martedì 24 marzo 2015

Per una democrazia costituzionale

La situazione politica

  

di Felice Besostri

 

Non si possono intraprendere azioni decise se non si hanno idee chiare. Non si possono avere idee chiare se il linguaggio è come la neo-lingua orwelliana di 1984. Cominciamo a fare pulizia. Riforma è una nobile parola, che non merita l’uso che se ne fa. La riforma designa un rinnovamento in senso migliorativo, non un mero cambiamento. Renzi non sta riformando la Costituzione. Egli la deforma.

    Lo stesso si deve dire  dell’Italikum (nella pronunzia non si coglie la differenza, ma va scritto con la “kappa” al posto della “c”). Una riforma della legge elettorale comportava di eliminare le incostituzionalità denunciate dalla Corte Costituzionale  con la sentenza n. 1/2014, e ancor più dalla sentenza n. 8848/2014 della Prima Sezione della Cassazione, non, invece, di legiferare come non ci fossero.

    L’ultimo testo licenziato dal Senato dimostra che si persegue surrettiziamente un mutamento della forma di governo. Già nel porcellum era una violazione delle prerogative presidenziali l’indicazione da parte di una coalizione di un capo politico della stessa, ma almeno aveva il senso di  superare una delle critiche alle leggi elettorali proporzionali, di presentarsi con le mani libere davanti agli elettori, per decidere dopo le elezioni. Le coalizioni non ci sono più, il premio che dà la maggioranza va alla lista e quindi al suo capo. Con il ballottaggio, espediente per sfuggire ad una soglia minima in voti e/o seggi, s’introduce  di fatto un’elezione diretta del Primo Ministro.

    Il processo in atto è iniziato, prima di Renzi, con l’elezione diretta generalizzata del sindaco, per di più portatore di un premio di maggioranza  di cui sono beneficiarie le liste collegate (nelle grandi città è una illusione mediatica che il sindaco sia scelto dai cittadini in base ad una conoscenza diretta dei candidati).

    E’ poi seguita quella diretta dei presidenti di Regione, con l’anomalia di premi di maggioranza attribuiti ancora una volta sul consenso del candidato presidente, per il quale è ammesso il voto disgiunto, ma di cui beneficiano soltanto le liste collegate: un  premio in seggi tanto più consistente quanto minore è il loro consenso elettorale. In tutti i casi la concentrazione del potere nel vertice dell’esecutivo si è accompagnato nella riduzione dei poteri dell’assemblea rappresentativa.

    A mio avviso concausa delle degenerazioni dell’uso dei fondi dei gruppi consiliari regionali: una compensazione alle frustrazioni politiche?

    Renzi ha in mente il modello del sindaco d’Italia – e lo dice apertamente –, quindi la riduzione del ruolo del Parlamento ne è una diretta e logica conseguenza. La nomina dei parlamentari grazie alle liste bloccate, in luogo della loro elezione, ha svuotato l’art. 67 della Costituzione, come anche la disciplina di Partito, una formazione politica senza una legge  regolativa, come richiesto dall’art. 49 della Costituzione e in vigore nella maggioranza dei paesi europei.

    Non è Renzi il responsabile del mantra, ripetuto ossessivamente, secondo cui “si deve sapere chi ci governerà la sera stessa delle elezioni”. Una pretesa che non hanno neppure i sistemi elettorali uninominali maggioritari a turno unico (Britannia docet) o i sistemi presidenziali o semi-presidenziali, per non parlare della stabilissima e governabilissima Germania: la Merkel con il suo 43% (superiore al 41%  di Renzi alle Europee)  non avrebbe dovuto, con un Tedeskum, tradotto dall’Italikum, aspettare due mesi per fare la Cancelliera.

    Eppure la domanda se in Europa conta di più la Germania o l’Italia neppure può essere posta per non essere retorici. Obama e Hollande alla sera della loro elezione sapevano di essere Presidenti dei loro paesi, ma la capacità di realizzare il loro programma di governo sarebbe dipesa dal risultato delle elezioni parlamentari. Anzi negli USA al Presidente gli piazzano a metà mandato un turno elettorale, che lo può mandare in minoranza nei due rami del Congresso, come accaduto con il secondo mandato di Obama.

    A Renzi dobbiamo un passo avanti con il nuovo Senato e la Del Rio nonché le elezioni di secondo grado: un progresso perché così si saprà chi governerà la sera prima delle elezioni...

    E’ avvenuto senza suscitare emozioni tra settembre e ottobre 2014 nelle Province e nelle Città Metropolitane, complici un po’ tutti comprese forze all’opposizione in Parlamento. Il consenso si strappa facilmente, basta assicurare qualche posto. Un buon numero di Presidenti di Provincia, candidati unici e liste bloccate uniche con un numero di candidati pari ai posti da eleggere.

    Nelle regioni, ultime l’UMBRIA  e la PUGLIA in febbraio, si stanno approvando leggi elettorali sempre più maggioritarie, con premi di maggioranza al 60% o 62% se si calcola il seggio del Presidente. Il consenso degli alleati si compra con soglie d’accesso differenziate. Basse se si sta in coalizione, alte fuori. La maggioranza è la metà più uno dei seggi, ma non basta al partito di maggioranza, che vuole avere la maggioranza assoluta da solo e non dipendere dai partiti minori: ecco spiegato un premio pari al 60% dei seggi.

    Avremmo così un partito egemone e una corte di satelliti: una situazione che ha analogie solo con le democrazie popolari est-europee prima del crollo del Muro di Berlino.

    Il referendum confermativo previsto per le leggi costituzionali non approvate con il quorum dei 2/3 dei componenti le Camere, quando è unico per una congerie di norme modificate, più di 40, non è una conferma adeguata di un consenso popolare. Meglio allora la Spagna e la Svezia che tra la prima lettura e la seconda prevedono la tenuta di elezioni politiche generali.

    Come già sottolineato da molti la previsione di un ballottaggio tra le due liste più votate è un espediente per sottrarsi ad una soglia minima in voti o seggi per l’attribuzione di un premio di maggioranza, come richiesto dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 15 e 16 del 2008. 

    La percentuale dei votanti non basta per alterare l’uguaglianza del voto: premio di maggioranza e ammissione delle liste al ballottaggio devono essere vincolate a percentuali degli aventi diritto al voto. Un 40% dei votanti non rappresenta la volontà degli elettori di un governo stabile, se vanno a votare poco più di un terzo degli elettori iscritti, come è avvenuto in Emilia Romagna.

    E la maggioranza assoluta al ballottaggio non legittima la distorsione della rappresentanza se le due liste al primo turno non rappresentassero almeno il 50% degli aventi diritto. Su questo c’è spazio per la Camera dopo le modifiche introdotte dal Senato al testo della legge elettorale.

martedì 10 marzo 2015

Àncora Italia

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

  

Ancora morti nel Mediterraneo. Ancora una tragedia figlia della disperazione. Dieci i migranti morti e novecento quarantuno i salvati nel Canale di Sicilia martedì dalla Guardia Costiera.

 

di Ginevra Matiz

 

In meno di 24 ore, sono state in totale 7 le operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia Costiera in una zona di mare a circa 50 miglia a nord della Libia. Dirottati anche 3 mercantili, uno dei quali ha salvato 183 persone. Disposto l’invio della nave Fiorillo della Guardia Costiera, che ha tratto in salvo 319 migranti. Richiesto l’impiego di una unità della Marina Militare inserita nel dispositivo Triton che è intervenuta anch’essa nei soccorsi.

    Tra le varie operazioni coordinate dal Centro nazionale di soccorso a Roma, quella di un barcone rovesciato con 121 persone salvate e 10 corpi recuperati dalla nave Dattilo che già aveva a bordo 318 migranti salvati in una precedente operazione.

    Eventi che hanno acuito ancora di più il senso di emergenza. Tanto che, come ha affermato il primo vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, la Ue ha deciso di accelerare sull’Agenda europea sulle migrazioni anticipandola a metà maggio, mentre prima era previsto a metà luglio.  “Occorre – ha detto Timmermans – un atteggiamento aggressivo nella lotta ai trafficanti di esseri umani responsabili di tragedie” come quelle avvenute stanotte. “L’immigrazione – ha aggiunto – è un problema che riguarda tutti gli Stati membri, non è più Mare Nostrum, ma Europa nostra. Dobbiamo fare in modo – ha detto ancora Timmermans – che gli strumenti esistenti funzionino meglio e che tutti gli stati membri applichino le regole nello stesso modo. Attualmente non c’è l’ipotesi di modificare il sistema, ma di migliorarlo, prima di pensare a modificare le regole”. Timmermans ha sostenuto che la Ue deve cooperare anche con i regimi dittatoriali per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione, contrastare i trafficanti e “proteggere meglio” i propri confini.

    Il commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, nel presentare i risultati del primo dibattito orientativo del collegio dei commissari sull’Agenda europea sulle migrazioni, ha affermato che è arrivato il momento di dire basta alla “politica dello scaricabarile, abbiamo un atteggiamento realistico e chiaro su quello che l’Ue può fare e ciò che non può fare. Frontex non è la guardia delle frontiere Ue, se vogliamo un sistema di guardie di frontiera dobbiamo crearlo: se vogliamo che Frontex faccia di più, dobbiamo dargli più risorse.  L’operazione congiunta Triton – ha aggiunto – ha già permesso di salvare migliaia di vite umane, ma è vero che bisogna fare ancora di più ed è compito sia dell’Ue sia degli Stati membri salvare vite, non abbiamo altra scelta. La discussione di oggi sull’Agenda europea delle migrazioni – ha concluso Avramopoulos – è stata offuscata dagli eventi vicino alla costa libica, che ci ricordano ancora una volta che le sfide dell’immigrazione non spariranno da sole e che ora più di sempre abbiamo bisogno di una strategia omnicomprensiva e a lungo termine in aggiunta al supporto agli Stati membri che affrontano alte pressioni migratorie”.

    L’operazione congiunta Triton torna così al centro delle polemiche per le modalità in cui viene gestita, argomento su cui è intervenuto anche il segretario socialista Nencini ribadendo che: “Triton non risolve il problema”.

    Naturalmente l’occasione è stata ghiotta per la Lega che ne ha approfittato per lucrare qualche consenso in più speculando sull’ennesima tragedia: “A Roma e a Bruxelles ci sono tasche piene e mani sporche di sangue. Stop alle partenze, stop alle morti, stop invasione! Renzi e Alfano, siete pericolosi per gli italiani e per gli immigrati”, – hanno commentato i padani.

    Il tema dell’immigrazione sarà discusso nel Consiglio Esteri del 16 marzo. Lo ha annunciato l’Alto rappresentante, Federica Mogherini. “La gestione ordinata e lungimirante delle politiche migratorie – ha detto – è un preciso dovere strategico della Ue. Per fare in modo che non si ripetano più le tragedie nel Mediterraneo – ha aggiunto Mogherini – dobbiamo mettere insieme tutti gli strumenti della Ue”.

 

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NON E’ MITE

MOSTRO ITALICUM - 3/3 - Puntate 1/3 e 2/3 apparse sull'ADL

del 12 e del 19 febbraio 2015

 

Sulla legge elettorale partorita dal patto del Nazareno molti si affannano a spiegare che si tratta di un mostro legislativo meno mostruoso della sua versione primitiva. Per noi una cosa è certa: che questo mostro non è mite.

 

di Luciano Belli Paci

 

Le preferenze come ludi cartacei. - L'altro motivo di incostituzionalità del Porcellum statuito dalla sentenza n° 1/2014 riguarda le liste bloccate che, sottraendo all'elettore la facoltà di scegliere l'eletto, violano i precetti costituzionali sul voto "libero, personale, diretto" (artt. 48, 56, 58 Cost.).

    Nella legge Calderoli, osserva la Corte, "tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l'elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell'ordine di presentazione, sì che anche l'aspettativa relativa all'elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell'eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito".

    L'Italicum tenta di aggirare l'indicazione della Corte, lasciando "bloccati" solo i capilista delle nuove 100 circoscrizioni e consentendo invece all'elettore di esprimere il voto di preferenza per gli altri candidati.

    Oltre al danno, la beffa.

    Infatti, salvo casi del tutto eccezionali, il sistema funziona in modo tale per cui tutte le liste diverse da quella che si vedrà attribuito il premio di maggioranza – il che significa liste che potrebbero avere raccolto complessivamente fino al 60 % del voto popolare, e anche oltre se si è andati al ballottaggio – non avranno altri eletti all'infuori dei capilista. In altre parole, per la maggior parte degli elettori, tutti i deputati eletti con il loro voto saranno quelli individuati sulla base di scelte operate dai partiti; e neppure potranno dire di avere scelto il capolista, essendo rimasta inalterata la possibilità di candidature multiple e della facoltà dell'eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito.

    Anche in questo caso la situazione, rispetto al Porcellum, è per certi versi addirittura peggiorata perché il meccanismo è ingannevole: milioni di elettori, la maggioranza, saranno chiamati ad esprimere un voto di preferenza del tutto virtuale, privo a priori di ogni possibilità di tradursi in autentica scelta dell'eletto.  Così la consultazione elettorale viene degradata a recita, si sprofonda nei "ludi cartacei" di mussoliniana memoria.

    Le istituzioni di garanzia col trucco contabile. Il presidenzialismo come male minore. - Gli inventori dell'Italicum, per ripararsi dalle critiche di chi paventa che dal rischio della classica "dittatura della maggioranza" si scivoli addirittura verso quello della "dittatura della minoranza", hanno proposto la riforma dell'art. 83 Cost., prevedendo che per l'elezione del Presidente della Repubblica, dopo i primi tre scrutini nei quali è richiesto il quorum dei 2/3, occorra una maggioranza qualificata dei 3/5 (oggi basta la maggioranza assoluta dei grandi elettori).  Apparentemente questo dovrebbe impedire alla lista che ottiene il premio di eleggersi da sola anche il Presidente della Repubblica, mantenendo in tal modo a quest'ultimo il ruolo di organo di garanzia.

    Peccato che ci sia una sorta di trucco contabile che rende ben poco rassicurante la riforma.

    Infatti, il quorum dei 3/5 (equivalente al 60 %) non si calcola solo sulla Camera, dove la lista vincitrice ha già il 55 %, bensì sul collegio dei grandi elettori che comprende anche il Senato.

    E qui si capisce l'utilità della curiosa riforma del Senato.  La seconda camera, privata ormai del potere di dare la fiducia al Governo e relegata al ruolo di comparsa anche nel processo legislativo, avrebbe potuto essere abolita del tutto per evitare un nuovo organismo senza sostanza, tipo Cnel. Oppure, se proprio la si voleva mantenere, avrebbe potuto essere eletta in modo proporzionale per fungere da "specchio del Paese", con competenza sulle questioni più delicate, come le leggi costituzionali, le leggi elettorali e, appunto, l'elezione degli organi di garanzia.

    Invece il Senato riformato, grazie all'elezione di secondo grado da parte dei Consigli Regionali - che a loro volta sono frutto di elezioni a turno unico che assegnano alla coalizione del presidente (con la semplice maggioranza relativa) un premio abnorme - avrà una conformazione iper-maggioritaria.  In tal modo vi sono elevate probabilità che quel 5 % mancante perché la lista che domina la Camera arrivi al 60 % complessivo possa essere garantito proprio dall'apporto dei senatori, tra i quali la medesima "maggioranza" potrà essere ulteriormente sovra-rappresentata.

    A ciò si aggiunge il fatto che nell'ultima versione dell'Italicum il premio non va più alla coalizione bensì alla singola lista; il che rende possibile che chi vince (specie se vincesse solo al ballottaggio, avendo perciò ottenuto al primo turno meno del 40 %) abbia in parlamento altre liste alleate che portino in dote quel 5 % mancante per fare cappotto.

    Questa elevata probabilità che l'effetto della combinazione tra Italicum e riforma del Senato porti ad un sistema in cui con una sola votazione, di fatto, si prende tutto – parlamento, governo, presidente della repubblica e, a cascata, maggioranza della corte costituzionale, ecc. – dovrebbe indurre a riflettere attentamente sull'opportunità di preferire, al confronto, un sistema di elezione diretta del Capo dello Stato.

    I critici del presidenzialismo (tra i quali si colloca chi scrive) si sono sempre opposti all'elezione diretta temendo che da essa, in una democrazia fragile come quella italiana ed in presenza di già eccessivi fenomeni di personalizzazione, potessero scaturire degenerazioni plebiscitarie.

    Oggi però si rischia qualcosa di molto peggio: un presidenzialismo di fatto, ma senza neppure il bagno democratico dell'investitura popolare e senza alcun sistema di checks and balances.

    Insomma, rispetto al quadro che emergerebbe dalle riforme del Nazareno, il presidenzialismo o meglio ancora il semi-presidenzialismo sarebbe di gran lunga il male minore.

    Un sano esercizio: immaginare la vittoria degli altri. - Il dibattito sulle riforme in commento si sta svolgendo in un contesto di scarsa attenzione, se non di anestesia delle coscienze.

    La ragione di questo inquietante fenomeno solo in parte può essere individuata nella mitridatizzazione prodotta da anni e anni di demonizzazione del proporzionale, di delegittimazione del parlamento come sede della mediazione politica e di crescita del leaderismo.

    In una buona parte dell'opinione pubblica solitamente sensibile al tema dei valori costituzionali prevale, oltre alla stanchezza, l'idea che si tratti di riforme fatte su misura, che potranno avvantaggiare solo il PD del 40 % alle europee ed il suo capo; soggetti ritenuti dai più magari criticabili, ma non sospettabili di involuzioni anti-democratiche.

    Chi scrive non condivide questo pregiudizio favorevole, ma il punto non è questo.

    In materia elettorale le "leggi-fotografia" sono un grave errore ed il legislatore dovrebbe sempre decidere "dietro il velo dell'ignoranza", ma ancor più sbagliato sarebbe giudicare le regole come se la situazione data fosse immutabile.

    Poiché le riforme elettorali ed istituzionali si fanno, tendenzialmente, per sempre, è doveroso interrogarsi sui risultati che produrrebbero in presenza di equilibri politici completamente diversi dagli attuali, nei quali potrebbero prevalere forze che sono le più lontane da noi.

    Dobbiamo immaginare che possa rivincere, se non Berlusconi in persona, un altro come lui; che possa vincere Salvini con una specie di Front National italiano; o che possa vincere Grillo, magari uscendo da un primo turno molto distaccato e poi raccogliendo al ballottaggio un ampio voto di protesta goliardica e trasversale (come è già accaduto a Parma e a Livorno).

    Ecco che l'eliminazione di pesi e contrappesi e l'impossibilità di realizzare una convergenza repubblicana per sbarrare la strada in un secondo turno ad una forza eversiva che dovesse arrivare al 40 % (come avvenne in Francia alle presidenziali del 2002 quando anche la sinistra votò per Chirac contro Le Pen) risulterebbero esiziali per le sorti della Repubblica nata dalla Resistenza.

    Se oggi si prende alla leggera il problema, si rischia di svegliarsi quando il danno è fatto.

(3/3 – Fine)

* * *

 

PER UNA DEMOCRAZIA

COSTITUZIONALE

Tra Italicum e Riforma del Senato.

I rischi di un modello sconosciuto al mondo occidentale.

 

Incontro con

VITTORIO ANGIOLINI,

ordinario di Diritto Costituzionale, Università degli Studi di Milano

FELICE BESOSTRI,

avvocato, direzione nazionale PSI

Alfredo D'Attorre,

deputato Partito Democratico

FABIO MUSSI,

coordinamento nazionale Sinistra Ecologia Libertà

 

Intervistati da

LUCIANO BELLI PACI

 

MILANO

CAM Ponte delle Gabelle

via San Marco, 45

MM2 Moscova

Venerdì 6 marzo 2015 | ore 21,00

 

organizza Circolo SEL Zona 1

 

Oltre l'Otto Marzo

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

 

Guardare il mondo con gli occhi delle donne. Nella classifica mondiale della parità di genere restiamo tra i paesi con minore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e tra quelli con le maggiori disparità salariali.

 

di Susanna Camusso

 

Chi ha paura delle donne? È arrivato il momento di rompere il tabù che imperversa nel nostro paese, dove la questione delle pari opportunità e del superamento delle diseguaglianze tra uomini e donne è ampiamente occultata. Il governo italiano si è perfino dimenticato di aver ratificato la Convenzione di Istanbul, che dal 1° agosto 2014 rendeva obbligatoria l'applicazione dei principi e delle normative contenuti in quel testo, definito storico, che al primo articolo recita '...contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi...'. Ma il silenzio che è seguito dimostra che il tema non rientra nell'agenda politica italiana.

  

Eppure occupazione e redditi delle donne sono da tempo i principali problemi, seguiti, ma non per ordine di importanza, dalle troppe diseguaglianze acuite da questa lunga crisi. E, nonostante leggi nazionali e internazionali prevedano parità di trattamento e di retribuzione, nella classifica mondiale della parità tra uomini e donne restiamo tra i paesi con minore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e tra quelli con le maggiori disparità salariali. Con l'effetto di un maggior divario pensionistico a sfavore delle donne, a cui non viene garantito il diritto all'autonomia economica a conclusione della loro vita lavorativa.

    Quello dell'Italia è una grave ritardo, non esclusivamente di ordine culturale, che penalizza il genere femminile e l'intera economia. Lo confermano studi, ricerche e statistiche nazionali e internazionali, il più recente dei quali è l'ultimo studio del Fmi, che quantifica i danni del sessismo nel mondo in 9.000 miliardi di dollari all'anno, a causa di restrizioni legali e della parità di genere ancora lontana da raggiungere. Una discriminazione contro il genere femminile che all'Italia fa perdere più del 15% della ricchezza potenziale.

    Dagli Stati Uniti è partita in questi giorni una vera e propria offensiva perché la partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro, oltre che una battaglia di equità e democrazia, diventi prioritaria per la crescita. Il "tam tam" dell'equal pay lanciato da Barack Obama mobilita attori, politici, gente comune. Sul fronte europeo, negli ultimi anni, Francia, Belgio, Austria e Portogallo si stanno muovendo verso la parità retributiva con l'approvazione di apposite leggi che spaziano dal rafforzamento dei controlli all'obbligo periodico di presentazione di analisi comparative tali da monitorare quella che in azienda è la struttura salariale.

    La situazione italiana è una delle più contraddittorie: il formidabile avanzamento delle donne in politica – il governo è composto al 50% da donne, che nel Parlamento sono il 30% – è speculare all'aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, al peggioramento sul piano occupazionale e retributivo, che penalizza la vita materiale delle donne che lavorano. E di quelle che non lavorano più: le pensionate, spesso costrette dalla crisi, dallo svuotamento del welfare e dalla precarietà dei figli a svolgere il ruolo improprio di ammortizzatore sociale.

    La politica finge di non sapere che la mancanza di servizi è un freno all'occupazione femminile e allo sviluppo. Le donne sono penalizzate anche dalla maternità, come se non avesse un valore sociale. Soltanto 43 su 100 mantengono il lavoro dopo la nascita di un figlio, che insieme al lavoro di cura troppo spesso favorisce la loro uscita dal mercato del lavoro. Le aziende devono sapere che la diversità è una risorsa, bisogna solamente essere capaci di gestirla.

    Con i decreti attuativi, il Jobs Act è entrato nel vivo. Presentato come una misura a favore dei giovani e delle donne, è in realtà privo di un'analisi di genere e iniquo sul piano della parità e dell'equità. È il mantenimento delle differenze e non la lotta alla precarietà. I provvedimenti del governo hanno complessivamente saccheggiato il diritto del lavoro e per questo la Cgil presenterà una proposta di legge per un nuovo Statuto dei lavoratori, per estendere tutele e diritti a tutti i lavoratori e lavoratrici, indipendentemente dalla tipologia contrattuale.

    Il 9 marzo a New York si apre la 59a sessione della Commissione sullo stato delle donne delle Nazioni Unite, che valuterà i progressi compiuti dalla Conferenza mondiale di Pechino nel 1995, in cui si stabilì la necessità di una verifica ogni cinque anni rispetto all'attuazione del Programma d'azione fondato sue tre pilastri: genere e differenza, empowerment, mainstreaming. Ovvero: guardare il mondo con gli occhi delle donne.

    La Conferenza di Pechino ha rappresentato una pietra miliare nel riconoscimento dei diritti umani delle donne. Venti anni dopo, attraverso i rapporti quinquennali dei governi, si esamineranno i traguardi raggiunti rispetto agli obiettivi strategici delle 12 aree critiche individuate dalla Piattaforma di Pechino. Da allora in tutto il mondo sono state implementate nuove leggi, prodotte ampie documentazioni statistiche su discriminazioni e disuguaglianze, sono proliferate reti e associazioni di donne finalizzate al raggiungimento della parità di genere. Ma nessun paese ha ancora portato a termine gli impegni assunti e le condizioni di vita materiale di due terzi delle donne nel mondo non sono cambiate: guadagnano meno degli uomini e la loro occupazione è meno qualificata.

    L'appuntamento di New York dovrebbe essere dunque l'occasione per rinnovare la volontà politica e l'impegno di tutti i governi verso un cambiamento, che tarda troppo ad arrivare. Ci sono voluti secoli prima che i diritti delle donne fossero riconosciuti, almeno teoricamente, come diritti umani universali. Il problema non si risolve lasciando totale libertà al mercato, è necessaria la volontà politica e una sensibilità di genere di tutte le parti sociali.

    Per dare significato alla giornata dell'8 Marzo dobbiamo proseguire la nostra mobilitazione perché il governo metta in campo misure e investimenti che affrontino seriamente un problema non delle donne, ma di democrazia e di pesanti vincoli allo sviluppo di tutto il paese. Che vanno oltre l'8 Marzo, perché per dirla con le parole di Amartya Sen: "Il sessismo ci impoverisce tutti".