avanzata delle truppe del generale Haftar, che già controlla Bengasi e la Cirenaica, è giunta a pochi chilometri dalla capitale libica e nonostante la reazione dei soldati del Governo al-Sarraj, riconosciuto dall'Unione europea, costituisce una realtà di fatto che non potrà essere ignorata dai previsti successivi incontri per trovare un accordo. Ma quello che è ulteriormente preoccupante, oltre alle già numerose vittime, è la regia internazionale che sembra stia dietro al deteriorarsi della situazione.

    Il sostanziale appoggio di Francia, Russia ed Emirati arabi e il silenzio prudente degli Usa alla condotta di Haftar pongono pesanti interrogativi sul futuro di questo martoriato Paese che dopo la caduta di Gheddafi non sembra riuscire a trovare la strada della pacificazione e della ripresa. Pesano sicuramente le divisioni tra i vari gruppi etnici che popolano la Libia (e che Gheddafi bene o male era riuscito a gestire), ma pesano ancora di più gli interessi economici sul controllo ed utilizzo delle risorse naturali come il petrolio. L'Italia è in una posizione geopolitica tale da essere il Paese più interessato alle relazioni con quel territorio che fu nel periodo coloniale un suo possedimento e con cui tradizionalmente si sono mantenuti molti legami di ordine sociale, culturale ed economico dopo la raggiunta indipendenza. Si ha l'impressione che le ultime mosse del Governo italiano non abbiano portato molti risultati positivi ed anzi ci sia stato un pericoloso vuoto di iniziativa politica con un acritico avallo al Governo al-Sarraj che si è dimostrato controproducente alla prova dei fatti e senza reale peso e strategia politica.

    Il recente ritiro da parte dell'Eni dal personale italiano dai numerosi impianti per l'estrazione del petrolio in territori minacciati dal propagarsi del conflitto interno, dimostra ampiamente la gravità della situazione. Senza parlare delle risorse perse da molti imprenditori italiani che avevano investito in Libia e che speravano di recuperare almeno parzialmente il frutto delle loro iniziative ma che ora si trovano nuovamente nel caos più totale. Per il momento la nostra ambasciata a Tripoli rimane aperta, così come proseguono le nostre missioni militari e la collaborazione con la guardia costiera libica per il controllo del problema delle migrazioni clandestine sulle nostre coste e sussistono anche degli accorsi comuni sulla pesca, ma i missili su Tripoli fanno presagire un futuro molto problematico e incerto.

 

 

 


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Qualche riflessione per cercare di uscire dalla crisi

L’economia è l’ambito dove si misurano le capacità di una classe dirigente di guidare un paese verso la ricchezza collettiva e verso la realizzazione compiuta dello stato sociale.

di Ennio Ghiandelli

Quando si parla di economia italiana non bisogna mai dimenticare alcuni dati fisici che sono una nostra caratteristica: scarsità di ricchezze naturali, soprattutto per quanto riguarda i minerali e i prodotti energetici; agricoltura che non brilla per efficienza anche per la tipologia del territorio; densità elevata della popolazione, nonostante il calo demografico di questi anni; orografia complessa che rende difficili le comunicazioni fra le diverse aeree del paese.

    Nonostante questi deficit l’Italia, nel secondo dopoguerra, affidandosi alla capacità manifatturiera delle sue maestranze alla sua classe dirigente sia politica che industriale, e ai rapporti esistenti fra industria pubblica e privata, riesce a portarsi nei primi posti mondiali in alcune industrie chiave: dall’industria informatica, a quella aeronautica, all’elettronica di consumo, alla chimica, all’auto e alle produzioni High-tech.

    Pian piano questo patrimonio si è dissolto, gli errori compiuti nella politica economica dall’inizio degli anni Novanta ad oggi stanno dando i loro frutti resi ancora più velenosi dall’insipienza dell’attuale governo.

    L’Italia soffre di una crisi di produttività, cioè il costo per un’unità di prodotto aumenta rispetto agli altri paesi. Questo fatto rende impossibile, senza interventi appropriati qualsiasi ipotesi di recupero. La possibilità che si divenga una colonia di qualche altra nazione, soprattutto se questa ci finanzia il disavanzo acquistando i titoli del debito pubblico, è reale. Siamo un paese dove, ai tempi della globalizzazione, il tessuto produttivo è costituito per la gran parte da piccole e medie industrie. Eccelliamo nella produzione di marmo, di minerali abrasivi, nella produzione di olio di oliva, vino e filati di lana, molto poco per un sistema produttivo globale dove l’innovazione è l’elemento trainante.

    Si è svenduto il patrimonio industriale dello stato, in nome di un liberismo che non è mai esistito; gli industriali, che pure nel corso di questi anni hanno ricevuto utili rilevanti, hanno preferito investire i profitti in operazioni finanziarie, all’apparenza, molto più redditizie che in investimenti industriali.

    La politica oltre che per le ragioni prima ricordate ha anche la responsabilità di aver fatto invecchiare in maniera significativa il patrimonio infrastrutturale nazionale e mai ha sviluppato politiche atte a mettere mettere in sicurezza un territorio fragile come il nostro, anzi la speculazione edilizia supportata da continue sanatorie ha aggravato il problema.

    Tutto questo avvenuto è con una rapida concentrazione di ricchezza in poche mani e con un’erosione dello stato sociale che ha portato ad un impoverimento delle classi meno abbienti. Tutte le politiche sociali che il primo centro sinistra aveva realizzato sono state o abolite o devitalizzate.

    A questo stato di cose si aggiunge una politica fiscale che ha punito i lavoratori a reddito fisso, rendendo possibile una continua evasione fiscale, senza avviare una seria attività dello Stato per contrastarla efficacemente producendo una elevata pressione fiscale

    In questo quadro si presenta drammatico lo stato del disavanzo pubblico, drammatico non solo perché non si vedono politiche per abbatterlo, anche se la spesa corrente italiana al netto degli interessi del debito è da anni inferiore alle entrate, ma per l’assenza di una politica economica capace di attivare un credibile percorso di recupero della produttività del sistema Italia.

    Sovente nel corso del dibattito in questo anno di governo giallo verde si sente imputare, da esponenti della maggioranza, che la colpa di questo stato di cose è da ascriversi al fatto che con l’adozione dell’euro l’Italia non è in grado di gestire una propria economia, quindi occorre uscire dalla moneta europea e poco male se ci cacciano anche dai trattati. Errore tragico.

    A questo stato di cose si può e si deve reagire. La prima cosa immediata da fare è recuperare gettito fiscale, non aumentando le tasse a che già le paga, ma colpendo senza pietà gli elusori e gli evasori. Questo comporta immediatamente un riequilibrio del bilancio. Ciò ci consente, da un lato di allentare la presa sugli interessi che l’Italia paga sul debito pubblico, dall’altro di fermare il saccheggio del welfare. Da queste basi ripartire con una politica di investimenti pubblici sia sulle infrastrutture che sull’aumento della produttività (R&S) sostituendo il privato assenteista. Fissati questi capisaldi si deve procedere ad una più equa distribuzione del reddito.

 

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

 

 


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I DUE CONTRATTI

L’Italia del tempo presente è il risultato di quanto è stata la Seconda repubblica. La somma di tanti addendi del processo decoattivo della politica democratica in moto nel nostro Paese. Un populismo sovranista e un demagogismo governista che vengono da lontano e che si originano, sia nella prima fase che in quella attuale, da un medesimo fattore costitutivo: il contratto. Ovvero, un patto tra due populismi: uno confuso e infantile, un altro cinico e d’ordine.

di Paolo Bagnoli

L’ideatore del metodo fu Silvio Berlusconi il quale, in diretta dallo studio di Bruno Vespa, firmò un contratto con gli italiani contenente quanto avrebbe realizzato se il suo partito fosse andato al governo. Si trattò di una trovata pubblicitaria assai efficace. Nella mentalità ‘sagraiola’ del nostro popolo, sempre voglioso di seguire un domatore di circo, il contratto fece presa. Con quell’ atto, che evoca un qualcosa di vincolante, Berlusconi inaugurò la stagione del populismo; il valore della relazione diretta che si instaurava tra lui e il popolo. Se non ce l’avesse fatta non sarebbe stato per colpa sua, ma perché ci sarebbero state forze mobilitate contro il popolo, tanto che, a giustificazione di ciò che non riusciva a fare – e nel quale invero non credeva nemmeno lui – tirò fuori la categoria di coloro che remavano contro. Intendiamoci, remavano sì contro di lui, ma ben più che a lui andavano contro a quel popolo che a lui si era stretto in un contratto che lui aveva solennemente firmato dal notaio Vespa.

    Il governo gialloverde – ma oramai bisogna dire verdegiallo – si basa su un sempre strombazzato “contratto di governo” firmato, questa volta, dai leader delle due formazioni e affidato per la realizzazione al presidente del consiglio. Ossia, a una personalità politicamente nulla; un grillino che fa finta di essere in sonno e che tira avanti spargendo verità lunari con dichiarazioni di irreale comicità quale quella che quest’anno sarebbe stato “bellissimo”. Alleluja! Balliamo gioiosi sull’orlo del tracollo economico spacciando politiche di assistenza per chi si considera senza speranza come interventi destinati a produrre lavoro e un futuro migliore. Non solo, ma se volessimo abbozzare un bilancio sulla situazione in cui si trova oggi l’Italia - un Paese fragile che dovrebbe temere l’isolamento - vediamo come essa si trovi, invece, nella più completa solitudine. Sul Tav siamo sconfessati da Macron; sull’operazione Cina siamo isolati dall’asse franco-tedesco; la Casa Bianca ci guarda torto per la faccenda degli F35 e per il Venezuela; sulla Libia non abbiamo portato a casa niente considerato che, oramai, il generale Haftar sta arrivando a Tripoli. Tutto ciò va a carico di Conte, pomposamente definitosi “avvocato del popolo”, in quanto presidente di un “governo del popolo”.

    A nostro avviso la formula del “contratto” –ossia di un patto governista in cui ognuno fa di banda all’altro nel perseguimento del proprio interesse – è la logica conseguenza del percorso improprio con il quale si è arrivati a questo governo. Intendiamoci: è nella pienezza della legittimità democratica che due forze facciano maggioranza e diano vita ad un governo se hanno i numero in Parlamento; un governo che si basi su una maggioranza politica, però, che elabora una comune visione delle cose da fare, non su un “contratto” che, invece, di una visione ne garantisce due. Insomma, è tutto un pasticcio e in democrazia, prima o poi, i pasticci si pagano. Assai caramente.

    Rispetto al populismo sovrandemagogico di oggi, quello di Berlusconi fa quasi tenerezza, tanto appare furbescamente arretrato, mentre l’attuale è assai sofisticato come ci dice la sapiente regia comunicativa che lo amministra. Tra i due contratti si seppellisce la Prima e la Seconda repubblica. Quanto c’è di mezzo tra il cavaliere e i dioscuri sono state solo corse sul posto. In Italia, paese dei furbi per definizione, il populismo si lega al “contratto”; furbo il primo, furbissimo il secondo. Alla fine, però, la realtà incalza e, a un anno dal voto, siamo ad una crisi acutissima, piena di conseguenze rischiose. Siamo già al compimento del ruolo propulsivo della bugia elevata ad arte di governo.

    È proprio vero che, alla fine, tutte le volpi finiscono in pellicceria: una constatazione non certo consolatoria.

 

La Rivoluzione Democratica

 

 

 


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giovedì 28 marzo 2019

LA BISCONDOLA NON MOLLARE

 Ci vuole ben altro per fare un partito

La vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie e la conseguente proclamazione a segretario del Pd sembra aver rimesso in circolazione il sangue del partito. In giro, il nuovo segretario riscuote buoni apprezzamenti. Crediamo gli giovi molto l’aria bonaria e il ragionamento pacato; che, insomma, riesca a trasmettere affidabilità e fiducia. La ripresa dei sondaggi, se pure a piccoli passi per volta, indica verso il Pd una nuova attenzione dopo le catastrofi elettorali lasciategli in eredità dal renzismo.

 

di Paolo Bagnoli 

 

È troppo presto per poter dire se la tendenza si rafforzerà e in che misura; certo, va dato atto a Zingaretti di aver acceso una nuova fiducia. Le elezioni europee diranno come si stanno mettendo le cose. I problemi che il neosegretario si trova davanti sono molti e di non piccola difficoltà. Il primo, e più rilevante di tutti, è riuscire a fare del Pd un partito. Finalmente poiché, fino ad oggi, il soggetto voluto dal duo Veltroni- Prodi e innestato da Parisi sulle primarie non solo non lo è stato, ma ha dimostrato di non poter mai esserlo. Le ragioni sono molteplici. Quella che svetta su tutte è costituita dall’assenza di una cultura politica vera che ne segnasse la cifra identitaria, di peso storico e ideologico; in altri termini, non è mai stato sufficientemente chiaro cosa socialmente il Pd volesse rappresentare e di quale idea dell’Italia fosse il portatore.

    È un mistero; chissà se è custodito gelosamente nella tenda di Prodi? Una soffocante vocazione governista lo ha sempre condizionato, ma, essendo nato in un clima bipolare sembrava fosse sufficiente essere il polo alternativo del berlusconismo per conferirgli delle ragioni solide di fondo. Il partito si risolveva, cioè, nell’opposizione a Berlusconi; nell’impedire che il governo del Paese andasse a Forza Italia. Un’ingenuità clamorosa poiché un partito giustificantesi su una prevalente – e nello specifico assorbente – finalità di governo non può nascere e, soprattutto, non si radica risultando solo il prodotto di una situazione.

    Tuttavia, come si dovrebbe sapere, le situazioni cambiano e per

assolvere alla funzione che ci si è dati, occorre solidità culturale, tramatura relazionale nella socialità del territorio, capacità espressiva, pensieri collettivi. Annodare se stessi intorno al solipsismo demiurgico di un leader non porta a niente. I fatti lo hanno ampiamente detto; più che confermato. Non solo, ma si è quasi creata la paura dell’influenza negativa della leadership. Basti pensare che, nel caso delle elezioni regionali di Abruzzo e di Sardegna, sia Legnini che Zedda non hanno voluto nessuno che venisse da Roma ad affiancarne lo sforzo. Un qualcosa di mai visto sotto nessun cielo politico.  Se questo è il primo urgentissimo e preminente problema, l’altro non è di minore rilevanza: dare al partito una linea politica.

    Oggi essa è condensata nel centro-sinistra, ma cosa voglia dire non si capisce. Sembra più il retaggio di un passato nel quale centro-destra e centro-sinistra si sfidavano che non un progetto di proposta, tenuta e mobilitazione, capace di coniugare istanze politiche, sociali ed economiche in un disegno vero. Al contrario, esso appare come il riproporsi di un’alleanza esclusivamente contro e, quindi, ancora un qualcosa di governista. Ma poi, da chi dovrebbe essere formato tale blocco? Dove sono le potenziali forze per formare un’alleanza? Non si vedono perché non ci sono.

    Se la fragilità del Pd, in un sistema politico bipolare, veniva occultata dal potere coalizionale che il partito aveva, in uno proporzionale le cose stanno molto, ma molto diversamente. Al massimo il Pd riesce a stringere a sé singole personalità – Calenda, Pisapia, forse Cacciari – ma quando ha provato a fare un’alleanza con + Europa ha raccolto un secco no. Inoltre, ci sarebbe da chiedersi se +Europa possa annoverarsi in un campo, se pure largo, di centro-sinistra.  Infine, un’ultima osservazione. Ogni partito necessita di un gruppo dirigente che si matura nel progetto politico che esso elabora; ossia, dal partito medesimo poiché, da sempre, è il partito il luogo da dove si sviluppa il progetto politico. In tutti questi anni i dirigenti del Pd, quelli chiamati alle responsabilità di primo piano sono tutti esponenti delle istituzioni.

    Ora, poiché il lavoro politico è assai impegnativo, non si riesce a capire come si possa fare il presidente di Regione, il parlamentare europeo o nazionale, il sindaco e così via e riuscire ad avere le energie per doppiare il proprio impegno. Forse anche questo interrogativo è nascosto nella tenda di Romano Prodi.

 

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

 

 


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