giovedì 26 settembre 2013

IL VOTO IN GERMANIA

La situazione politica

Trionfo personale della “Mamma di Ferro”.

Ma la vittoria politica va ai socialdemocratici.

 di Felice Besostri

 Angela Merkel, col porcellum, avrebbe stravinto ottenendo il 55%  dei seggi, cioè 347 su 630. Siccome però i tedeschi non sanno fare le leggi con l’imperativo, quelle che alla sera delle elezioni si deve sapere la composizione del governo, la CDU deve accontentasi di 311: gliene mancano 5, di seggi, per giungere alla maggioranza assoluta. Che non può comprare, per mancanza di materia prima: nel Bundestag pare che non ci siano né Kaleharen né Schilipoten né Ratzen. Ma poi, anche se ci fossero… Quella è non cosa.

    Ma allora che si fa? Teoricamente sussisterebbe una maggioranza rosso-rosso-verde, ma nella SPD e nei Verdi manca un Bärsanen che intraprenda un tentativo in questa direzione, non per timore dei Franken Tiratoren, ma per la semplice ragione che, prima delle elezioni e durante la campagna elettorale, sia la SPD che i Verdi hanno ripetutamente dichiarato non esserci le condizioni politiche  per un’alleanza con la Linke. Giusto o sbagliato che sia, non si tratta di una novità: una tale maggioranza ci sarebbe già stata sulla carta nel 2005, ma la SPD preferì la Grande Coalizione, scelta che le fu fatale.

 La Linke è molto composita e in essa una forte componente si contrappone in via di principio a una collaborazione con la SPD, laddove poi la scomparsa di Lothar Bisky non ha certo rafforzato gli unitaristi. Il fatto principale sta nel fatto che nelle regioni orientali le alleanze rosso-rosse non sono state quasi mai premiate dagli elettori, da ultimo a Berlino. Né si deve dimenticare che solo la SPD ha guadagnato il 2,7%, mentre la Linke  e i Verdi hanno perso, rispettivamente il  3,3 e il 2,3%. Alla Linke registra così un’emorragia di circa un quarto dei voti.

    Una riedizione della Grande Coalizione è probabile, ma non sicura, come ha subito ricordato la combattiva  Andrea Nahles, segretaria della SPD, aggiungendo che la Merkel del resto non aveva fatto alcun passo in tale direzione. E’ prematuro parlarne. Prima del conteggio finale, per verificare eventuali mandati aggiuntivi.  Le Grandi Coalizioni tedesche non sono da confondersi con le Larghen Intesen praticate dalle nostre parti. Queste ultime sono infatti fondate sugli equivoci, mentre quelle si stipulano sulla base di accordi programmatici scritti, precisati fin nelle virgole.

Le maggioranze teoricamente possibili sono tre: oltre alle predette Unione-SPD e SPD-Verdi e Linke, esiste la possibilità di un governo Unione-Verdi. Un monito, tuttavia, trattiene i volenterosi: l’alleanza con la Merkel non paga. Nella penultima legislatura, dopo la Grosse Koalition, la SPD ebbe il suo peggiore risultato del dopoguerra; ora la FDP non supera la soglia d’accesso, come l’AfD (Alleanza per la Germania), gruppo populista di destra.

    I Verdi non si sono mai coalizzati a livello federale con  l’Unione, ma nei Länder , per esempio Amburgo e Saarland, le esperienze sono risultate negative. Angela Merkel vampirizza i suoi alleati.

    Intanto, la SPD conserva la maggioranza del Bundesrat (confermata dai  risultati dell’Assia, spettacolari per una SPD al + 7% e buoni per la Linke in rapporto alle federali). Dal Bundesrat non si può prescindere per la legislazione di maggiore importanza.

    Quindi i socialdemocratici non trattano da una posizione di debolezza, forti anche dell’aumento dei consensi, che riassorbe il 50% delle perdite di Linke e Verdi, i quali a loro volta nel 2009 avevano recuperato solo un terzo delle perdite SPD.

 

martedì 24 settembre 2013

Il dibattito politico - Verso le Europee

Cambiare la legge elettorale per le europee: un compito politico prioritario

di Felice Besostri

Le elezioni europee del 2009 furono rovinate dalle elezioni nazionali anticipate del 2008, che caso unico in Europa esclusero dal Parlamento ogni formazione di sinistra, da quella riformista a quella antagonista, per usare una grossolana e antistorica distinzione. Se il governo Prodi, risultato delle elezioni del 2006, avesse tenuto sino alla naturale scadenza del 2011, le elezioni europee del 2009 avrebbero potuto essere un elemento di novità politica preparatorio di un diverso assetto della sinistra italiana, anche per risolvere le difficoltà crescenti del Governo stesso, frutto sia di un confuso programma raffazzonato che di una ristretta maggioranza al Senato. Invece si accelerò la costruzione del PD, che si presentò alle elezioni per la prima volta, con esito negativo: la vittoria di Berlusconi fu schiacciante. Non solo, ma la Sinistra Arcobaleno dimostrò la sua inconsistenza politica e il PSI oltre che quella politica( fallimento della Costituente Socialista) quella numerica.

    L’anomalia del sistema politico italiano, rispetto a quello europeo si accentuò. Furono esclusi dal Parlamento i partiti con riferimenti precisi ad una famiglia europea i socialisti , i verdi e i comunisti, per privilegiare una formazione di tipo eclettico e personalista come l’Italia dei Valori-di Di Pietro. Per non avere concorrenti a sinistra Veltroni e il suo PD, scommisero su un alleato infido, che non costituì gruppo comune, come da impegno, anzi fu una spina nel fianco del PD, malgrado che la coalizione elettorale con il PD l’avesse salvato da una costante diminuzione di voti.

    Le elezioni europee del 2009 avrebbero potuto sanzionare politicamente le scelte del 2008, cioè essere una prova di appello. Per evitarlo PD e PdL si misero d’accordo per modificar la legge elettorale europea con lo scopo dichiarato a verbale dai due relatori in Senato, Ceccanti (PD) e Malan (PdL) “ che bisognava impedire che rientrassero in gioco le forze escluse dal Parlamento nel 2008”: un’espressione di attaccamento al pluralismo politico e ai valori della democrazia, che non suscitò alcuna reazione nell’opinione pubblica e nella magistratura, quando la legge elettorale fu impugnata per lesione della Costituzione.

    Non aveva senso introdurre soglie di accesso, quando il Parlamento Europeo non deve assicurare alcuna governabilità e quindi non c’è un problema di frammentazione politica, unica ragione per porre limiti al principio costituzionale e dei Trattati Europei che il voto debba essere uguale, oltre che libero, diretto e segreto.

    La Corte Costituzionale Federale tedesca ha già provveduto a dichiarare illegittime le soglie di accesso della legge elettorale tedesca per il rinnovo del Parlamento europeo nel novembre del 2011: una notizia tenuta nascosta al grande pubblico nel nostro Paese. La soglia del 4% tenne fuori dalla delegazione italiana nel Parlamento europeo sia Sinistra e Libertà(PSI, Verdi e Vendola) che la lista Comunista (PRC+PdCI), che pure avevano raddoppiato i voti rispetto al 2008, oltre che Radicali e MPA.

    La Commissione Europea con una raccomandazione del 12 marzo 2013 e il Parlamento europeo con una Risoluzione del 4 luglio 2013 sul miglioramento delle modalità pratiche per lo svolgimento delle elezioni europee del 2014 hanno chiesto che gli Stati membri diano una caratterizzazione politica europea alle prossime elezioni con l’introduzione nei simboli delle liste un riferimento ai partiti europei.

    Se si deve rimettere mano alla legge elettorale europea per questo motivo, sarebbe l’occasione per rimediare al vulnus alla democrazia. Nella legge elettorale europea vigente i voti della SVP nel circoscrizione 2 Nord Est valgono di più di quelli 5 volte superiori di liste politiche in altre circoscrizioni. Tali norme di favore sono solo per liste etniche tedesche, slovene e francesi, ma quest’ultime due non ne possono profittare. Con la legge n. 482 del 1999, di cui sono stato relatore in Senato, sono state riconosciute 12 minoranze linguistiche, di cui quella friulana e sarda hanno una consistenza numerica superiore al totale di quelle privilegiate dalla legge elettorale.

    La possibilità di coalizione elettorale è riconosciuta soltanto a tre minoranze linguistiche, mentre è negata a liste di minoranze politiche in violazione dell’art. 3 della Costituzione. A differenza delle elezioni per il Parlamento nazionale non è possibile la coalizione elettorale di liste affini, perché hanno come riferimento lo stesso partito europeo o almeno lo stesso gruppo parlamentare: PSI e SEL potrebbero riferirsi al PSE e con il PD al Gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici, una specie di Europa Bene Comune.

    I cittadini elettori devono sapere quale sarà l’approdo dei parlamentari europei eletti in Italia e non come i parlamentari del PD, che si erano collocati in ben 3 gruppi. Superare questa situazione di illegalità e di mancanza di visioni politiche europee è una delle questioni prioritarie.

    Mi dispiace che gli organizzatori del Seminario della Fondazione Socialismo dedicato a Luciano Cafagna sulla governance europea (vedi locandina qui sotto) non ne abbiano colto l’importanza, la centralità direi. Sono in buona compagnia perché al convegno di SEL a Milano del 21 settembre su SEL e PSE (vedi locandina qui sotto) si può muovere la stessa Critica.

 

In ricordo di Luciano Cafagna (1926-2012) avrà luogo a Torino un seminario sulla governance europea (vedi qui sotto). Il grande studioso socialista ha finalizzato tutta la sua intensa attività politico-culturale a consolidare il legame dell’Italia con l’Europa. Storico collaboratore di “Mondoperaio” (dal 1958 fino alla fine dei suoi giorni), Cafagna faceva parte del Comitato scientifico della “Fondazione Socialismo” ed è stato fra i fondatori dell’associazione “Libertà Eguale”, di cui era presidente onorario.

 


 

La governance dell’Unione europea

 

Scuola di democrazia europea “Luciano Cafagna” con il patrocinio della Feps

Torino, 27-29 settembre 2013 - Hotel Torino Centro - Corso Inghilterra 33

 

27 settembre

•         ore 15 – Introduzione – Luigi Covatta, direttore di Mondoperaio

•         0re 15,30 -   Verso le elezioni del Parlamento Europeo - Pia Locatelli

•         ore 16.30 – Il Manifesto di Ventotene – Pier Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo

•         ore 18 – L’Europa e l’europeismo – Alberto Benzoni, saggista

 

28 settembre

•         ore 9 – Introduzione – Giusi La Ganga, responsabile della sezione piemontese della Fondazione Socialismo

•         ore 9.30 - Il Consiglio dei ministri, la Commissione e il Parlamento – Cesare Pinelli, docente di diritto regionale all’Università di Roma “La Sapienza”

•         0re 11.30 – Europa e amministrazioni territoriali – Sergio Conti, presidente della Società geografica italiana

•         ore 15.30 - Il sistema politico europeo – Paolo Pombeni, docente di storia contemporanea all’Università di Bologna

•         ore 17.30 – L’Unione monetaria –  Gianfranco Polillo, già Sottosegretario al Ministero dell'Economia

 

29 Settembre

•         Ore 9,00 - Introduzione -  Piero Fassino, sindaco di Torino e Presidente ANCI

•         ore 9.30 – Il Fiscal compact – Enrico Morando, presidente dell’associazione Libertà Eguale

•         ore 11.30 – Il Trattato di Maastricht – Gianni De Michelis, già ministro degli Esteri, intervistato da Enrico Buemi, senatore della Repubblica 

•         ore 13 – Conclusioni - Gennaro Acquaviva, presidente della Fondazione Socialismo

 

I partecipanti, se fuori sede, potranno alloggiare presso l'albergo, dove si potrà anche cenare venerdì sera e pranzare e cenare sabato.

Sarà richiesto un contributo di iscrizione di 50 Euro, che darà diritto ad usufruire di tutti i servizi. I posti a disposizione sono una cinquantina.

Siete invitati a comunicare tempestivamente la vostra iscrizione a segreteria@fondazionesocialismo.it (0685300654).

A Torino la segreteria è curata dalla signora Rosi Baiamonte (baiarosy@libero.it – 3207045809).

                                                        


 

Seminario SEL/PSE

 

Programma – Milano, 21 Settembre 2013

a cura di Forum Economia Finanza Lavoro SEL Milano e Forum Internazionale SEL Lombardia - ARCI Bellezza, via Giovanni Bellezza 16 - Milano

 

Sezione I)

Il PSE la speranza di una possibile ricomposizione per un'Europa federale

oltre i nazionalismi (11.00-12.30)

 

Coordina Paolo Gonzaga (Forum Internazionale SEL Lombardia)

 

·        La fase dei principali partiti socialisti europei: il PSF un anno dopo la vittoria di Hollande e l'SPD di fronte alla scadenza politica nazionale

Vincenzo Termine – Forum Economia Finanza Lavoro SEL Milano

·        A che punto è il progetto PSE in vista delle elezioni europee del 2014?

Pierpaolo Pecchiari – Forum Economia Finanza Lavoro SEL Milano

 

Sezione II)

L'Europa: il "campo di gioco" per una nuova politica economica (14.00 - 17.00)

Coordina Francesco Bochicchio (Forum Economia Finanza Lavoro SEL Milano)

 

·        La governance Economica dell'area Euro

Mario Noera – Università Bocconi

·        Una politica industriale europea per lo sviluppo sostenibile

Andrea Di Stefano – Direttore Rivista Valori

·        Il modello di Welfare Europeo: quella del salario di cittadinanza è una possibile evoluzione? - Roberto Artoni – Università Bocconi

·        L'armonizzazione fiscale e un'azione integrata a contrasto dei paradisi fiscali Alessandro Santoro – Università Milano Bicocca

·        L'integrazione dei mercati finanziari Europei, la vigilanza bancaria comune e il ruolo della BCE - Giovanni di Corato – SEL Milano

 

Sezione III)

Un confronto sulla scommessa di SEL sul PSE (17.30-19.30)

Coordina Alfredo Somoza (Forum Internazionale SEL Lombardia)

Intervengono Gennaro Migliore (Capogruppo SEL Camera dei Deputati), Francesco Martone (Responsabile Internazionale SEL) e Giuliano Garavini (Università di Bologna).

 

Parliamo di socialismo - Un futuro per l’Italia

 "Se i popoli del sud devono rassegnarsi a vivere nella miseria, per i popoli del nord Latouche ha, bell'e pronta, una magica terapia: la fuoriuscita serena dalla società dei consumi e la creazione di un nuovo ordine sociale basato sulla cosiddetta abbondanza frugale".

 di Antonio Tedesco

 L'ultimo libro di Luciano Pellicani, uno dei sociologi italiani più conosciuti, scritto insieme al giornalista Elio Cadelo, è un libro affascinante, scritto con intelligenza, che scava a fondo nella storia e trova le radici della cultura antiscientifica in Italia.

    Pellicani espone le sue considerazioni con lucidità e chiarezza, facendo riferimento a testi di epoche diverse. "Contro la modernità" è un libro "contro" le culture antiscientifiche, un viaggio che smonta le ideologie antimoderniste, che frenano lo sviluppo e il progresso della scienza e della ricerca scientifica.

    Il sociologo racconta come le origini della cultura antiscientifica siano lontane e ramificate e risalgono agli inizi del XX secolo, quando Benedetto Croce e Giovanni Gentile, mossi dall'imperativo etico di iniettare un'anima nell'arida società industriale elevando la filosofia al rango di "religione dello spirito", lanciarono un'offensiva contro le scienze empiriche e la matematica. Poi con l'avvento del fascismo si contrappose alla società industrializzata l'ideale arcaizzante del "ritorno alla terra".

    L'analisi storica condotta da Pellicani aiuta a dimostrare come lo sviluppo della modernità coincida con l'istituzionalizzazione della sinergia fra il mercato, la scienza e la tecnica ciò che, facendo crescere in modo esponenziale la ricchezza materiale, ha reso possibile la fuoriuscita dalla trappola malthusiana. Il che è avvenuto grazie alla progressiva lievitazione della produttività del lavoro, resa possibile grazie alla creazione di nuovi mezzi di produzione e dalla scoperta di nuove fonti energetiche.

    Siamo passati, come previsto da Popitz, da "un'economia della rarità" "all'economia dell'opulenza" che ha permesso a tutti i lavoratori di accedere all'abbondanza un tempo riservata ad un'esigua minoranza di privilegiati. Un risultato definito da Pellicani "miracoloso", se si tengono presenti le condizioni dei proletari nelle società pre-industriali: assediate dalla fame, dallo sfruttamento e dall'epidemie. La seconda rivoluzione industriale ha sancito il passaggio "dalla figura del suddito alla figura di cittadino".

    Il sociologo prende le distanze da un ecologismo antiscientifico che predica l'apocalisse della terra, quella che Daniel Bell ha chiamato "l'isteria apocalittica", provando a scuotere le coscienze assopite da affascinanti teorie post-moderniste che esaltano le società pre-industriali disegnandole come mitiche età dell'oro e dalla felicità universale. Oggi, secondo l'autore, la società globale si trova dinanzi ad una sfida epocale: mettere sotto controllo la crescita demografica ed economica che rischia di portare il Pianeta alla catastrofe. Una sfida che non può essere vinta con l'ideologia della paura, "bensì con quelle della politica, della scienza e della tecnologia: le uniche risorse con le quali potrà essere corretta la rotta dell'Astronave Terra. "

    Non sbaglia Pellicani quando auspica in Italia una maggiore e diffusa cultura tecno-scientifica per "un'Italia verde" pronta per quella che si annuncia in Europa, con il piano della Commissione europea Ambiente (presieduta dal norvegese Brundtland), come la Terza Rivoluzione industriale, come la definisce Jeremy Rifkin. Per fare ciò è necessario uno Stato motore dello sviluppo a sostegno della ricerca per la modernizzazione e per lo sviluppo sostenibile.

    Il giornalista Elio Cadelo ha evidenziato i limiti dell'analfabetismo funzionale, della cultura e della ricerca scientifica in Italia. Le società contemporanee si sviluppano e crescono economicamente soprattutto grazie all'innovazione tecnologica e alla ricerca scientifica. In Italia sembra che ci sia una sorta di paura nella scienza come se fosse insito nelle nostre classi dominanti, probabilmente, come scriveva G. Toraldo di Francia " si vuole allontanare dalla scuola e dal periodo formativo delle giovani generazioni l'indagine, la curiosità e l'esigenza rivoluzionaria che si accompagna sempre alla scienza".

    Un saggio da leggere con attenzione perché gli autori, con passione, indicano una strada percorribile per dare "futuro" alla nostra Italia.

 

IPSE DIXIT

     Giorno d'autunno

    Signore, è l'ora. L'estate è stata grandiosa
    Stendi l'ombra tua sulle meridiane,
    e sciogli i venti sopra ai campi.

    Ordina agli ultimi frutti d'aver pienezza;
    dona loro due giorni ancor più meridionali,
    incitali al compimento, e bandisci
    dentro al vino greve la dolcezza finale.

    Chi casa ora non ha, più non se la fa.
    Chi ora solingo sia, a lungo tale resterà,
    veglierà, leggerà, gran letteresse scriverà
    e pei viali scarpinerà, in su e in giù,
    inquietamente, fra le foglie in turba.

    Rainer Maria Rilke,     Parigi, 21.9.1902 

    

giovedì 12 settembre 2013

Centenario di Ettore Cella-Dezza

 di Andrea Ermano

 La Federazione Socialista Italiana in Svizzera – proprietaria di questa testata dalla sua fondazione – ha dedicato la Tessera 2013 al centenario di Ettore Cella-Dezza, già presidente dell'organizzazione, nato a Zurigo il 12 settembre 1913 e morto presso Winterthur il 1° luglio del 2004.

    Ettore è stato un grande regista e attore, teatrale e cinematografico, nonché un personaggio radio-televisivo assai celebre nel mondo di lingua tedesca per le sue indimenticabili fatiche e anche per i suoi meriti culturali, tra cui ricordiamo qui "solo" l'introduzione di Pirandello in Germania e di Brecht in Italia. Fu Ettore, tanto per dire, a promuovere l'alleanza artistica tra Bertolt Brecht e Giorgio Strehler.

    Ettore è stato anche un importante esponente dell'emigrazione socialista, fino all'ultimo, fino alle lunghe e travagliate operazioni di salvataggio del Centro estero di Zurigo, dopo il crollo del Psi craxiano in Italia.

    Sempre incredibilmente attivo, anche da novantenne, aveva però dovuto farsi operare al femore in seguito a una brutta caduta; e gli strascichi dell'intervento lo costrinsero a una degenza abbastanza lunga, che lo andava rapidamente consumando.

    Negli ultimi mesi era ricoverato in un'ampia e linda camera dell'ospedale di Winthertur. Mi chiamava spesso al telefono. Voleva che andassi a trovarlo, cosa che facevo volentieri, compatibilmente con i vari impegni. Era sempre in uno stato di straordinaria lucidità, ma anche biblicamente "stanco di giorni" e non lo nascondeva: "La forza fisica è finita", ripeteva con sorriso velato. "Io posso pensare quel che mi pare, ma è come se il corpo non rispondesse più ai comandi".

    Allora io gli manifestavo la mia ammirazione per una vita così stracolma di soddisfazioni.

    Ci accomunava la ferma volontà a impedire che la nostra vecchia e gloriosa istituzione socialista democratica venisse messa a ferro e a fuoco dal nemico, nuovamente scatenato. Il "Centro estero" doveva continuare a stare lì, sfidando il tempo e l'arroganza del potere, per altri cent'anni. Nella musicalità della nostra bella lingua italiana, parole come "socialista" o "socialdemocratico" erano tornate a fungere da insulto. E noi buttavamo dunque il sangue in una battaglia del tutto inutile, ai fini convenzionali del tornaconto e del prestigio.

    Perché?! "Pe' tigna", riassunse una volta, con formula magnificamente antieroica, Giuseppe Tamburrano.

    Dal 1997 era toccato a chi scrive di assumere la guida dell'organizzazione socialista d'emigrazione, in uno dei momenti neri, come tanti altri ne erano capitati prima. Tra i miei predecessori il padre di Ettore, Enrico Dezza, l'aveva avuta ben più difficile, trovandosi per esempio a traghettare l'organizzazione attraverso due guerre mondiali, e ciò mentre un decreto di espulsione gli stava sospeso sopra la testa, come una spada di Damocle. Rischiava ogni momento di venire estradato in una galera fascista.

    Forse Ettore mi voleva al suo capezzale perché gli rappresentavo il padre approdato a Zurigo quand'era giovane, in fuga dall'asfissia dell'Italietta feroce e militar-clericale di Bava Beccaris. Io ero scappato, più modestamente, dallo smog metropolitano e dai furori degli ultimi anni Settanta. Ma, nonostante che un secolo o quasi separasse la mia generazione da quella di suo padre, c'era aria di famiglia.

    Ettore mi parlava di tutto: del suo apprendistato politico e intellettuale presso Silone prima della guerra; delle missioni speciali di guerra partigiana, travestito da novizio, nell'Emilia o nella Val d'Ossola. Poi il dopoguerra, la fondazione della tv, la vibrante personalità di Maria Callas che lui aveva diretto a Monaco in un memorabile allestimento dell'Aida, e i compagni: Brecht e Ragaz, Modigliani e la Balabanoff, Gorni e Canevascini. Ma anche le infinite diatribe interne, iniziate a Parigi, tra nenniani e saragattiani.

    Una volta mi raccontò di quando, negli anni Trenta, aveva introdotto il dialetto alla radio svizzera, per rompere con il purismo nazista. Fu un successo straordinario.

    Un altro giorno risalì con il ricordo fin sulla cima dell'epoca in cui era quasi ancora un ragazzino. Accennò ai suoi tentativi di intercettare una carriera piccolo-borghese, "normale".

    Dopo il noviziato domenicano, era rientrato a casa intraprendendo diversi lavori tra cui il soffiatore di cristalli. Gli piaceva, ma dovette abbandonare per un rischio di silicosi.

    A un certo punto confessò a suo padre la propria omosessualità, nonché la decisione di diventare attore drammatico.

    L'omosessualità – mi spiegava guardingo – era in quell'epoca lontana un partito diviso in due fazioni contrapposte: la fazione del "piacer mio" e quella della "amicizia". Disse "piacer mio" con rabbia e "amicizia" con un tono di voce che si appellava all'intellezione di un ideale. Ideale che si manifestava anzitutto e soprattutto nell'impegnarsi seriamente per offrire al proprio compagno occasioni di crescita culturale e umana.

    Quel vegliardo, che aveva convissuto cinquantatré anni con il suo partner, Richard Lenggenhager, mi disse cose riecheggianti passi di dialoghi platonici, filosofemi che fino ad allora si rubricavano per me sotto la voce dotta di "amor greco" con annessa nozione che di esso coltivava l'alta aristocrazia ateniese del quarto secolo avanti Cristo.

    Ma nella bruciante esperienza novecentesca quell'etica platonica riemergeva con ben altre valenze di significato esistenziale.

    Ettore Cella-Dezza aveva rischiato di finire ad Auschwitz per via di un'inclinazione sessuale diversa da quella di noi cosiddetti normali. Me ne rendevo conto?

    Una volta, mentre enumeravo a scopo terapeutico le ragioni di bellezza e di ricchezza della sua vita straripante soddisfazioni, lui m'interruppe per dirmi che però aveva due grandi rimpianti.

    "Il primo rimpianto" – disse – "è che non abbiamo potuto aiutare di più quegli Ebrei che erano arrivati nel nostro quartiere con quei loro grandi colbacchi".

    Perché aveva posto l'accento sui vistosi copricapi degli israeliti ortodossi? Considerai inopportuno domandargliene senza aver prima riflettuto sul punto. Gli chiesi qual era il secondo rimpianto.

    E lui: "Non aver mollato due cazzotti in più a qualche fascista che so io".

    Alcuni mesi dopo si spense. Da allora sono trascorsi quasi dieci anni, ma la memoria di quei colloqui è costantemente rimasta ben viva nella mia mente e mi ha aiutato non poco nei miei tentativi di comprensione delle umane vicende.

    Ed eccoci dunque al centenario dalla nascita di Ettore Cella-Dezza. Mi sono chiesto quale testo pubblicare sull'ADL per l'occasione. Da mesi stiamo lavorando alla riedizione bilingue di Nonna Adele, ma su ciò torneremo a lavoro concluso, quando pubblicheremo.

    Oggi mi torna alla mente l'ultimo suo discorso pubblico, che tenne nella città di Frauenfeld, nel Canton Turgovia, sede dell'ormai tradizionale Pink Apple Film Festival, un'importante rassegna internazionale del cinema gay. Per l'edizione del 2002 l'indirizzo di saluto inaugurale venne affidato a Ettore Cella-Dezza. Qui sotto ne riportiamo il testo integrale in versione italiana.

 

 

CON LA FORZA DELLA RAGIONE CON LE ARMI DELL’ONESTÀ

 

Ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve. Lottare per la libertà e l’emancipazione con i mezzi pacifici della ragione e dell’onestà non è inutile.

 di Ettore Cella-Dezza (1913-2004)

 (Frauenfeld 25.4.2002) - Se oggi prendo la parola, qui a Frauenfeld, di fronte a voi, inaugurando il Pink Apple Film Festival 2002, penso che l’indubbio onore riservatomi consegua da quattro ragioni che proverò a enumerare. La prima deriva, credo, dal prestigioso Premio cinematografico assegnatomi dalla Città di Zurigo pochi mesi fa. Zurigo è vicina e nelle sue sale verrà replicato il nostro programma odierno. La seconda ragione sta, forse, nell’esperienza e nel vissuto di un’ottantottenne al quale l’età tuttavia non ha ancora tolto per nulla la passione del proprio lavoro. E qui permettetemi senz’altro di aggiungere, in terzo luogo, che non si finisce mai d’imparare. In quarto e ultimo luogo vi sono, direi, le mie opinioni sulla sessualità e sull’amore: binomio tutt’oggi controverso, spesso avvolto da dubbie forme d’interesse morboso, e quasi universalmente considerato un tabù.

    Diciamo subito che a causa di questo tabù l’umanità, o almeno una “minoranza” in essa, vuoi di sesso femminile che di sesso maschile, soffre dai tempi mosaici. Nell’Antico Testamento, e segnatamente nel Levitico, si legge il seguente precetto:

 

Non giacerai con un ragazzo come con una donna,

ché è cosa abominevole. (Lev. 18:22)

 

E certamente un siffatto giacere è abominevole: circonvenzione e violenza, comportamenti entrambi che, e a buon diritto, vengono tutt’oggi sanzionati dalla legge. Ma amare esclude ogni circonvenzione e ogni violenza. L’amore è tutt’altra cosa. Sì, io credo che amare sia tutt’altra cosa e credo che nessuno, amando senza circonvenzioni e violenze, possa compiere – o anche solo percepirsi nell’atto di compiere – qualcosa di abominevole. No, davvero, non penso che si possa parlare di abominio quando due persone adulte si amano. E, anzi, se mai qualcuno di voi, care amiche e cari amici, percepisse come abominio l’espressione del proprio amore, sarebbe bene per lei o per lui cercare qualche ausilio terapeutico.

    Nondimeno, fin dai tempi arcaici la storia ci racconta di leggi che vietano e di sanzioni che puniscono l’amore, soprattutto il nostro amore, fino all’estremo supplizio. Occorre attendere la venuta di un popolo intelligente e straordinario come fu quello greco affinché uno spirito di maggiore libertà incominci a soffiare tra gli esseri umani.

    Di questa libertà i grandi padri e le grandi madri della cultura greca, nonché del pensiero e della letteratura universali – da Saffo a Socrate, da Platone ad Aristofane a tanti altri – ci hanno lasciato per altro  testimonianze perenni. Parlo di capolavori eterni, che però vennero originariamente concepiti e recepiti nella cornice quotidiana di splendide città e anfiteatri. E permettetemi di sottolineare, con tutto l’orgoglio di un vecchio uomo di spettacolo, che un tratto caratteristico della cultura greca fu proprio la sua dimensione pubblica, simboleggiata dal teatro.

    Non a caso fu per effetto dell’onda culturale ellenistica che – dalla Persia alla Tunisia da Epidauro ad Atene a Siracusa – nacquero teatri grandiosi, che potevano ospitare fino a sedicimila spettatori. Nasce di qui la robusta civiltà teatrale dell’Occidente, nasce di qui la capacità del teatro di motivare anche dopo il tramonto delle poleis greche ulteriori generazioni di artisti, e non tra i peggiori, che seppero proseguire su questa via. Di qui nacquero l’entusiasmo e la passione che condussero a edificare altri grandi anfiteatri – a Taormina e a Verona, a Pompei e ad Avenches – dove venivano rappresentate le commedie di un Plauto e di un Terenzio, e dove avevano luogo anche dispute su argomenti di pubblico interesse, agoni di poesia, vere e proprie olimpiadi dello spirito e dell’intelletto.

    Nelle egloghe di Virgilio, nelle liriche di Saffo, nei metri e nelle rime di non pochi letterati antichi ci restano testimonianze altissime tanto del sentimento amoroso quanto di invidiabile autonomia intellettuale.

    E poi? Cos’è successo, poi? Poi, fino a ieri o all’altro ieri, è successo che tanto l’uno quanto l’altra, tanto il sentimento quanto l’intelletto, ci sono stati interdetti per lunghi secoli: sia nell’ambito della vita quotidiana, sia in quello della letteratura e del teatro. Lo stesso si potrebbe affermare, in tempi più recenti, della radio, della televisione e del cinema, giacché – lasciatemelo dire a chiare lettere – è soprattutto di silenzio censorio, non d’altro, che sono fatti a tutt’oggi i nostri media.

    Parlo di un silenzio censorio che viene da lontano; che inizia con la traduzione biblica, la cosiddetta “Itala”, del 195 d.C. e poi, ancor di più, con la versione approntata da Girolamo nel 392; parlo di una attitudine censoria e repressiva che inizia insomma con la “cristianizzazione” dell’Occidente; parlo di un processo storico che sicuramente non ebbe luogo all’insegna del comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma che tutt’altrimenti recò in sé il segno curiale e romano di una chiesa ormai totalmente dominata dalla propria sete di potere.

    Durante tutta l’epoca tardo-antica e durante tutto il medioevo la chiesa ha letteralmente messo a ferro e a fuoco ogni libertà sessuale. Né, va detto, la pratica della tortura e del rogo cessarono con l’avvento della cosiddetta età umanistica o della cosiddetta età dei lumi. No, care amiche e cari amici, interdizione e persecuzione sempre: dal passato remoto fino al tempo presente.

    La chiesa oggi moltiplica ovunque i suoi appelli affinché tutte le persone di buona volontà servano la pace tramite lo strumento del perdono: “perdona il tuo nemico!” Il che mi pare un’istanza in sé condivisibile. Ma alla chiesa stessa in duemila anni non sembra esser mai riuscito di dare seguito a questa sua istanza. Sicché si grida “pace pace”, ma la guerra continua. Perché? Forse perché la chiesa non osa mettere in questione alcuni pseudo-fondamenti sociali della propria dottrina. Ma anche per una certa incoerenza tra il piano delle parole e quello dei fatti.

     “Ama il prossimo tuo come te stesso” – il comandamento evangelico vale sì per tutti, ma, care amiche e cari amici, la chiesa sembra dimenticarsene quando si tratta di certe “minoranze” rispetto alle quali si rimane fermi alle giaculatorie di condanna: “Orsù, figliolo, tu devi... è proibito... è peccato grave!”

    Insieme al dito alzato, vagamente minaccioso, della morale tradizionale, resta in vigore il monito a non mai turbare il comune senso del pudore. Tanto più che ciò diffonderebbe solo insicurezza... Meglio, dunque, non parlarne, meglio imbavagliare, stroncare e sopire... Insomma, ecco a voi il tabù.

    Fortunatamente, anche all’interno della chiesa, aumenta il novero di religiose e religiosi – non necessariamente coinvolti nel nostro tema per vicende o travagli personali – cha hanno il coraggio e l’onestà di sostenere in santa coscienza una posizione diversa da quella ufficiale, anche al prezzo di venire a loro volta “silenziati”.

    La ragione di questo breve excursus storico è presto detta: ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve, che lottare non è affatto una cosa inutile. Se così non fosse, pensiamo a noi per un istante, che ce ne siamo oggi qui riuniti in questa bella sala della città di Frauenfeld per celebrare un festival del cinema gay. Lo possiamo fare in quanto oggi noi rappresentiamo una minoranza combattiva e aggregante, capace di evolversi e di indurre all’evoluzione anche i nostri media. Noi oggi rappresentiamo una minoranza che non intende, né deve più, accettare qualunque prepotenza.

    Tutto questo è oggi possibile qui, nel Paese che ospita questo festival, la Svizzera – e ciò sia detto senz’ombra di vanità o boria nazionale – perché in questo Paese  durante lo scorso secolo e anche in quello precedente hanno vissuto persone – cito tra tutti Hösli, Meyer e von Knonau –  che seppero spendere la loro intelligenza nella lotta. E che, così facendo, seppero imprimere un impulso all’intera società, pur tra mille sofferenze e al prezzo di sacrifici pagati in prima persona: sofferenze e sacrifici di cui noi, care amiche e cari amici, oggi profittiamo.

    Da tutto ciò dobbiamo trarre motivo per proseguire – con mezzi pacifici – la nostra lotta. Con mezzi pacifici: perché non è con le battaglie campali o con le operazioni di guerra che si risolvono i problemi dell’umanità. Ogni giorno sperimentiamo questa semplice verità, sebbene l’orda militarista non intenda prenderne nota. Eppure, le conseguenze della guerra sono – oltre agli immani cumuli di macerie sotto gli occhi di tutti – immani cumuli di menzogne e paure, di squallori e miserie, immani cumuli di tormenti per la morte di persone care. E furiosi desideri di vendetta. Come non vedere che tutto ciò rischia di alimentare nuove spirali di odio, innescando, prima o poi, il tragico circolo vizioso di nuove guerre?

    A chi vorrebbe tacitarci dicendo che, però, le guerre ci sono sempre state, io rispondo: non lasciatevi incantare da queste parole, non lasciatevi chiudere la bocca, fate che la pace non sia un tabù!

    Ecco, bisogna lottare con la forza della ragione, impiegando le armi dell’onestà, della rettitudine e dell’intelligenza. E in tal senso le possibilità offerteci dai mezzi di comunicazione sembrano oggi varie e numerose quanto basta. Ricordiamoci che nella storia non sono mai mancati donne e uomini capaci di raccogliere la sfida della lotta per la libertà e l’emancipazione, anche quando ciò comportava il prezzo di incomparabili sacrifici.

    Quanti di loro sono andati incontro alla discriminazione sul lavoro? o alla disoccupazione? o al licenziamento? Quanti sono finiti in carcere? Quanti i morti in campo di concentramento? O i costretti alla fuga onde evitare la morte? Quanti vennero indotti alla disperazione e al suicidio? E quanti ancor oggi cercano riparo nella folla anonima delle grandi metropoli, abbandonando il paese in cui sono nati, essendo loro impossibile condurvi liberamente una esistenza minimamente serena?

    Vorrei ricordare Magnus Hischfeld, che fu autore di uno studio scientifico su questo speciale aspetto dell’urbanesimo e che fondò a Berlino un centro di accoglienza. Dovette riparare in Svizzera per evitare la camera a gas.

    Vorrei ricordare, in quegli stessi anni, l’attore e scrittore turgoviese Karl Meier, noto anche come “Rolf”, che portava avanti assieme al lavoro una coerente militanza antifascista nel cabaret Cornichon, e che fondò la rivista Kreis come pure l’omonimo centro di cultura, con vasta risonanza presso l’opinione pubblica di tutto il mondo libero.

    Rivoluzionarie e paradigmatiche furono, nel secondo dopoguerra, Rosa von Praunheim, regista di pellicole sfrontate e sconcertanti, il sempre malfamatissimo Rainer Fassbinder e un Pier Paolo Pasolini continuamente bersagliato da querele a causa dei suoi film sessuo-politici che avevano conquistato un vastissimo pubblico, seppure a mio avviso su un piano talvolta meramente voyeuristico.

    Per ciò che concerne la letteratura non tento nemmeno di fare un elenco di tutti quelli che, dopo Whitman e Wilde – da Gide a Cocteau, da Genet a Sartre a White e Baldini e Vidal e Monicelli e cento altri –, hanno contribuito a combattere il pregiudizio.

    Ma giunti sin qui, quel che mi preme è sottolineare un punto a mio avviso essenziale: care amiche e cari amici, nella vita non si hanno soltanto dei diritti. Ci sono anche i doveri. Sì, doveri, che chiedono di essere osservati con coscienziosità, verità e amore.

    In molti paesi del mondo il nostro festival non potrebbe avere luogo. In 35 nazioni vige la pena di morte. E durante l’anno 2001 le agenzie di stampa hanno dato notizia di ottantuno tra decapitazioni e lapidazioni di persone accusate di: “omosessualità”.

   Il cammino da compiere, come si vede, è ancor lungo. Perciò, se un festival cinematografico ci può ben apparire una goccia su una pietra rovente, non di meno lasciateci sperare che prima o poi, perseverando, anche questa goccia peserà, conterà, contribuirà ad alimentare una pianta fertile che porterà i suoi frutti.

    Per noi qui i frutti iniziano anzitutto dalla ricchezza emozionale che il cinema sa regalarci: nel pianto, nel riso e nella riflessione.

    Perciò, un grazie a tutti coloro che hanno dedicato le loro energie  all’organizzazione di questo Pink Apple Film Festival di Frauenfeld e che meritano di raccogliere pieno successo.

    Vi auguro di non mollare mai e di continuare sempre a combattere con intelligenza e con onestà.

    Grazie della vostra attenzione.

 

 

Un’iniziativa della “Fabbrica” 

Che Ettore sia con noi !!!

 Centenario di Cella-Dezza: appuntamento cinematografico a Zurigo, giovedì 12.9.2013, ore 20, al “Punto d’Incontro”, Josefstrasse 102

 di Mattia Lento

 A 100 anni dalla nascita di Ettore Cella-Dezza la “Fabbrica” di Zurigo ha deciso di ricordarlo e rendergli omaggio con due proiezioni presso il Punto d’Incontro (Josefstrasse 102).

    Il 12 settembre, giorno dell’anniversario, e il 9 dicembre verranno mostrati infatti Bäckerei Zürrer e Hinter den sieben Gleisen, due film del grande regista elvetico Kurt Früh, in cui Ettore interpreta i due personaggi ormai leggendari di papà Pizzani e del venditore di banane Colonna.

    La visione dei due film sarà l’occasione per vedere le immagini dell'Aussersihl alla fine degli anni ‘50, quell’“Ettores Chreis” che ha segnato la storia di una città e dei suoi migranti.

    Questa breve retrospettiva, inoltre, rendendo omaggio a uno dei più illustri simboli dell’integrazione straniera a Zurigo, vuole essere di buon auspicio per l’iniziativa cantonale del 22 settembre per il diritto di voto straniero a livello locale. Che Ettore sia con noi !!!

 

Wolfang Streeck e la crisi del capitalismo

Da MondOperaio

 

 di Gianfranco Sabattini

 La crisi che ha colpito il capitalismo sta minando alle fondamenta la democrazia; lo sostiene in Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico Wolfang Streeck, sociologo e direttore del Max-Planck-Institut per la ricerca sociale di Colonia. Oggetto dell’analisi è la crisi finanziaria e fiscale del capitalismo democratico contemporaneo, con particolare riferimento ai paesi dell’Unione Europea.

    Il metodo adottato è quello della scuola di Francoforte, secondo cui le conoscenze delle scienze sociali sono legate al tempo e al luogo all’interno del quale si colloca il fenomeno studiato. Il metodo assume il presupposto dell’esistenza di una “tensione strutturale” tra funzionamento dei sistemi sociali e funzionamento dei sistemi economici secondo la logica capitalistica; tensione che nei paesi democratici del dopoguerra è mediata da politiche statali secondo modalità sempre diverse, storicamente condizionate.

    Le politiche, provocando crescenti cambiamenti sociali ed istituzionali, sono contestate da forze antagoniste che ne rallentano o ne modificano gli effetti. Le politiche non sono altro, per Streeck, che il tentativo di “prendere tempo comprandolo con l’aiuto del denaro” che viene impiegato per disinnescare i conflitti sociali destabilizzanti attraverso varie modalità d’intervento, ma essenzialmente attraverso l’indebitamento del bilancio pubblico e la finanziarizzazione dell’economia.

    Streeck tratta il fenomeno della crisi attuale nella sua continuità a partire dalla fine degli anni Sessanta. L’evoluzione è descritta come un “processo di dissoluzione del regime del capitalismo democratico del dopoguerra”. Ciò che si conosce delle crisi in generale, sostiene Streeck, può essere d’aiuto; però ogni crisi reca in sé un elemento di unicità che le assegna un carattere specifico, collocato in un determinato contesto temporale e spaziale, esprimente la “chiave” della sua interpretazione. Partendo dalla fine degli anni Sessanta Streeck descrive la crisi attuale come la fase ultima della trasformazione del modo in cui sono risolti i conflitti soggiacenti la tensione strutturale sempre esistente tra il funzionamento dei sistemi sociali e il funzionamento dei sistemi economici capitalistici. Il successo conseguito nel controllo dei conflitti è però temporaneo, e perciò preludio di una nuova crisi, in quanto non si considera che ogni provvedimento di stabilizzazione è solo un palliativo, e che, come tale, è destinato a conservarsi sin tanto che la logica di funzionamento del sistema sociale si conserva compatibile con la logica capitalistica di funzionamento del sistema economico.

    L’aumento della complessità delle crisi e il crescente fabbisogno finanziario dello Stato per “comprare tempo”, utile a sedare l’instabilità sociale ed economica, porta gli Stati capitalistici democratici contemporanei ad acquisire un’organizzazione istituzionale che Streeck chiama “Stato consolidato”, destinato a sostituire lo Stato democratico debitore: conseguenza della politica di consolidamento dei bilanci statali e di contenimento del debito pubblico imposta dai mercati finanziari a garanzia dei crediti concessi agli Stati in deficit. La costruzione dello Stato consolidato in Europa è strettamente connessa all’avanzamento del processo d’integrazione, intesa però non come integrazione politica, ma come meccanismo di liberalizzazione delle economie nazionali europee. Lo Stato consolidato, afferma Streeck, sta così azzerando “le risorse politiche dei cittadini dello Stato democratico”; i cittadini contano sempre di meno, e opporsi alle prescrizioni dei mercati finanziari, una volta accolte dalle classi politiche nazionali, diventa sempre più difficile; in tal modo le democrazie nazionali si trovano ad essere ridotte a feudi dei mercati.

    Ma se il capitalismo dello Stato consolidato non è più in grado di produrre l’illusione di poter garantire un suo funzionamento in presenza di una giustizia distributiva condivisa, è inevitabile la separazione del capitalismo dalla democrazia. Se la conservazione della democrazia significa che la giustizia distributiva non è suggerita dal mercato, allora a livello europeo occorre rimuovere o annullare democraticamente “le devastazioni istituzionali” prodotte da tanti anni di attuazione del processo d’integrazione d’ispirazione neoliberista.

    Ma come? Ci si può domandare se sia possibile arrivare ad un controllo dei conflitti che distruggono l’eurozona; secondo Streeck è possibile; ciò però presuppone l’opposizione alle forze centrifughe generate dalla realizzazione dell’Unione europea attraverso la costrizione di sistemi sociali tanto diversi tra loro dentro la “struttura rigida del mercato comune e della moneta unica”. Il rimedio sta nella capacità e volontà di elaborare e di adottare per l’Europa una costituzione democratica che riconosca le differenze nei modi di vivere e nelle economie a livello nazionale, regionale e locale, e che definisca quali aspetti della vita sociale possono essere lasciati alla cura dei singoli contesti politici e quali altri devono essere risolti con la solidarietà di tutti. All’interno di una costruzione federalista siffatta, il sistema monetario più appropriato, per Streeck, appare quello di Bretton Woods, fondato su cambi fissi, ma aggiustabili in modo flessibile.

    Nella situazione attuale, una simile risposta alla crisi, conclude il sociologo tedesco, avrebbe la natura di “una risposta strategica a una crisi sistemica”, in quanto andrebbe ben oltre il processo di integrazione suggerito dai mercati finanziari, mostrando nel contempo “che non è possibile una democrazia sociale senza la sovranità dello Stato”. E’ così? Qualche dubbio è lecito nutrirlo.

    Per quanto la proposta di Streeck possa essere strategica, e perciò di lungo periodo, nulla indica che anch’essa non serva a “guadagnare tempo”; ciò perché, la tensione strutturale tra il funzionamento dei sistemi sociali e il funzionamento dei sistemi economici capitalistici continuerà a permanere, per cui giungerà il momento, anche se il più tardi possibile, di una nuova crisi. Ciò significa che la tensione strutturale, in quanto tale, impone che si discorra mon tanto di proposte per “guadagnare tempo”, quanto di come rimuoverla definitivamente.

 

lunedì 9 settembre 2013

Siria: la preoccupazione degli organismi ecumenici internazionali

Da NEV – Notizie Evangeliche riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

 Il luterano Younan: “Un intervento militare favorirebbe gli estremisti dei due schieramenti”

 

Roma (NEV), 4 settembre 2013 - Dopo l'uso di armi chimiche e la minaccia di una ritorsione militare da parte degli Stati Uniti, il conflitto siriano è tornato prepotentemente al centro delle preoccupazioni degli organismi ecumenici internazionali e delle chiese in tutto il mondo.

    E' di oggi una lettera aperta inviata dal pastore Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), al Consiglio di sicurezza dell'ONU nella quale l'esponente religioso chiede che "venga fatto tutto il possibile per estinguere il fuoco della guerra piuttosto che ravvivarlo attraverso un intervento militare". L'intervento di Tveit segue la sua partecipazione ad Amman (Giordania) di un incontro di leader religiosi promosso dal principe Ghazi bin Muhammad e centrato sulle sfide che stanno davanti ai cristiani mediorientali. "il crimine dell'uso di armi chimiche deve essere investigato a fondo e perseguito - ha scritto il segretario generale del CEC -. Tuttavia, un attacco esterno alla Siria aumenterà la sofferenza e il rischio di ulteriori violenze" per l'intera popolazione.

    Il pastore Guy Liagre, segretario generale della Conferenza delle chiese europee (KEK) ha condannato l'uso delle armi chimiche in Siria. “Si tratta di una notizia allarmante per i cittadini di tutto il mondo e, in particolare, del Medio Oriente”, ha affermato Liagre in un comunicato stampa datato 28 agosto. Liagre ha quindi aggiunto che qualsiasi decisione venga presa per rispondere a questo terribile atto, deve considerare “prima di tutto il bene della popolazione siriana e non le esigenze dei politici”.

    E' invece di due giorni fa una dichiarazione della Federazione luterana mondiale (FLM), firmata dal suo presidente, vescovo Munib Younan, e dal segretario generale, pastore Martin Junge. I due esponenti luterani chiedono alla comunità internazionale di “rinunciare ad ogni azione militare per risolvere la complessa situazione siriana”. In particolare, Younan, vescovo della chiesa luterana in Giordania e Terra santa, ha ricordato che “gli unici a beneficiare di un intervento militare dell'Occidente sarebbero gli estremisti di entrambi i fronti. Come cristiano e come arabo, sono preoccupato degli effetti che questo tipo di violenza avrebbe su tutte le comunità siriane, sunnite, sciite, alawite, druse o cristiane che siano”.

    In Gran Bretagna la chiesa metodista, l'Unione battista e la chiesa riformata unita hanno salutato con favore la decisione del parlamento di Westminster di non impegnarsi in un'azione militare in Siria. “Siamo riconoscenti ai nostri parlamentari per aver esaminato accuratamente l'opzione militare e per averla respinta”, si legge in un comunicato congiunto. Nella speranza che le parti in conflitto possano sedersi a un tavolo negoziale, i rappresentanti delle tre chiese chiedono che venga data priorità alla protezione della popolazione siriana esposta alla violenza.

 

 

 

Da italialaica - sito dei laici italianiriceviamo e volentieri pubblichiamo

 

RELIGIONI FRA PACE E GUERRA

 

Questa settimana fa notizia l’invito del papa ad una giornata di digiuno per scongiurare il lancio dei missili occidentali contro la Siria di Assad.

 

di Marcello Vigli

 

L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace”, ripete Francesco, indicendo “per tutta la Chiesa, il 7 settembre, una giornata di digiuno e di preghiera” alla quale ha invitato tutti, cattolici, ortodossi, musulmani e non credenti.

    “Mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato”, ha ribadito il papa riproponendosi, con il suo invito, come interlocutore non solo dei governi, ma anche dell’intera Comunità internazionale esortandola a fare ogni sforzo per promuovere, iniziative chiare per la pace nel segno della collegialità.

    La sua sfida , infatti, non è solo ai governi che minacciano l’intervento, ma anche a quelli dei Paesi islamici nemici di Assad, che lo auspicano.

    La memoria torma all’analogo grido d’allarme lanciato da Pio XII alla vigilia della seconda guerra mondiale, all’appello di papa Giovanni in occasione della crisi di Cuba, e a quello di Giovanni Paolo II a Saddam e Bush, alla vigilia dell’attacco all’Iraq.

    Essi possono essere letti nel quadro di quella condanna lanciata da Paolo VI all'Onu nel 1965 con la sua teoria della guerra come conseguenza fatale del peccato.

    Papa Francesco l’ha confermata aggiungendo, però, che per rendere inequivocabile la condanna della guerra è necessario porgere l'orecchio al «grido che sale» dalla terra: di cui parla la Sacra scrittura. Il suo invito va oltre una deplorazione rituale chiede di compiere gesti concreti: non solo preghiera, ma anche un giorno di digiuno. Esso non è rivolto solo ai capi delle religioni e a tutti i credenti, ma anche ai non credenti e agli atei.

    Per questo ha ottenendo il plauso del pacifismo laico, testimoniato dalla dichiarazione della radicale Emma Bonino che si è detta ben lieta che il papa si sia assunta la responsabilità di mettere in guardia l’opinione pubblica mondiale sul rischio che un intervento un Siria possa innescare un conflitto generale.

    Fra i capi religiosi ha aderito Gregorio III Laham, patriarca greco-cattolico di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme dei Melchiti e il Gran mufti di Siria, e Ahmad Badreddin Hassou, leader spirituale dell'islam sunnita in Siria, si detto profondamente colpito dall'appello del Papa.

    Più ovvia, ma non così scontata nella sua diffusione, l’adesione delle organizzazioni cattoliche e delle diocesi italiane che stanno organizzando iniziative pubbliche di partecipazione.

    Non è sempre stato così nella Chiesa cattolica… (continua la lettura dell’articolo al sito di italialaica)