martedì 24 marzo 2015

Per una democrazia costituzionale

La situazione politica

  

di Felice Besostri

 

Non si possono intraprendere azioni decise se non si hanno idee chiare. Non si possono avere idee chiare se il linguaggio è come la neo-lingua orwelliana di 1984. Cominciamo a fare pulizia. Riforma è una nobile parola, che non merita l’uso che se ne fa. La riforma designa un rinnovamento in senso migliorativo, non un mero cambiamento. Renzi non sta riformando la Costituzione. Egli la deforma.

    Lo stesso si deve dire  dell’Italikum (nella pronunzia non si coglie la differenza, ma va scritto con la “kappa” al posto della “c”). Una riforma della legge elettorale comportava di eliminare le incostituzionalità denunciate dalla Corte Costituzionale  con la sentenza n. 1/2014, e ancor più dalla sentenza n. 8848/2014 della Prima Sezione della Cassazione, non, invece, di legiferare come non ci fossero.

    L’ultimo testo licenziato dal Senato dimostra che si persegue surrettiziamente un mutamento della forma di governo. Già nel porcellum era una violazione delle prerogative presidenziali l’indicazione da parte di una coalizione di un capo politico della stessa, ma almeno aveva il senso di  superare una delle critiche alle leggi elettorali proporzionali, di presentarsi con le mani libere davanti agli elettori, per decidere dopo le elezioni. Le coalizioni non ci sono più, il premio che dà la maggioranza va alla lista e quindi al suo capo. Con il ballottaggio, espediente per sfuggire ad una soglia minima in voti e/o seggi, s’introduce  di fatto un’elezione diretta del Primo Ministro.

    Il processo in atto è iniziato, prima di Renzi, con l’elezione diretta generalizzata del sindaco, per di più portatore di un premio di maggioranza  di cui sono beneficiarie le liste collegate (nelle grandi città è una illusione mediatica che il sindaco sia scelto dai cittadini in base ad una conoscenza diretta dei candidati).

    E’ poi seguita quella diretta dei presidenti di Regione, con l’anomalia di premi di maggioranza attribuiti ancora una volta sul consenso del candidato presidente, per il quale è ammesso il voto disgiunto, ma di cui beneficiano soltanto le liste collegate: un  premio in seggi tanto più consistente quanto minore è il loro consenso elettorale. In tutti i casi la concentrazione del potere nel vertice dell’esecutivo si è accompagnato nella riduzione dei poteri dell’assemblea rappresentativa.

    A mio avviso concausa delle degenerazioni dell’uso dei fondi dei gruppi consiliari regionali: una compensazione alle frustrazioni politiche?

    Renzi ha in mente il modello del sindaco d’Italia – e lo dice apertamente –, quindi la riduzione del ruolo del Parlamento ne è una diretta e logica conseguenza. La nomina dei parlamentari grazie alle liste bloccate, in luogo della loro elezione, ha svuotato l’art. 67 della Costituzione, come anche la disciplina di Partito, una formazione politica senza una legge  regolativa, come richiesto dall’art. 49 della Costituzione e in vigore nella maggioranza dei paesi europei.

    Non è Renzi il responsabile del mantra, ripetuto ossessivamente, secondo cui “si deve sapere chi ci governerà la sera stessa delle elezioni”. Una pretesa che non hanno neppure i sistemi elettorali uninominali maggioritari a turno unico (Britannia docet) o i sistemi presidenziali o semi-presidenziali, per non parlare della stabilissima e governabilissima Germania: la Merkel con il suo 43% (superiore al 41%  di Renzi alle Europee)  non avrebbe dovuto, con un Tedeskum, tradotto dall’Italikum, aspettare due mesi per fare la Cancelliera.

    Eppure la domanda se in Europa conta di più la Germania o l’Italia neppure può essere posta per non essere retorici. Obama e Hollande alla sera della loro elezione sapevano di essere Presidenti dei loro paesi, ma la capacità di realizzare il loro programma di governo sarebbe dipesa dal risultato delle elezioni parlamentari. Anzi negli USA al Presidente gli piazzano a metà mandato un turno elettorale, che lo può mandare in minoranza nei due rami del Congresso, come accaduto con il secondo mandato di Obama.

    A Renzi dobbiamo un passo avanti con il nuovo Senato e la Del Rio nonché le elezioni di secondo grado: un progresso perché così si saprà chi governerà la sera prima delle elezioni...

    E’ avvenuto senza suscitare emozioni tra settembre e ottobre 2014 nelle Province e nelle Città Metropolitane, complici un po’ tutti comprese forze all’opposizione in Parlamento. Il consenso si strappa facilmente, basta assicurare qualche posto. Un buon numero di Presidenti di Provincia, candidati unici e liste bloccate uniche con un numero di candidati pari ai posti da eleggere.

    Nelle regioni, ultime l’UMBRIA  e la PUGLIA in febbraio, si stanno approvando leggi elettorali sempre più maggioritarie, con premi di maggioranza al 60% o 62% se si calcola il seggio del Presidente. Il consenso degli alleati si compra con soglie d’accesso differenziate. Basse se si sta in coalizione, alte fuori. La maggioranza è la metà più uno dei seggi, ma non basta al partito di maggioranza, che vuole avere la maggioranza assoluta da solo e non dipendere dai partiti minori: ecco spiegato un premio pari al 60% dei seggi.

    Avremmo così un partito egemone e una corte di satelliti: una situazione che ha analogie solo con le democrazie popolari est-europee prima del crollo del Muro di Berlino.

    Il referendum confermativo previsto per le leggi costituzionali non approvate con il quorum dei 2/3 dei componenti le Camere, quando è unico per una congerie di norme modificate, più di 40, non è una conferma adeguata di un consenso popolare. Meglio allora la Spagna e la Svezia che tra la prima lettura e la seconda prevedono la tenuta di elezioni politiche generali.

    Come già sottolineato da molti la previsione di un ballottaggio tra le due liste più votate è un espediente per sottrarsi ad una soglia minima in voti o seggi per l’attribuzione di un premio di maggioranza, come richiesto dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 15 e 16 del 2008. 

    La percentuale dei votanti non basta per alterare l’uguaglianza del voto: premio di maggioranza e ammissione delle liste al ballottaggio devono essere vincolate a percentuali degli aventi diritto al voto. Un 40% dei votanti non rappresenta la volontà degli elettori di un governo stabile, se vanno a votare poco più di un terzo degli elettori iscritti, come è avvenuto in Emilia Romagna.

    E la maggioranza assoluta al ballottaggio non legittima la distorsione della rappresentanza se le due liste al primo turno non rappresentassero almeno il 50% degli aventi diritto. Su questo c’è spazio per la Camera dopo le modifiche introdotte dal Senato al testo della legge elettorale.