giovedì 17 aprile 2014

Minsky tra Pechino e Berlino

Da CRITICA LIBERALE

riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il modello sino-tedesco prepara il prossimo crack?

di Giovanni La Torre

A breve distanza uno dall’altro sono apparsi su autorevoli media internazionali due articoli alquanto preoccupati, e preoccupanti, sulla situazione economica cinese. Il primo è apparso il 3 aprile sul sito del New Yorker, autorevole rivista americana, con il titolo “La Cina sarà la prossima Lehman Brothers?”, il secondo sul Financial Times del 10 aprile con il titolo “La Cina è nervosa per i dati commerciali”. La preoccupazione del FT si basa sul dato relativo al commercio internazionale: a marzo le esportazioni cinesi sono calate del 6,6% e il dato fa seguito al calo del 18% di febbraio. Come è noto il commercio internazionale è stato il motore principale della tumultuosa crescita di quella che è oggi la seconda economia mondiale e si appresta a essere la prima entro un paio di decenni (ma per il Pil totale non per il reddito pro capite). Quello che però normalmente si considera meno è il contributo che la crescita cinese ha dato all’intera economia mondiale, dato che ha alimentato anche una considerevole corrente di proprie importazioni. Ebbene anche queste sono calate dell’11,3%. Nel corrente anno si prevede una crescita del Pil di solo il 7,4%. Lo so che fa ridere definire “solo” una crescita del 7,4%, visto che noi europei ci siamo abituati in questi ultimi anni a cifre molto più misere, se non addirittura negative, ma la potenza asiatica viaggiava a tassi di crescita a due cifre, tant’è che il dato di quest’anno sarà il peggiore dal 1990, e segue il già “scarso” 7,7% del 2013. Molte volte sono le “variazioni” più che i dati assoluti a determinare shock pericolosi, a invertire le aspettative e provocare pericolosi avvitamenti.

Il New Yorker invece basa la sua preoccupazione sul rischio di esplosione della bolla immobiliare e sul livello di indebitamento dell’economia cinese. L’economia cinese si starebbe pericolosamente avvicinando al “Minsky moment”, dal nome dell’economista keynesiano che ha studiato le crisi finanziarie. Cioè il momento in cui le autorità e il mercato avvertono che c’è una bolla in atto e cominciano a tirare i remi in barca, ma questo gesto diventa la scintilla per far deflagrare il tutto. Anche in Cina si è assistito alla crescita del “sistema bancario ombra”, che in gennaio ha ancora erogato finanziamenti per 160 miliardi di dollari, ma in febbraio ha praticamente azzerato il flusso. Il livello di indebitamento dell’economia cinese, l’altra faccia del boom immobiliare, che era pari al 125% del Pil nel 2008, è arrivato al 200% nel 2013 (l’indebitamento del settore pubblico sarebbe solo del 45%). Insomma la situazione cinese somiglierebbe sempre più a quella dell’Arizona, della Florida e del Nevada del 2007. Le autorità e i media cinesi si mostrano sereni e avvertono che la situazione è sotto controllo, e lo stesso livello del debito pubblico dovrebbe spingere a considerazioni più tranquillizzanti … Ma potrebbero dire altro?

Più vicini a casa nostra notiamo che la Germania nel 2013 ha registrato una stasi nelle esportazioni (nelle importazioni meno 1%) e questo ha fatto sì che il Pil sia cresciuto solo dello 0,4% (0,7% nel 2012) mentre nel 2010 era cresciuto del 4% e nel 2011 del 3,3%. Anche in questo caso è il trend che va considerato.

Entrambe le situazioni sono il frutto di sistemi economici cresciuti, scientemente, su uno squilibrio: la crescita attraverso il commercio estero, cioè attraverso un meccanismo che non rimette in circolo la ricchezza prodotta, o meglio che la rimette solo fino a quando il resto delle economie sono in grado di assorbire le loro esportazioni, cosa questa che non può avvenire in eterno…

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La situazione politica - Primavera nuova - tentazione vecchia

Rispondere alla crisi della democrazia con il restringimento

della medesima ci pare cosa molto preoccupante

di Paolo Bagnoli

Insieme alla primavera è arrivata la stagione delle riforme; il presidente del consiglio le ha addirittura calendarizzate. Tra queste, quella sicuramente più in esposizione, riguarda la fine del bicameralismo perfetto, con la conseguente abolizione del Senato qual è oggi, e la sua sostituzione con una Camera delle autonomie.

Vedremo, naturalmente, come andrà a finire, considerato che la strada non è così agevole come la si rappresenta.

Riteniamo che fare del Senato l’emblema da abbattere per avviare il percorso di salvataggio del Paese non solo sia sbagliato e demagogico, ma solleva pesanti e fondati dubbi di merito. Qui vorremmo solo evidenziare due questioni.

La prima: se in Italia il costituente previde un tale ordinamento una ragione ci sarà, ma nessuno si domanda se essa abbia ancora oggi una qualche validità; noi crediamo ce l’abbia.

La seconda: si può ritenere che, in un contesto generale di ridisegno della statualità italiana sia doveroso discuterne, non certo per il motivo meschinamente fasullo dei costi. Ci domandiamo: una democrazia, abolendo e restringendo gli spazi della rappresentatività –questione che investe anche le Province – può ritenersi più forte e meglio funzionante? Crediamo di no.

Ci sembra che per la Repubblica italiana si stia aprendo un terreno molto scivoloso alla cui fine non solo l’espressione della sovranità popolare rischia di vedersi largamente limitata, ma praticamente abolita e relegata, sempre che non si proceda a cambiamenti anche in tutti gli ambiti della rappresentanza, dai comuni e alle regioni.

Vediamo: gli eletti provinciali spariscono, il Senato delle autonomie, nella composizione prevista, non è formato da eletti per quell’incarico e, per quanto concerne la Camera, si pensa a una legge con ancora le liste bloccate; ossia con i deputati eletti come ai tempi del Porcellum, sia pure con diverso meccanismo tecnico.

Ecco il dato di fondo; quello politicamente complessivo, fermo restando che obiezioni sulla legge elettorale per la Camera investono seriamente anche il previsto premio di maggioranza che è, come nella legge Calderoli, una vera e propria vergogna, l'uno non meno anticostituzionale dell’altro.

Così, nell’Italia del nuovo governo, avremo un Parlamento – Camera e Senato delle Autonomie – sostanzialmente deficitario relativamente al principio fondante della democrazia per cui il popolo è sovrano e, in virtù di tale sovranità, elegge i propri rappresentanti.

Ci sembra che, rispondere alla crisi della democrazia, con il restringimento della medesima sia molto, ma molto, preoccupante.

Ci pare, altresì, implicito che con il bipolarismo forzato di coalizione arriverà pure – già se ne sente parlare – la ripresa del tema berlusconiano dei maggiori poteri al presidente del consiglio. Tornerà la ripresa di un tema specifico di Silvio Berlusconi il quale, a fronte della manifesta incapacità nel guidare il Paese, sosteneva che per poter governare l’Italia, occorrevano al premier ben più ampi poteri.

Tali aspetti non sono certo di secondo piano, ma non registriamo né dubbi né una qualche opposizione. Ce lo saremmo aspettati, pur apprezzando l’iniziativa – spregiativamente rigettata come necessità di mettersi in evidenza – di Vannino Chiti.

Siamo, cioè, un po’ stupiti dall’atteggiamento complessivo degli ex-comunisti, provenienti cioè da un partito che aveva fatto della centralità del Parlamento un punto fermo. Al Pci va dato atto, infatti, di essere sempre stato molto sensibile alle questioni di natura istituzionale.

Il ciclone Renzi li sta travolgendo e non riteniamo che sarà la recente riunione dei cuperliani a cambiare il tavolo della discussione. Poi, evidentemente, si tratta di vedere il decorso delle cose. Inoltre, se vogliamo mettere i puntini sulle i, non è nemmeno che Renzi travolga la sinistra poiché essa non c’è più da un bel periodo di tempo.

I sondaggi dicono che oggi il voto operaio, cui il Pci attingeva in maniera consistente, quando non ingrossa l’astensionismo, vaga tra la Lega e i grillini.

Renzi, con spregiudicata intelligenza, ha recuperato un Berlusconi che sembra stare in maggioranza seppure non nel governo e pensiamo che proprio l’area in disfatta del berlusconismo costituisca la grande riserva cui attingere consensi per il Pd. La qual cosa non deve stupire poiché risultava evidente, fin dall’incontro famoso tra i due, che in entrambi staziona una medesima idea di questo Paese.

Una cosa di sinistra, diciamo così, Renzi l’ha fatta, portando il Pd nel Pse; operazione consumatasi in poche ore dopo che gli ex-comunisti vi si erano attorcigliati per vent’anni: è stato bravo. Ma…

Ma tutto conferma una nostra vecchia preoccupazione; ossia che lo sbocco della crisi del Paese, al saldo delle questioni economiche e sociali, difficilmente sembra sfuggire a un approdo autoritativo.

 

IPSE DIXIT

Sempre tradotte - «Le sconfitte dei partiti maggiormente rappresentativi della sinistra si son sempre tradotte in un arretramento delle condizioni di vita delle classi popolari, anche quando abbiano transitoriamente favorito partiti più radicali.» – Felice Besostri

Indovina chi è questo - «Mi hanno proposto un'alleanza, ma loro sono morti! Non hanno capito di avere a che fare con qualcosa di completamente diverso da un partito politico... Abbiamo una nazione economicamente distrutta... la classe media in ginocchio, le finanze agli sgoccioli, milioni di disoccupati... Loro ci confondono, pensano che siamo come loro. Noi non siamo come loro! Loro sono morti, e noi vogliamo vederli tutti nella tomba... Loro non capiscono che questo movimento è tenuto insieme da una forza inarrestabile che non può essere distrutta... Noi non siamo un partito...». – Dal discorso realmente tenuto a Gottinga nell'agosto del 1932 da Adolf Hitler, sei mesi prima di conquistare il potere in Germania.

 

Parliamo di socialismo - Il passato ritorna?

FONDAZIONE NENNI

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Il leader Massimo, “rottamato” da Renzi, torna ora in campo alla testa del PD che non si riconosce nel suo segretario…

di Giuseppe Tamburrano

Il leader Massimo “rottamato” da Renzi torna in campo alla testa del PD che non si riconosce nel suo segretario. E rimprovera a Renzi di non capire che si trova alla testa di un partito che non è nato dal nulla, che ha una storia, ha avuto una identità, dei valori. E sembra che con Bersani e Cuperlo vogliano far nascere una corrente antirenziana che dovrebbe attingere al patrimonio della sinistra

Certo il governo del segretario del PD che sta in piedi grazie alla fiducia di Berlusconi fa impressione e dimostra la volubilità menzognera della politica “arte del possibile”.

Certo, questo D’Alema che definì tempo addietro Gramsci un “liberista”, manager superpagati “capitani coraggiosi”, questo D’Alema che riscopre le proprie origini, il patrimonio della sinistra di cui è stato il principale liquidatore, si rivela un allievo più che del Machiavelli, del machiavellismo. Lui che spiega al suo segretario che il PD non è res nullius, un contenitore, ma un insieme di valori ed esperienze ha sulla coscienza di non aver fatto quel che cominciò appena a fare, e cioè di rifondare tutta la sinistra in una “cosa due”, sintesi e rinnovatrice dei valori della sinistra ex comunista e socialista.

Ricordo quel che disse D’Alema alla presentazione promossa dalla Fondazione Nenni dell’ultimo libro dell’indimenticabile compagno De Martino: certo la mia, la nostra posizione è singolare: in Europa siamo socialisti, ma quando l’aereo attraversa le Alpi, in Italia siamo un’altra cosa.

Vuole D’Alema, il cui partito va alle elezioni europee col simbolo del Partito socialista europeo, tornare alla “cosa due”? La prima volta io non vi entrai e i socialisti rimasti tali vi restarono ben poco. Questa volta sarei il primo a prendere la tessera.

Per favore, non definitemi ingenuo, ma sognatore.

 

Da MondOperaio

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Riformismo polisemico

di Danilo Di Matteo

Dall’assemblea romana della minoranza Pd sono emerse delle parole d’ordine: “sinistra”, “pensiero”, “riformisti”, “territorio”. Il termine “riformista”, in particolare, va accentuando una sua caratteristica riscontrabile ormai da decenni: la polisemia. Secondo l’accezione di Cuperlo, D’Alema, Bersani, Fassina e altri, ad esempio, esso sembra indicare un approccio volto al cambiamento graduale nell’ambito di una “tradizione” di sinistra.

Tante volte e in vari contesti ho sottolineato l’importanza della tradizione proprio al fine dell’innovazione, citando ad esempio il Labour britannico. Secondo la declinazione di quegli esponenti dem, però, il riformismo parrebbe indicare un modo di procedere secondo metodi, forme e tempi a loro modo interni a una prassi consolidata.

L’innovazione perseguita dal nuovo corso di Renzi vorrebbe invece adeguare i ritmi della politica a quelli della società e dei problemi. Non si tratterebbe di una “fuga”, bensì di porre rimedio al cronico ritardo dei gruppi dirigenti e della sinistra rispetto alla realtà.

Riguardo poi alla proposta della minoranza Pd di dar vita, dal “basso”, a “circoli della sinistra”, un’occhiata superficiale porta a scorgervi un margine di ambiguità. Da un lato si pone l’accento sull’esigenza di rivitalizzare il partito sul territorio, di organizzarlo meglio; dall’altro viene forse evocata un’atmosfera già nota: quella dei “cantieri” e della “sinistra dei club”.

 

 

Da Avanti! online

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Kiev a un passo dal baratro

L’Ucraina si avvicina, pericolosamente, alla guerra civile.

Dopo gli ultimatum degli scorsi giorni lanciati dal governo di Kiev nei confronti degli insorti filorussi che occupano i palazzi del potere in varie aree del paese, passati inascoltati e senza conseguenze, questa volta il presidente Oleksandr Turchynov ha deciso di fare sul serio.

Già dalle prime ore di martedì, le autorità ucraine hanno lanciato un’operazione antiterrorismo nel nord della regione orientale di Donetsk. Colonne di blindati si sono mosse in direzione della di Sloviansk circondando la città dove insorti filo Mosca, che si dice siano coordinati da un ufficiale russo, sarebbero barricati nelle stazioni di polizia intenzionati a resistere.

Sono ben nove le città dell’est dell’Ucraina ancora controllate dalle milizie filorusse, dopo che i manifestanti hanno preso il controllo di edifici amministrativi e della polizia. Nonostante gli avvertimenti di Kiev, i dimostranti hanno fortificato le loro posizioni erigendo nuove barricate.

E non sono mancate le prime vittime: le forze ucraine, infatti, hanno attaccato l’aeroporto militare di Kramatorsk, preso pochi giorni prima, e quattro esponenti filorussi sono morti, mentre altri due sono rimasti feriti. Un escalation che secondo il premier russo, Dmitri Medvedev, è da interpretare come il segnale che l’Ucraina «è sull’orlo di una guerra civile».

Secondo Medvedev «l’unica via per andare avanti è quella del dialogo con tutte le regioni ucraine», dialogo che deve vedere, secondo il leader russo, un maggiore coinvolgimento da parte della comunità internazionale rispetto alla soluzione dei problemi economici dell’Ucraina, soprattutto per quello che riguarda il saldo dei debiti energetici di Kiev verso Mosca che ammonta a circa 2,2 miliardi di dollari.

Proprio la difficile situazione dell’economia si somma allo scenario già difficile dal punto di vista politico e della sicurezza: a causa dell’incertezza, infatti, molti ucraini hanno svuotato i propri depositi bancari per assicurarsi disponibilità di contante in caso di necessità. La banca centrale, in risposta, si è vista costretta a alzare i tassi di interesse dal 6,5 per cento al 9,5 per cercare di rallentare la galoppante svalutazione della moneta nazionale causata dalla conversione di massa in valuta forte come il dollaro e l’euro. Un meccanismo perverso che ha innescato una inflazione in rapida crescita con il conseguente aumento del costo delle merci di importazione, ulteriore elemento di critica da parte dei residenti filorussi che accusano il neo-governo di Kiev di incapacità nella gestione dell’economia.

Insomma, nonostante le rassicurazioni del presidente Oleksandr Turchynov, che in parlamento ha parlato di una manovra per la ripresa del controllo delle aree insorte condotta «gradualmente» e «in maniera equilibrata e responsabile», l’Ucraina sembra inesorabilmente incamminata sulla strada della guerra civile. Con l’aggravante che, se ad appoggiare i filorussi c’è Mosca, dietro Kiev potrebbe non esserci nessuno.

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mercoledì 9 aprile 2014

Parliamo di socialismo - I custodi del Tempio Democratico

FONDAZIONE NENNI

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di Luciano Pellicani

Il 2 aprile è stato presentato, a Milano, un numero speciale della rivista “ParadoXa” dedicato alla “Repubblica di Sartori”. Una iniziativa particolarmente opportuna in questo momento della vita politica nazionale, caratterizzato dalla centralità delle riforme costituzionali. Un tema assai caro a Sartori, al quale ha dedicato numerosi saggi.

In essi si trova una lucida diagnosi-terapia dei mali che affliggono la nostra democrazia. Il primo dei quali è il bicameralismo perfetto: un residuo del passato di cui la più parte delle democrazie consolidate – quella inglese, in primis – si sono liberate. Il secondo difetto che appesantisce gravemente il processo decisionale della Repubblica è il suo specifico assetto costituzionale. Dominato dalla “paura del tiranno”, il Costituente fu più preoccupato di impedire la concentrazione del potere nelle mani di un uomo che di garantire la governabilità del Paese. Conseguentemente, adottò un modello parlamentare a-cefalo. Ma una democrazia funzionante è un sistema di produzione di decisioni imperative permanentemente impegnato a rispondere positivamente alle domande – articolate dai sindacati e aggregate dai partiti – di una cittadinanza sempre più esigente a motivo della rivoluzione delle aspettative crescenti. Il che, poi, significa che il sistema liberal-democratico ha bisogno di una forte leadership. Che è esattamente quello che manca alla Repubblica, il cui capo di governo è solo un primus inter pares, cui spetta – come recita l’articolo 95 ella Carta Costituzionale – solo la funzione di promuovere e coordinare l’azione dei ministri.

La conclusione di ordine generale alla quale Sartori – dopo una puntuale analisi comparata dei sistemi politici democratici – è giunto è che “il governo parlamentare funziona (o funziona meglio) quando la sua denominazione è maledetta, vale a dire quando il Parlamento non governa, quando gli viene messo la mordacchia. Detto altrimenti, il parlamentarismo che funziona non è mai un parlamentarismo puro che incorpori pienamente il principio della sovranità del Parlamento. Piuttosto, il parlamentarismo funziona quando le sue ali vengono tarpate, quando acquista una forma semi-parlamentare. Paradossalmente (ma non troppo), meno un governo è genuinamente parlamentare, e meglio rende”.

Una conclusione, quella di Sartori, che sembra essere alla base della riforma costituzionale che Matteo Renzi ha in animo di realizzare. Obbiettivo dichiarato: elevare le capacità di problems solving della democrazia italiana eliminando il bicameralismo paralizzante e rafforzando il potere del capo di governo. Il tutto tenendo presente l’esperienza delle democrazie funzionanti, nelle quali l’Esecutivo è messo in condizione di governare il cambiamento.

La reazione degli intellettuali che si sono autoeletti Custodi del Tempio Democratico non si è fatta attendere. Ed è stata, more solito, violentissima.

Sul “Fatto Quotidiano” è apparso un Appello – firmato, fra gli altri, da Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky –, nel quale la riforma costituzionale di Renzi è stata bollata come un subdolo attacco contro i valori che sono alla base della Repubblica [vedi l’appello qui sotto, ndr]. Il suo intento, infatti, sarebbe addirittura quello di creare “un sistema dittatoriale che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali”. In aggiunta, il Documento afferma, apertis verbis, che il segretario del Pd avrebbe in mente di realizzare quello che Berlusconi ha sognato : “una democrazia plebiscitaria …che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare”.

Giustamente, sulle colonne del “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia ha stigmatizzato la faziosità degli estensori del Documento, nonché il fatto che essi hanno ignorato, con la più estrema arroganza, decenni di studi, di discussioni e di lavori parlamentari.

Ma c’è di più. C’è che Rodotà e Zagrebelski hanno dato l’ennesima prova che essi si dicono liberali, ma, in realtà, sono dei giacobini, animanti – come tutti gli autentici i giacobini – dalla pretesa di incarnare la Virtù e, di conseguenza, sempre pronti a demonizzare chi la pensa diversamente.

 

La situazione politica - Francia amara, ma chiara

Per chi ama le cose chiare il risultato delle elezioni municipali francesi semplifica la vita. Qui analizziamo il voto al primo turno, i cui esiti sono stati sostanzialmente confermati dal ballottaggio.

di Felice C. Besostri *)

Il PS è stato sconfitto e in modo cocente anche se il 30 Marzo potrebbe limitare i danni, con alleanze per il secondo turno con EELV (Ecologisti Europei-I Verdi) e il Front de la Gauche. Con i primi è più facile, poiché erano già alleati alle legislative. L’apporto ecologista, tra l’altro, appare più consistente di quello del FdG. A Parigi l’EELV 8,86% > 4,94% FdG, lo stesso a Lione, anche se con scarto più ridotto 8,9%>7,56%. Nelle grandi città fa eccezione Marsiglia perché PS e EELV si sono presentati uniti con Patrick Mennucci fin dal primo turno con un risultato rovesciato rispetto alle previsioni: un miserabile 20,77%, che lo colloca al terzo posto, dietro il Sindaco uscente di destra, J. C. Gaudin (37,64%) e il candidato FN (23,16%). A Parigi la sinistra (PS-EELV-FdG) supera di poco il 48% a fronte di un 43% del blocco di destra, a Lione l’inossidabile Collomb conta sul 52,22 al primo turno ed è favorito dalla triangolare. Gli elettori del FN non fanno tattica e non hanno interesse a favorire la destra e quindi si manterranno alle 229 triangolari di città medie ed importanti cui sono stati ammessi per la prima volta.

In 17 città superiori ai 10.000 abitanti il FN è il primo partito. In termini di voti assoluti la vittoria del FN è oscurata dal fatto che si è presentato nella minoranza delle municipali, in quanto è ancor un voto di opinione e non è strutturato diffusamente sul territorio. Queste municipali saranno l’avvio di un maggiore radicamento. Il Partito Socialista ha sempre avuto nei municipi i suoi bastioni anche quando era in difficoltà sul piano nazionale, per questo è una sconfitta, che colpisce il Partito nel cuore. La sconfitta era messa in conto, ma non la sua dimensione: è la Presidenza Hollande e le delusioni seguite alla sua trionfale elezione del 2012, che gli elettori hanno punito in 2 modi, con l’aumento dell’astensione, raddoppiata in 30 anni dal 1 su 5 del 1983 ai 2 su 5 di quest’anno (38,7%), cioè un 5% in più di quando erano 1 su 3 nel 2008 e con il voto al FN.

Nel panorama delle sconfitte alcune sono simboliche. Le Monde si apre con una foto di Marine Le Pen, presidente del FN e Steeve Briois, segretario generale del FN, candidato sindaco eletto al primo turno a Hénin- Beaumont. Questa cittadina del Nord Pas de Calais, una delle culle del movimento operaio e socialista, dal 1919 al 1940 ha sempre avuto uno stesso sindaco della SFIO e nel dopoguerra, dopo una breve parentesi PCF, sempre sindaci PS o d’unione di sinistra. In questo caso è evidente che vi è stato un trasferimento diretto di voti dalla sinistra al FN. Già alle presidenziali la Le Pen aveva detto che la divisione non era destra- sinistra, che non ha più senso, ma tra i privilegiati che si riconoscono nel Partito unico al potere UMPS (UMP+PS), che si alternano per fare le stesse politiche dettate dall’Europa e gli altri. Dopo le municipali ha rafforzato il concetto che la divisione passa tra il basso e l’alto, cioè chi è colpito dalla crisi in maniera più dura.

Alcune cifre: 391 sono le città che hanno eletto il sindaco al primo turno, di queste 139 alla sinistra, 250 alla destra e 2 al FN. 27 città hanno cambiato maggioranza, di cui 24 da sinistra a destra, appena 3 in senso contrario, ma poco significative, 2 sono oltremare in Guadalupa. Nelle città con oltre 10.000 abitanti la destra ottiene il 45,9% (45,5% nel 2008), l’estrema destra 9,2% (0,7% 2008), la sinistra 41,4% (45,5% 2008) e l’estrema sinistra 1,3% (1,5% 2008).

La destra non vince per meriti suoi e considerata la minore partecipazione elettorale è praticamente certo che abbia perso in voti assoluti. L’altro dato è che le perdite della sinistra non vanno all’estrema sinistra, che perde in percentuale e quindi in voti assoluti. Una situazione spagnola dove le perdite del PSOE sono andate in minima parte a Izquierda Unida e il PP ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi perdendo voti. Nel 2009 in Germania federale le perdite della SPD solo per un terzo si distribuirono tra Linke e Verdi, il resto nell’astensione.

L’astensione è il dato che ha caratterizzato anche i voti raccolti dall’Ulivo nel 1996 e quelli delle elezioni successive: un problema non solo quantitativo ma qualitativo, se l’astensione dal voto è percentualmente più alta tra i giovani e le classi popolari. Nel 2013 in Italia alla Camera votarono soltanto 500.000 elettori in più del Senato, benché sulla carta ci fossero 4 milioni e mezzo di elettori in più: la classe età 18-24 anni non è andata a votare.

Il bipolarismo in Francia, se non è morto con questi risultati, è entrato in agonia: i collegi uninominali con ballottaggio eventuale non assicurano un effetto maggioritario, se le triangolari diventassero la regola. Nel 2012 sono state appena 46 su 577 seggi, meno del 8%, in Italia con i risultati 2013 sarebbero la regola e non sarebbero escluse quadrangolari nelle zone pedemontane del Nord Italia.

Con l’Italicum si cerca di mettere le briglie agli elettori o le mutande alla politica: se non ha effetto è una sconfitta per chi lo propone, se ha effetto rimanda solo nel tempo la disaffezione verso le istituzioni e quindi la democrazia. Se aumenta la crisi economica, politica e sociale avere una maggioranza artificiale dei seggi non serve a nulla a meno di ricorrere a poteri speciali per reprimere il disagio sociale. La sensazione che le parti più svantaggiate della società non siano più rappresentate nelle istituzioni è un spinta verso i partiti fuori sistema, che sono i più vari dal FN al Blocco Fiammingo, dall’UKIP a i Veri Finlandesi per finire al M5S, che è meglio che se la protesta fosse rappresentata da Fratelli d’Italia Forza Nuova.

La riduzione del numero dei rappresentanti elettivi e i sistemi maggioritari semplificano solo apparentemente il sistema politico, tanto più se di accompagnano alla demagogia dell’anti-politica interpretata da figure istituzionali.

Matteo Renzi sottovaluta l’effetto devastante di caratterizzare l’abolizione delle Province con “abbiamo tolto l’indennità a 3.000 politici”, come aveva giustificato l’abolizione del Senato con un risparmio di un miliardo di Euro.

Se sono questi i risparmi aboliamo la Camera che ne costa 2, ovvero Camera e Senato così se ne risparmiano 3 forse 4 di miliardi. Il rafforzamento degli esecutivi e la riduzione dei poteri dei Parlamenti e delle assemblee elettive sono strettamente collegate al capitalismo finanziario, che non ha bisogno della Stato se non nel senso che non ci siano poteri pubblici, che possano regolare i mercati o porre freni al libero movimento dei capitali. Per la loro libertà gli interlocutori pubblici devono essere ridotti di numero e quindi più facilmente influenzabili, controllabili se non corruttibili.

I governi sono più direttamente dipendenti dai voti delle agenzie di rating, quando il sistema mediatico amplifica le loro valutazioni.

La democrazia è in pericolo e la sinistra che fa?

Interessante è notare che mentre si cerca di far passare il messaggio che la distinzione sinistra destra non c’è più in un coro a più voci dove cantano sia Marine Le Pen che Massimo Cacciari, a sinistra con forza si sostiene che di sinistre ce ne sono addirittura 2 ovviamente una, la propria, è quella vera e quella degli altri è la falsa sinistra. Il tutto in assenza di un’analisi delle classi sociali e del modello di società cui si aspira e dei mutamenti introdotti dalla finanziarizzazione del capitalismo. Continuiamo così e delle 2 sinistre 2 fra un po’ non ne rimarrà nemmeno una.

*) Presidente Rete Socialista-Socialismo europeo

 

L’Europa è vittima dell’egoismo degli Stati

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Intervista con Gianni Pittella, vicepresidente vicario del Parlamento Europeo

Ø  Intervista apparsa su "La Gazzetta del Mezzogiorno" di domenica 23 marzo

La missione di Renzi in Europa. Non sembra che sia riuscito nell'intento di scalfire l'ortodossia del rigore. Che dice?

Pittella: È molto provinciale e sinceramente molto berlusconiano il miraggio dell'uomo della provvidenza che in meno di un giorno e mezzo con i suoi super poteri rivoluziona un'impostazione – sbagliata – dell'Europa che dura da almeno 20 anni. È vero, Renzi ha fatto qualcosa di un po' meno epico ma certamente di più serio: ha chiuso con il passato e spalancato le finestre al futuro dell'Italia e dell'Europa, mettendo in chiaro innanzi tutto che noi ora le riforme interne le faremo per davvero, che rispetteremo i vincoli comunitari ma che poi sarà giusto e doveroso per il ruolo dell'Italia porre fortemente la questione di quale UE vogliamo. Una cosa è certa. Così com'è non va bene.

I risolini di Barroso e van Rompuy: non sono un buon segnale.

Pittella:Non credo fossero sorrisi di scherno verso l'Italia o il nostro premier. Comunque c'è davvero poco da ridere visto il crollo dei consensi tra i cittadini nei confronti delle istituzioni europee.

In Europa c'è una forte spinta populista e antieuro. Tema che si rifletta anche da noi?

Pittella:E di che ci stupiamo? Questa è l'Europa della troika, delle politiche di austerità e dei patti di stupidità. Quel che i cittadini non sanno e che invece i vari Grillo, Berlusconi e la Lega fanno finta di non sapere, è che questa Europa è quella voluta o meglio permessa dagli Stati. Sono i singoli governi ad imporre veti, vincoli e a bloccare politiche comuni a problemi comuni. Dite pure agli euroscettici di prendersela con i governi nazionali se siamo arrivati a politiche che uccidono aziende, lavoro e sviluppo. Questa Europa è vittima dei governi. Ecco perché dico che per cambiare davvero verso, serve più Europa e non meno Europa. Con una vera Banca centrale, con una vera politica estera comune, con politiche per lo sviluppo e fiscali comuni sarebbe tutta un'altra Europa. La nostra Europa, non quella di adesso, quella moribonda massacrata dai veti reciproci dei governi nazionali. Questa è l'Europa per la quale io e il PD ci battiamo.

La questione dei fondi comunitari e del patto di stabilità. La commissione non ci sta. Si tratta di risorse vitali per il Sud. Una battaglia persa?

Pittella:I populisti alla Grillo o come Berlusconi dicono "usciamo dall'euro", "infrangiamo i vincoli". E poi? Liberi tutti… Io dico iniziamo a riformare il sistema Italia, prosciughiamo quelle sacche di sprechi, inefficienze e corruttela così diffuse nel nostro Paese. Al nord come al sud. Con la forza e l'autorevolezza dei risultati, potremo allora andare a Bruxelles e chiedere un'altra Europa. Vi immaginate la Grecia con la troika in casa chiedere la revisione dei trattati? Avremmo forse sorriso anche noi. Bene, posso assicurare che quando forte dei risultati ottenuti in Italia, il premier Renzi chiederà maggiore flessibilità per la crescita, maggiori tutele per aziende e lavoratori rispetto al dumping sociale di Cina, India e Paesi emergenti, politiche sociali e d'accoglienza comuni, una politica estera e di difesa comunitaria, nessuno a Berlino, a Parigi o a Bruxelles si permetterà di ridere.

Si può puntare a creare dei paesi mediterranei per cambiare verso all'Europa?

Pittella:Non esiste un futuro di successo per l'Italia se la questione meridionale non verrà risolta per sempre. Perché esiste una questione meridionale in Italia ma esiste una questione meridionale anche in Europa. E le due sono strettamente legate. Il nostro sud ha bisogno di essere messo nelle condizioni di competere: zone economiche speciali per attrarre investimenti esteri e nazionali e creare lavoro, piano infrastrutturale per porti e ferrovie, lotta a criminalità con riutilizzo e messa in produzione dei beni confiscati alle mafie. In Europa dopo vent'anni di allargamenti da ovest a est, occorre ripensare alla direttrice nord-sud come prossima frontiera per il dialogo e lo sviluppo. Il Meridione d'Europa si chiama Mediterraneo e Africa. E in questa direzione, chi meglio del nostro meridione potrebbe avere il ruolo di ponte strategico verso la sponda meridionale del Mediterraneo?

Lei sarà uno dei candidati nella circoscrizione meridionale. Su quali punti intende fare la campagna elettorale?

Pittella:Ho investito tutta la mia vita politica nel sogno e nel progetto europeo. Ho sempre pensato all'Europa come una casa comune da costruire insieme e non come uno ospizio per politici pensionati. Grazie all'ingresso del PD nel PSE, potremo far contare di più nel Parlamento europeo il peso specifico dell'Italia e del nostro sud. Questo il senso del mio impegno. Questa l'ambizione che ancora nutro: gli Stati uniti d'Europa.

 

IPSE DIXIT

Una di quelle feste - «Era una di quelle feste talmente noiose che ben presto la noia diventa argomento principale di conversazione. Dove ci si sposta da un gruppetto all'altro e si sente la stessa frase almeno dieci volte: "Sembra di stare in un film di Antonioni". Con la differenza che le facce non sono altrettanto interessanti.» – Don DeLillo

 

martedì 1 aprile 2014

Parliamo di socialismo- Antieuropeismo

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

Fra due mesi si vota per le elezioni europee e tutti i sondaggi danno in crescita le formazioni politiche critiche verso l’Europa, ormai percepita da un’ampia fetta di elettori come potere burocratico e distante che impone austerità e rigore nei conti, senza alcun beneficio immediato.

di Alfonso Isinelli

Da ieri i sondaggi, almeno in Francia, si sono incontrati con la realtà, è il Front National, rivitalizzato dalla gestione di Marine Le Pen, al grido di “basta Europa, più Francia”, ha conquistato il ballottaggio da posizioni di forza, in importanti realtà municipali.

Dunque un segnale forte, che conferma una tendenza europea alla protesta e alla disaffezione verso Bruxelles, che potrebbe essere favorita anche dal sistema elettorale proporzionale previsto per le elezioni europee. In un quadro di astensionismo sempre più forte, la tendenza si dispiega in maniera non omogenea: in Grecia ci sono i neonazisti di Alba Dorata che sono stimati, purtroppo, in doppia cifra, mentre a sinistra Alexis Tsipras, uscendo con la lista che porta il suo nome anche dai confini patri (come da noi in Italia) si candida a Presidente della Commissione Europea, per dare una svolta radicale alle politiche comunitarie. In Olanda riprende il fiato dopo la botta d’arresto il populista Geert Wilders; nella già poco europeista Gran Bretagna, il partito indipendentista britannico di Nigel Farage viaggia tra il 15 e il 20%.

In Germania i fermenti anti europeistici sono di segno opposto: Alternativa per la Germania, chiede più austerità e meno soldi dei contribuenti tedeschi ai paesi europei più deboli. E in tutto questo si innestano richieste sempre più forti di indipendenza territoriale. Sembra essere sempre più alle porte la separazione tra fiamminghi e valloni in Belgio, in autunno la Scozia deciderà con un referendum se staccarsi dalla Gran Bretagna e lo stesso, anche se in questo caso Madrid lo ritiene illegittimo, potrebbe accadere l’anno prossimo in Catalogna. E il referendum “autogestito” in Veneto, di cui qualcuno ha sorriso, sottovalutandolo, è un segnale più preoccupante di quanto sembri.

Ecco, veniamo all’Italia, cosa succederà il 25 maggio? Renzi ha messo le mani avanti dicendo che non sarà un referendum sul suo governo. E’ consapevole che potrebbero non bastare 80 euro in tasca ai lavoratori (due giorni dopo il voto…) a contrastare l’aria fra disincanto e rabbia che si respira nelle strade, nei mezzi di comunicazione, nei social network. L’astensione e Grillo rischiano di uscirne ancor più vincenti.