lunedì 29 aprile 2013

Premio di maggioranza con cortocircuito

di Ugo Intini


Incredibilmente nessuno, ma proprio nessuno (neppure i giornali) ha detto la cosa più semplice e ovvia. Tra i casi unici al mondo, si verifica in Italia anche il seguente: eleggiamo il capo dello Stato attraverso un Parlamento scelto con il sistema maggioritario (e senza bisogno di maggioranza qualificata).

Ciò è assurdo e pertanto unico per l'evidente ragione che il Capo dello Stato non deve governare, ma rappresentare tutti i cittadini e l'unità della Nazione. Quindi, ovunque, o viene eletto, appunto, direttamente da tutti i cittadini. O viene eletto da un Parlamento che rappresenta fedelmente tutti i cittadini (una testa un voto) e che quindi è stato scelto con il sistema proporzionale.

Negli Stati Uniti e in Francia, ad esempio, si vota per il Parlamento con il maggioritario e pertanto il presidente della Repubblica è eletto direttamente dal popolo. In Germania e Israele, si vota con il proporzionale e il presidente della Repubblica è di conseguenza scelto dal Parlamento. Questo suggeriscono la logica e il buon senso.

Al massimo, eccezionalmente, un Parlamento maggioritario può eleggere il presidente della Repubblica, ma con una maggioranza qualificata.
I nostri padri costituenti hanno stabilito l'elezione del capo dello Stato da parte del Parlamento perché si trattava di un Parlamento proporzionale. Mai avrebbero immaginato che si sarebbe cambiato un pezzo dell'impianto istituzionale (quello riguardante il sistema elettorale delle Camere) lasciando immutato il resto.
Secondo ragione, "tertium non datur": la terza ipotesi non esiste. O il presidente della Repubblica lo elegge il popolo. O lo elegge un Parlamento proporzionale.

La terza ipotesi si è vista solo in Italia (in un Paese appunto che ha perso il lume della ragione). E infatti si è trasformata in un incubo. Gli analfabeti della politica hanno gridato all'inciucio perché si è cercato un accordo anche con il PdL. Senza considerare che in un Paese normale sarebbe certamente stato impossibile (impossibile per legge) scegliere un Capo dello Stato con i voti del solo PD e di qualche volonteroso.
Voler spiegare tutto ciò ai grillini e ai giovani deputati del PD "grillino simili" (perché alimentati dal web anziché dai libri e dalla esperienza di vita) sarebbe come pretendere di insegnare la fisica quantistica a chi fatica con l'aritmetica. Ma tra i temi discussi da Napolitano con i leader (leader si fa per dire), c'è certamente anche questo.

Mai più si dovrà assistere a un simile scempio. Mai più un Parlamento maggioritario dovrà eleggere il capo dello Stato. Napolitano se ne andrà dal Quirinale (lui spera il più presto possibile) quando sarà sicuro che una farsa vergognosa come quella dei giorni scorsi non si ripeterà.

Non si può contare sul buon senso degli analfabeti della politica per evitare l'elezione di un Capo dello Stato che ha il consenso di un terzo dei cittadini. Avrebbe potuto accadere. Anzi, sabato ci siamo arrivati quasi. La prossima volta si dovrà contare non sul buon senso, ma sulle regole.

giovedì 18 aprile 2013

Vendola, Barca, Landini e il Partito che vorrei

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

 

Parliamo di socialismo

 

 

Il Partito che vorrei dovrebbe costruire una grande sinistra fuori dalla dimensione televisiva della politica a cui ci siamo abituati in questi lunghi vent’anni. 

 

di Antonio Tedesco

 

L’esito delle ultime elezioni ha mostrato la grande inadeguatezza delle forze progressiste a rispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi fermenti della società contemporanea.

    I limiti riguardano prevalentemente la struttura organizzativa della forza più grande della sinistra, il Pd, un partito privo di una precisa identità dove convivono sempre più a fatica componenti che hanno come unico collante il potere e la sua occupazione; inoltre si sono evidenziati tutti i difetti di una struttura burocratizzata “vecchio stampo” incapace di comprendere le esigenze dei territori che lottano contro la cementificazione, le trivellazioni (ieri 40.000 manifestanti a Pescara) e le opere pubbliche inutili e dannose. Forse dalla disastrosa condizione in cui versa la sinistra italiana sta emergendo qualche timido tentativo di riportare al centro dell’attenzione il lavoro e la partecipazione democratica dei cittadini.

    Landini recentemente incontrando il ministro Barca ha espresso l’esigenza di costruire un partito del lavoro. Il ministro dopo 16 mesi di esperienza governativa ha avanzato il dodecalogo per un nuovo Partito “Un partito nuovo per un buon governo”. Il testo di Barca riguarda prevalentemente la forma di partito. “Per cambiare lo Stato è assolutamente necessario che i partiti funzionino bene e in modo diverso rispetto a oggi e il loro compito è gestire un aperto e regolato conflitto sociale”.

    Il ministro usa espressioni come sperimentalismo democratico,  mobilitazione cognitiva. Il partito, secondo Barca, deve fare due cose: selezionare la classe dirigente e appunto promuovere la “mobilitazione cognitiva”, fatta di “un confronto pubblico informato, acceso e ragionevole fra iscritti e simpatizzanti aperto al confronto e separato dallo Stato”.

    Vendola ha chiesto di entrare con Sel nel PSE e auspica un polo unico della sinistra. Qualcosa si muove! Sono d’accordo con il ministro che si deve mettere in discussione l’attuale forma dei partiti, perché la crisi è figlia anche della crisi di essi.

    Credo che il problema della sinistra non sia il leader. Molti hanno ipotizzato che se al posto di Bersani ci fosse stato Renzi, la coalizione di centro-sinistra avrebbe vinto. Questo non si può dimostrare. Non basta essere giovane, di bella presenza e capace di stare ai ritmi della comunicazione moderna per essere un grande e capace leader.

    Oggi sono i Partiti ad aver perso credibilità e sono convinto che non basti rinunciare ai rimborsi elettorali per recuperare la credibilità persa negli anni ma si deve ridiscutere l’idea di partito, con i suoi organismi autoreferenziali, con le logiche di potere. Il partito che vorrei dovrebbe sostenere la costruzione di presidi di partecipazione nei quartieri, dei civic-center, capaci di includere i cittadini nei processi partecipativi botton- up che respingano ogni deriva autoritaria e autoreferenziale dei partiti e siano capaci di rendere i cittadini protagonisti di un epocale cambiamento culturale e sociale e di preparare e selezionare le future classi dirigenti. Il Partito non deve essere più il luogo dello “scambio”, della conservazione dei “clientes” ma deve diventare il luogo dove i cittadini diventano protagonisti. Un luogo carico di identità che guardi al passato, come elemento imprescindibile per osare nel futuro, che abbia come modelli di riferimento l’antifascismo, Pertini e Nenni. Un partito che si deve reggere esclusivamente sul contributo dei cittadini, dei volontari, privo di funzionari, senza federazioni e burocrazie sovra comunali.

    Il Partito che vorrei dovrebbe costruire una grande sinistra fuori dalla dimensione televisiva della politica a cui ci siamo abituati in questi lunghi vent’anni. Una sinistra che guardi all’Europa e realizzi una politica che non sia più provinciale e ancorata all’antiberlusconismo con l’obiettivo di ridare slancio e entusiasmo a milioni di persone che in assenza di una alternativa hanno votato Grillo o non hanno votato, per costruire un Italia dove la gente non muore schiacciata nei mezzi pubblici e dove si riconquista il sentimento di Comunità e di solidarietà. Insomma, un partito Socialdemocratico del Lavoro!

 

 

IPSE DIXIT

Ammirazione e affinità - «Sono stato legato da ammirazione e crescente affinità ideale e politica a Willy Brandt, ed ebbi con lui come Presidente dell'Internazionale Socialista schietti e proficui colloqui personali e incontri formali, in occasione del Congresso di Stoccolma e di diverse sessioni del Consiglio dell'Internazionale Socialista cui venni invitato come osservatore per il Partito Comunista Italiano. È rimasto impresso nella mia memoria soprattutto un singolare incontro con lui, per la straordinaria coincidenza con lo storico evento della caduta del “muro di Berlino”. Avevamo mesi prima concordato di discutere da vicino in modo approfondito il tema del rafforzamento dei rapporti del PCI con l'Internazionale Socialista, nella prospettiva di una vera e propria adesione. L'appuntamento venne fissato per il giorno 9 novembre 1989 alle ore 14.00, a Bonn, nell'ufficio di Brandt al Bundestag. Discutemmo di tutto a lungo, in termini di piena reciproca apertura e comprensione, per ben due ore, non immaginando che di lì a poco - dopo che io ero appena ripartito da Bonn per l'Italia - la storia avrebbe conosciuto un'improvvisa, esaltante svolta verso la libertà.» – Giorgio Napolitano

 

lunedì 15 aprile 2013

Il sindacato serve ancora perché sa di che cosa parla

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it



Quando parla del lavoro e dei lavoratori, il sindacato ha cognizione di causa. Non ascoltarlo è parte di questa crisi. Occorre dotare il Paese di strumenti universali di sostegno al reddito.


di Franco Martini

Segretario generale Filcams Cgil


Nell’esprimere mesi fa un giudizio su uno dei provvedimenti più contestati del Governo Monti, Susanna Camusso disse che il premier “non sapeva di cosa parlava”. Tale espressione poteva apparire un peccato di presunzione, in quanto rivolta ad un accademico di scuola bocconiana. Purtroppo, fotografava uno dei maggiori limiti che ha indirizzato l’esperienza di quel Governo verso gli scogli di una delle più gravi crisi economiche e sociali del Paese: il distacco dalla concreta condizione sociale in cui vivono le persone. Non basta essere buoni tecnici, ancor meno valenti saggi se le competenze appaiono sempre più estranee al vissuto quotidiano. L’esempio degli esodati è forse il più emblematico di quanto il distacco tra teoria e realtà, ben lungi da offrire soluzioni ai problemi, ne rappresenta al contrario un ulteriore aggravamento.

    Le posizioni espresse dall’economista Mauro Gallegati, al netto delle opinioni di merito, sembrano riproporre lo scollamento con la realtà concreta e verrebbe, anche in questo caso, da chiedersi quanto il pensiero teorico sia ispirato da una effettiva conoscenza delle situazioni concrete e dei processi reali.

    Alcune considerazioni appaiono sicuramente suggestive ed in parte condivisibili. L’incapacità del modello capitalistico di rispondere ai problemi nuovi dello sviluppo ed il fallimento delle politiche neo-liberiste. Così come la necessità di immaginare nuovi processi redistributivi del lavoro, a partire dall’orario, oppure, il superamento della dicotomia tra flessibilità e precarietà.

    Possiamo condividere anche la necessità di superare una visione tutta chiusa nel breve periodo, quello dell’emergenza, per assumere un profilo di più lunga prospettiva, dove si definiscono i connotati di una società più equa. Più che un sogno o una utopia, questa è proprio la necessità prioritaria che dovrebbe orientare il dibattito sulla crisi e le sue possibili vie di uscita.

    Molto più discutibili sono altri concetti, in alcuni casi contraddittori con le tesi enunciate in partenza.

    Intanto, pare sfuggire la centralità del lavoro, quale paradigma di un nuovo modello di riorganizzazione e di sviluppo dell’economia. A partire, ovviamente, dal lavoro che non c’è. Se si evidenzia, giustamente, che la gran parte delle nuove generazioni sono condannate a formare un esercito di futuri pensionati poveri e si mette in relazione questo fenomeno alla mancanza di lavoro (del resto, siamo ai vertici delle graduatorie mondiali sulla disoccupazione giovanile); se si aggiunge che tale fenomeno non riguarda più solo le fasce più giovani della popolazione, ma i 40-50enni vittime della pesante recessione che ha investito tutti i settori produttivi del Paese, non si può non assumere l’obiettivo dell’espansione della base occupazionale come la vera emergenza delle prossime ore, non dei sogni utopici.

    Di tutto ciò non appare traccia nel pensiero tsunamico del quale siamo stati investiti. I suicidi che hanno scosso le coscienze del Paese sono a dirci che non è più tempo di titoli e sottotitoli. Occorre prendere decisioni immediate: quali settori, quali progetti, quali risorse, quali soggetti. Fuori da questo contesto la stessa discussione sul reddito di cittadinanza rischia di concentrarci sulle conseguenze, piuttosto che sulle cause della condizione di precarietà sociale. E’ fuori dubbio che occorre dotare il Paese di strumenti universali di sostegno al reddito, ma tale misura risulta più credibile se collocata dentro una vera politica di rilancio dell’occupazione e di una riforma del mercato del lavoro che riduca, fino ad eliminarle, le disuguaglianze. Mentre quella che abbiamo ereditato dal Governo Monti non fa che aumentarle, ad esempio, proprio in relazione agli strumenti di protezione (la mini-Aspi è peggiorativa delle condizioni precedenti). Ma su questo registriamo un silenzio sospetto da parte di molti economisti.

    Sul tema della rappresentanza e del sindacato l’opinione di Gallegati è decisamente poco condivisibile e non per difesa d’ufficio, quanto per analogo distacco dell’analisi svolta dalla realtà concreta.

    Intanto, il tema della rappresentanza e della sua crisi non è questione limitata al sindacato. Anche in questo caso è quanto meno singolare il silenzio perdurante degli analisti sul fenomeno ancor più eclatante della crisi di rappresentanza, che riguarda innanzitutto il mondo delle imprese. Nel settore terziario la rappresentanza datoriale si va giorno, giorno sfaldando, favorendo dinamiche esattamente opposte a quelle virtuose che vengono immaginate nell’utopia partecipativa di cui si narra.

    Ma il vero punto di dissenso riguarda proprio l’idea dell’esaurimento della funzione sindacale quale conseguenza del superamento del bisogno di rappresentanza del lavoro. Evidentemente non si è a conoscenza dei processi reali in corso che caratterizzano la riorganizzazione di interi settori, tanto del manifatturiero, quanto del terziario. Il lavoro è sicuramente espressione di un diritto individuale, dal quale muove l’intero impianto della nostra costituzione. Ma la complessità dei processi organizzativi, indotti dalle sfide competitive sempre più estreme, rendono impossibile l’esercizio di tale diritto fuori da una capacità di rappresentanza collettiva del lavoro, in tutte le sue articolate espressioni.

    Ritenere superata la contrattazione collettiva significa sottrarre ad ogni singolo lavoratore la condizione essenziale per incardinare il proprio rapporto di lavoro ad un sistema di diritti universali. Basta orientare lo sguardo su ciò che sta accadendo da tempo in tutti i settori. Nessuno mette in dubbio l’esigenza di avvicinare la contrattazione al luogo di lavoro, ma con quale fondamento si può pensare di ritenere superata la contrattazione collettiva di primo livello in settori quali quelli degli studi professionali, o del lavoro domestico, o dei servizi in appalto, oppure nei piccoli esercizi commerciali, sempre più massacrati dallo sviluppo insensato delle grandi superficie distributive? Quale partecipazione aziendale si può immaginare in queste realtà? Quale reale capacità di autorappresentanza può esistere in questi mondi del lavoro, al di fuori di un soggetto collettivo, in grado di offrire un riferimento alla solitudine del lavoro, spesso precario?

    Ritenere superato il sindacato significa ritenere superate le ragioni per le quali il sindacato, quale soggetto collettivo di tutela, è nato! Comunque la si giri, immaginare di affidare ad una non ben precisata partecipazione aziendale l’esercizio dei diritti dei lavoratori significa semplicemente prospettare una condizione di piena subalternità all’azienda, una condizione di ricatto, che nelle fasi di crisi profonda come quella che stiamo vivendo, assume connotati ancor più violenti.

    Temo avesse ragione Susanna Camusso a domandarsi se i tanti professori che da tempo si adoperano per spiegarci come uscire dalla crisi “sanno di cosa parlano”. La verità è che il lavoro, le sue condizioni, i suoi drammi (soprattutto quando esso viene meno) da tempo non sono più all’attenzione, tanto dei vecchi, quanto dei nuovi protagonisti della scena politica. E purtroppo esso non è tema semplicemente da declamare o reclamizzare. Bisogna effettivamente sapere di cosa si parla e per saperlo bisogna frequentarlo. Il sindacato avrà pure mille difetti ed è bene che si guardi in casa, per non rimanere travolto dalla montante crisi di sfiducia. Ma resta pur sempre uno dei pochi soggetti “tirati per la giacchetta” quotidianamente. Il sindacato, quando parla del lavoro e dei lavoratori, ha cognizione di causa. Non ascoltarlo è parte della responsabilità di questa crisi.

 

GOVERNO, PRESIDENTE E DINTORNI

La situazione politica

Ma non pensate stavolta di cavarvela con un semplice "Zagrebelsky".

di Felice Besostri

Ecco si avanza la mezza candidatura del ministro Barca, un tecnico in più che sale in politica. Nel merito è meglio di Renzi, ma comunque un indebolimento di Bersani. Ci deve essere una sola linea: niente elezioni con questa legge. Senza se e senza ma.

    Siamo in attesa, tra l'altro, di due pronunce giurisdizionali della Prima Sezione della Cassazione, introitata il 21 marzo, e del TAR Lazio sez. 2 bis, introitata il 4 aprile. La degenerazione politica, istituzionale e morale del nostro paese non è disgiunta da questa legge elettorale, che ha accentuato la personalizzazione politica del capo (della lista o della coalizione di liste), il quale si crede ed è considerato un Primo ministro elettivo, mentre la nostra Costituzione prevede una forma di Governo parlamentare.

    Il Porcellum consente di candidarsi in tutte le circoscrizioni alla Camera e di nominare i parlamentari grazie alle liste bloccate. La qualità individuale dei deputati e dei senatori è progressivamente diminuita, per valutazione unanime dei funzionari parlamentari. Ma questo si desume anche dal ruolo di esecutori degli ordini impartiti ai parlamentari da chi detene il potere di nomina.

    Senza questa legge fenomeni come Grillo, Renzi e Berlusconi non esisterebbero. Per loro è quindi importante mantenerla, altrimenti non conterebbero il due di picche con briscola a cuori.

    Bersani è il meno mediatico e infatti è andato "al di sotto delle aspettative". Ci ha anche messo del suo con l'insistenza, in campagna elettorale, sull'alleanza con Monti che ha fatto perdere voti al PD e a SEL sul versante di sinistra e a Monti su quello di destra.

    Dopo le elezioni ha tenuto però una linea seria anche se doveva dar meno credito ai 5 Stelle e formulare prima la proposta di un tavolo largo istituzionale.

    In tutta Europa, in mancanza di alternative, persistendo il rifiuto grillino, una Grosse Koalition sarebbe stata l'unica soluzione per evitare elezioni con questa legge e per fare un minimo di provvedimenti economici anticiclici. Non è colpa personale di Bersani se il PD non è la SPD né è la CDU il PdL.

    In tutta Europa i deficit primari diminuiscono, ma l'indebitamento pubblico cresce perché il PIL (il "denominatore") diminuisce. E un debitore in difficoltà è meno credile, cioè paga interessi sempre più alti. La cura austerity ha aggravato il debito pubblico in Italia, ma anche in tutti i paesi "salvati"(?) dalla Grecia al Portogallo, dall'Irlanda alla Spagna e a Cipro. Basta aver pazienza.

    All'elezione del Presidente della Repubblica, con grandi elettori nazionali e regionali non ispirati dallo Spirito Santo, la politica mostrerà il peggio di sé, temiamo: intrighi, inciuci, imboscate, trappole, convergenze pattuite un minuto prima delle votazioni decisive, e con quanta lungimiranza si sa già. Dopo il dicembre 2010 anche compravendita di voti non può escludersi.

    Vogliamo capire che è un'anomalia tutta italiana quella di avere un'elezione senza candidati?! Solo Emma Bonino, al tempo della sostituzione di Scalfaro, si candidò.

    Per chiudere con un dettaglio curioso: i casi di omonimia. Quando fu eletto Carlo Azeglio Ciampi, un suo competitor era Nicola Mancino. Ma sapete quanti Nicola Mancino con più di cinquant'anni figuravano allora iscritti alle liste elettorali? Così anche i Carlo Ciampi non mancavano. Solo Carlo Azeglio era l'unico a chiamarsi così. Ma raramente i parlamentari scrivono nome e cognome del prescelto.

    Quindi, non pensate stavolta di cavarvela con Zagrebelsky. I requisiti per essere eletto Capo dello Stato, oltre che il più noto Gustavo, li possiede senza dubbio anche il fratello Vladimiro Zagrebelsky, che starebbe ottimamente al Colle non da ultimo per la sua esperienza di Giudice della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo.

 

IPSE DIXIT

Un aggettivo piacevole all'orecchio - «Unitario è un aggettivo piacevole all'orecchio e perciò molto usato. In politica esso serve a mascherare il contrario, e così un gruppo di uomini che si organizza per provocare una scissione nel proprio partito. . . non si chiamerà mai e poi mai gruppo scissionista, ma volentieri e di preferenza, gruppo unitario.» – Ignazio Silone

Suspense - «Questa suspense è terribile... spero che duri.» – Oscar Wilde

 

mercoledì 3 aprile 2013

Vendola, il Socialismo europeo e la questione socialista in Italia

Le idee

"Penso che questo è il tempo in cui dobbiamo entrare come componente caratterizzata da una forte propensione ecologista e libertaria, dentro il Partito del Socialismo Europeo", ha detto recentemente Nichi Vendola, accendendo tante speranze. Bene. Ma occorre fare i conti con la questione del socialismo, e del socialismo italiano.

di Paolo Bagnoli

Nei vari luoghi in cui si articola, oggi, la dispersa presenza dei socialisti in Italia, la relazione che Nichi Vendola ha tenuto l’11 marzo scorso alla presidenza di SEL ha intrecciato un dibattito serrato, soprattutto perché un accenno alla possibile adesione al PSE ha riacceso la speranza di avere, o riavere, dopo un travaglio di tanti anni, finalmente, in Italia un soggetto socialista di sinistra. E che si arrivi ad averlo in un tempo non biblico è l’aspirazione di molti, compreso, naturalmente, di chi scrive. E’ logico, quindi, che i portatori di una tale sensibilità stiano con le orecchie aperte a tutto quanto suona, o sembra suonare, in tale direzione.

    Ora, si tratta di una questione che investe non tanto la suggestione del ricordo, ma la vicenda stessa della sinistra in Italia, anch’essa da ricostruire, e, con essa, quella della democrazia, della “nozione sociale” che alla sinistra è propria e che è, in buona ragione, quella stessa della democrazia costituzionale.

    Poiché la questione sociale è estremamente seria e poiché su di essa l’azione del governo Monti ha scatenato una furia distruttrice, per tutto ciò occorre esaminare l'intera cosa con attenzione, senza pregiudizi, senza pretendere di avere la soluzione a portata di mano, senza nascondersi le difficoltà, ma nemmeno le questioni così come stanno, se vogliamo che il dibattito innestato dalla relazione di Vendola non rimanga uno dei tanti. Occorre capire bene e andare a fondo; perché, insomma, sia un fatto politico e non un episodio di politique politicienne.

    Vendola è un uomo politico pieno di cultura e di intelligente ragionamento; uno di quelli, dei pochi forse, che in accordo o in disaccordo, va preso sul serio. La relazione ce lo conferma e, va detto, che, pur se certi passaggi ci sono sembrati non molto chiari, complessivamente non si nasconde nel gioco verbale delle formule; che non nasconde, con onestà intellettuale, le luci e le ombre, a cominciare da quelle che gravano sul partito di cui è leader. Intanto perché relativizza l’esperienza del proprio movimento – “noi siamo una parte del problema e non la soluzione del problema” – perché denuncia lucidamente i ritardi della sinistra europea e, soprattutto, quando si dilunga sul partito democratico – vero riferimento dialettico di tutto il suo ragionamento – cercando di chiarire l’irrisolutezza di SEL rispetto al “riformismo del partito democratico e il radicalismo alla nostra sinistra (…) miopi nella stessa identica maniera.”

    La ventilata adesione al PSE, se non teniamo conto di questo passaggio, perde come di senso. Il suo ragionamento, tuttavia, è tutto condizionato dalla situazione di chi, in effetti, si sente alla stregua di una sinistra “esterna” al Pd e non perché si tratti di un’altra formazione, ma in quanto funzionale, in certo modo, al partito democratico, potendo dire cose di sinistra che il PD non può dire e del quale questi non può non tener conto per motivi di alleanza.

    Quanto siffatto meccanismo abbia funzionato lo si è visto quando Bersani ha ritenuto di opporsi alle richieste di Monti. Che in politica ci possano essere dei giochi articolati è normale; quello che ci sembra di rilevare è che SEL si è, sostanzialmente, molto pensata in funzione del PD. Vendola non lo ha peraltro nascosto quando ha detto: "dobbiamo partire dal fatto che la crisi importante del partito democratico coincide con la nostra crisi, cioè la nostra ipotesi è quella di una sinistra di governo capace di partire da qui, dall’Italia, per far massa critica e rimettere insieme un fronte dei progressisti in Europa."

    Si tratta di un passaggio impegnativo e rivelatore poiché esso presuppone il PD quale forza di sinistra, tanto che la crisi di questo e quella di SEL vengono rappresentate come due vasi comunicanti intrecciati dentro l'almanacco leopardiano dei progressisti, categoria vaga e indefinita che forma un “fronte” che sembra oggi prendere il posto di quello che nell’ieri prossimo erano riformisti.

    Noi, nel ragionamento di Vendola, riscontriamo un vuoto di autonomia, ossia di capacità di pensare SEL indipendentemente dal PD. Il senso dell’autonomia è fondamentale ai fini della rinascita socialista e della sinistra quale soggetto di massa. Naturalmente, non vi è nulla di scandaloso e di improprio nell’allearsi da sinistra con il PD. Ma chissà poi cosa avrà pensato Vendola dei "progressisti" dopo i tanti voti di questo schieramento mancati a Laura Boldrini nell’elezione a presidente della Camera.

    Vendola, inoltre, nell’esaminare lo scenario complessivo, non ha timore a dire che “si è esaurita una storia, sia la nostra sia quella del partito democratico” in quanto “si è esaurito un ciclo, si è esaurita una fase.”

    Come dargli torto. Non si può che condividere; bisognerebbe aggiungere che il problema più grande del PD sta nel fatto che non è mai riuscito a essere un “partito”, anzi ne è impossibilitato, sicché la sua tenuta, già in condizioni d'instabilità, sembra ora molto a rischio. Che la sua fase si sia chiusa, non c’è dubbio, Vendola ha ragione.

Non potendo parlare, come noi, d’incapacità del PD a essere un partito, Vendola ha declinato questa incapacità come si addice a un leader, per lo più alleato: "I partiti non nascono in laboratorio, non sono delle creature che nascono in provetta; si fanno nella società, nel vivo della contesa, nell’organizzazione degli interessi delle culture.” Verissimo. E ciò vale anche per la questione socialista in Italia.

    Poi si giunge al punto nodale. In tutta la sua relazione, così come a suo tempo nel programma del partito, la parola "socialismo" non compare. Naturalmente, non era obbligatorio farla comparire. Se Vendola non l'ha fatto, però, ciò vuol dire che per lui questo non è un problema, a differenza di noi. Si lascia intravedere un altro fine che ha nella formula “casa dei progressisti” il suo approdo poiché – sono parole da soppesare – “dobbiamo essere capaci di parlare al paese e di parlare al partito democratico parlando al paese.”

    Da qui la frase che ha acceso tante speranze socialiste: ”Penso che questo è il tempo in cui dobbiamo entrare come componente caratterizzata da una forte propensione ecologista e libertaria, dentro il Partito del Socialismo Europeo.”

    Allora, se proviamo a rimettere tutto in colonna, ci sembra che le cose stiano così. Il non successo elettorale del centro-sinistra chiude sia la fase di SEL che quella del PD, destinato a lacerarsi in un prossimo futuro. Ed è proprio tale crisi a togliere la ragione di SEL che è stata sì l’unica sigla di una sinistra visibile né “riformista” né “radicale”, ma in funzione di trattenere aperto uno spazio per allargare quello del possibile centro-sinistra giocoforza centrato sul PD.

    Forza per lo più residuale e sostanzialmente tattica, SEL al di là di idealità rispettabili e pure talora condivisibili non ha nemmeno essa la fisionomia del partito, cioè quel profilo autonomo – cultura, identità, idealità spiccate, un ruolo storico preciso e un insediamento sociale vero – che fa diverso un partito da un movimento.

    Per sopravvivere in qualche modo alla propria esperienza, SEL ha necessità di sganciarsi dal passato cercando una collocazione. Nel caso questa collocazione è il PSE dove è ormeggiato, peraltro, anche il PD pur non essendo una forza socialista. Anche dell’Internazionale può fungere da “sigla contenitore” non esclusiva in cui ritrovare il PD che a sua volta, se si frantumerà, troverà SEL pronta a costruire la richiamata “casa dei progressisti”.

    Questo ci sembra il verso del salmo, quello finale, che può essere pensato, ma non scritto.

    Bene. Ma il socialismo che c’entra? Vendola non dice mai, né meno fa capire, di volere mettere la nuova fase del suo movimento applicata a un disegno ricompositivo e largo del socialismo italiano. Il pensiero non lo sfiora lontanamente. E se i postcomunisti avessero voluto andare in questa direzione, sia nella versione PDS-DS sia nella derivazione bertinottiana, le occasioni non solo non sarebbero mancate, ma non sarebbe nato né SEL né il PD.

    In un paese che vira oltraggiosamente a destra e nella “non-politica”, anche una generica “casa dei progressisti” non è certo da disprezzare; ma la questione del socialismo è altra e ben più complessa cosa. È significativo che poi l’auspicata “casa dei progressisti” avvenga dentro il contenitore del socialismo europeo dimostra che l’unico soggetto storico cui, chi si dichiara progressista, possa fare riferimento non può che essere quello del socialismo. Ma questo non significa che i "progressisti" per ciò stesso si sentano socialisti.

    D’altro canto, anche al parlamento europeo esiste un gruppo dei socialisti e dei democratici, e non perché i socialisti europei siano diventati “democratici italiani”, ma solo in quanto i deputati dei vari partiti socialisti hanno fatto un gruppo con quelli del PD presente in Italia. Con ciò gli uni non sono divenuti gli altri né viceversa. Quindi è evidente che una tale vicinanza è significativa, ma non risolutiva della questione socialista italiana.

    In Italia il socialismo non esiste come forza organizzata, ma esistono tanti luoghi socialisti variamente articolati e talora tra loro raggruppati. Forse sarebbe giunta l’ora di vedere, con una visione larga del problema, senza escludere nessuno di coloro che vogliano parteciparvi, compreso il partitino di Nencini, se non sia giunto il momento di darsi appuntamento in una convenzione socialista nazionale per iniziare un cammino che dalle tante sparse membra punti a fare un corpo. Nel caso sarebbe certamente importante sapere se Vendola e il suo movimento – nel quale militano diversi socialisti – volesse divenire uno dei protagonisti di questo processo.

    Se davvero una fase si è chiusa, come ha detto Vendola, quella della “casa dei progressisti” può certo essere una fase nuova, ma punta ancora sul PD, non sul socialismo. Mentre sarebbe importante vedere un’unica lista in occasione delle prossime elezioni europee; non una lista di "socialisti più qualche altra cosa"; bensì nella lista di una soggettività autonoma.

    Magari all’inizio del cammino potremmo pensare a un “movimento del socialismo italiano” che raccolga in forma federata gli aderenti, ma che, senza equivoci di sorta, sia marcato da un'esplicita intenzione socialista quale primo passo politico che si sviluppi per ridare al movimento operaio italiano, alle forze del lavoro tutte, alla democrazia e al progresso del paese il suo soggetto storico. Non si tratta di rifare il vecchio PSI, ma di riagganciare in modo chiaro la storia nel segno di un’esperienza che non può essere cancellata dal suicidio craxiano; magari riflettendo sulle parole di Filippo Turati per il quale il socialismo non era né riformismo né progressismo, bensì "rivoluzione sociale".

 

Sinistra, mobilitati contro le diseguaglianze!

Parliamo di socialismo

a cura della Fondazione Pietro Nenni

http://fondazionenenni.wordpress.com/



Fausto Bertinotti e Giuseppe Tamburrano hanno discusso dell'ultimo libro di Piero Sansonetti La sinistra è di destra: "Ora la mia vera ambizione è che la destra diventi di sinistra", con questo esilarante auspicio Sansonetti conclude l'evento organizzato dalla Fondazione Nenni presso Feltrinelli di P.zza Colonna. Un successo.


Il problema maggiore, secondo, uno dei protagonisti della seconda repubblica, Fausto Bertinotti, e che "la sinistra non ha mai fatto i conti con il passato", e soprattutto "oggi in Europa una sinistra socialista non c'è più da quando ha perso la sua autonomia, quando nel 1983 nella Francia socialista di Mitterand (che ha realizzato un programma realmente socialista) lo SME mette alle spalle la Francia con una politica di rigore, (come sta succedendo oggi). Da quel punto la sinistra in europa diventa unicamente legata alla scelta di andare al governo".

    Parlando del fenomeno Grillo, l'ex presidente della Camera, ha sottolineato come "il Movimento cinque stelle fa il lavoro della sinistra ed ha raccolto le istanze di critica che una volta la sinistra faceva al sistema economico e sociale che oggi diventano critica al sistema politico".

    La sinistra va rifondata liberandola dai fantasmi del passato perché oggi "È più probabile che delle risposte arrivino dal papa Francesco piuttosto che dalla sinistra" .


Tamburrano ha evidenziato come Polito, nel suo recente libro, presenti una tesi opposta a Sansonetti, cioè che non esiste la destra. Secondo il Presidente della Fondazione Nenni, il problema è a monte "il capitalismo è da anni in crisi e la sinistra è immobile, anzi si è spostata al centro, questo è il vero tema" .

    Tamburrano infine ha sottolineato che la sinistra si deve mobilitare contro le diseguaglianze economiche e sociali e ha voluto ricordare le grandi battaglie del Psi di Nenni, la positiva esperienza del centro sinistra negli anni 60′, lo statuto dei lavoratori, le regioni, la scuola unicae la nazionalizzazione dell'energia elettrica.

    L'autore del libro Sansonetti ha ribadito la sua tesi espressa nel libro che "Il cambio di pelle della sinistra è avvenuto negli anni 80′ quando il reganismo è entrato nella sinistra". Oggi, secondo l'ex direttore di Liberazione "c' è più reganismo nel pd che nel partito repubblicano americano."

    Dopo un vivace dibattito con un pubblico partecipe, Sansonetti ha chiuso la serata con un esilarante auspicio: "La mia vera ambizione è che la destra diventi di sinistra".