lunedì 31 ottobre 2011

I frammenti del bipolarismo

Parliamo di socialismo

a cura della Fondazione Pietro Nenni

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

di  Giuseppe Tamburrano

Fondazione Pietro Nenni

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello! 

DANTE, Purg. IV, 76sgg.

 

Domenica 23 ottobre due quotidiani hanno descritto la frantumazione partitica del nostro sistema: La Stampa ha mostrato la moltiplicazione dei partiti e partitini e il Corriere della Sera la suddivisione del PD per gruppi e correnti.

    Ricordo che la Seconda Repubblica, secondo molti "illuminati", doveva porre rimedio proprio alla frantumazione e al pluripartitismo del sistema politico della Prima.

    Il bipolarismo, se non il bipartitismo, fu "aiutato" dalla riforma elettorale: prima il sistema maggioritario al 75% (e una quota, il 25, con il proporzionale per contentino a ciò che restava del vecchio) e poi il premio di maggioranza.

    All'inizio sembrò che si andasse realmente verso il bipolarismo e la semplificazione. Infine, nel 2008, i partiti si ridussero a cinque (non conto per le sue dimensioni e la sua natura regionale il MPA di Lombardo): il partito di Berlusconi, la Lega, l'UDC, il PD e l'IDV.

    A sinistra, dichiarò Veltroni nell'ultima campagna elettorale, i 14 partiti si erano ridotti a uno: il PD (lo ricorda La Stampa).

    Oggi sono ventisei, senza contare i partiti non presenti come tali in Parlamento: SEL, Cinque Stelle, Radicali (nel gruppo PD), Federazione della sinistra, Psi, Verdi . . .

    Il PD è diviso in 17 correnti.

    Non dovrebbero recarsi tutti, accompagnati dai politologi della Seconda Repubblica, a portare i libri nella cancelleria del Tribunale fallimentare?

    La Stampa e il Corriere non c'informano sul frazionismo del PDL. Secondo i nostri calcoli le correnti sono tredici. A destra, ma fuori del Parlamento, troviamo poi l'UDEUR-Popolari di Mastella e la Destra di Storace.

    Anche la Lega – che sembrava un monolite celodurista – va verso le correnti: Bossi, Maroni e Tosi che forse non è "maronita", ma solo tosiano.

    In questo panorama vi è un elemento paradossale se non comico: molti "riformatori" bipolaristi sostengono che col referendum elettorale le cose cambieranno. Sono dei dissimulatori – per non dir di peggio – perchè il referendum con le sue numerose firme, ha dato sì espressione alla rabbia, alla volontà di ampie fasce della società di cambiare le cose (e meno male che questa volontà sia ancora viva!) – ma non produrrà alcun effetto concreto in quanto la Corte lo dichiarerà inammissibile (e loro lo sanno).

    Vi sono segnali, anche fievoli, che lo sbriciolamento rappresenti un processo verso nuove aggregazioni?

    Forse sono miope, ma non ne vedo: al contrario, mi pare che la scomposizione sia totalmente dominata dalla logica del potere di contrattazione per fini personali e di gruppo. Se e quando Berlusconi, accogliendo il consiglio affettuoso di Barroso ("ma fa come Zapatero!!") o del medico, si ritirerà o sarà vittima di una congiura ( Tu quoque, Juli, fili mi! ) che cosa accadrà nel e del suo partito?

    Quante schegge conteremo dell'implosione?

 

 

IPSE DIXIT

Grande naufragio - « Dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell'Europa almeno 17.856 persone, di cui 2.049 soltanto dall'inizio del 2011. Il dato è aggiornato al mese di ottobre e si basa sulle notizie censite negli archivi della stampa internazionale degli ultimi 23 anni. Ma quanti sono i naufragi di cui non si è avuta notizia? ». Gabriele Del Grande (Vai al sito di Fortress Europe )
 
 
Nato in Libia

La missione è finita

Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha confermato che la missione della Nato in Libia finirà il 31 ottobre.

    In un messaggio su twitter, Rasmussen scrive che il Consiglio Atlantico di ieri, 28 ottobre, ha confermato la decisione presa venerdì scorso: "Il nostro lavoro militare è finito", aggiunge.

    La missione si concluderà ufficialmente alla mezzanotte tra il 31 ottobre e il primo novembre.
 
 

PIOVE, GOVERNO LADRO

DOPO IL DANNO

LA BEFFA DEL CAV

I residenti dovranno pagarsi la ricostruzione

"Dopo il danno la beffa. Le regioni per le quali è stato dichiarato lo stato d'emergenza e  che hanno subito gravissimi danni dovranno, dopo un primo aiuto dello Stato, cavarsela da sole, facendo ricadere i costi sui propri residenti, dunque anche su quelli che hanno perso la casa o i mezzi per lavorare. E' l'applicazione di una legge vergognosa che spazza via il concetto di unità e solidarietà nazionale". Lo dicono i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante.

 "I cittadini liguri e toscani, o solo i residenti delle province di La Spezia e Massa Carrara – continuano i senatori del Pd -  pagheranno di tasca propria i costi della ricostruzione dell'alluvione, perché i 65 milioni stanziati purtroppo non basteranno di certo. Dunque lo Stato sostanzialmente obbliga le regioni ad aumentare le addizionali e l'imposta sulla benzina, e  se necessario anche la Tia e la Tarsu, cioé la tariffa e la tassa sui rifiuti."

     "Si tratta di una misura doppiamente inaccettabile – concludono i parlamentari del Pd – perché colpisce  zone già provate economicamente, scaricando sulle popolazioni locali i costi della mancata messa in sicurezza del territorio che il Governo Berlusconi ha di fatto cancellato dal proprio bilancio".
 
 

LAVORO E DIRITTI

a cura di  www.rassegna.it/

È ancora scontro sui licenziamenti facili

Berlusconi: chi perderà il posto avrà la cassa integrazione.

Bersani: il governo è entrato a gamba tesa sul mercato del lavoro.

I sindacati confermano: daremo battaglia


I licenziati avranno la cig. Parola, non troppo rassicurante per la verità, del premier Silvio Berlusconi. "L'obiettivo - ha detto oggi in una intervista-monologo con Maurizio Belpietro su Canale 5 - è incentivare le assunzioni, non i licenziamenti. I dipendenti troveranno nello Stato, attraverso la cassa integrazione, la garanzia di essere remunerati e avere tempo di trovarsi un lavoro". Insomma: non ci saranno "scontri sociali per le nuove norme sui licenziamenti" prospettate nella lettera all'Europa.

    Sarà, ma in quella missiva, ribadisce il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani intervistato da Radio anch'io "ci sono solo parole, molte già dette, altre una vera e propria minaccia al mercato del lavoro con un intervento a gamba tesa sui licenziamenti. Questo vuol dire che circa 300mila cassintegrati sarebbero licenziati: questo non ha nulla a che vedere con la flessibilità del mercato del lavoro".

     "Questo governo se ne deve andare. Ogni giorno che passa sono altre macerie sul nostro presente e soprattutto sul nostro futuro". Così Susanna Camusso, segretario generale della, in un'intervista all'Unità. "Malgrado Berlusconi abbia puntigliosamente dettato mesi e scadenze - spiega la sindacalista -, credo che non abbia convinto nessuno. È solo un elenco di cose, di luoghi comuni. Si presenterà in Parlamento chiedendo la fiducia sulla libertà di licenziare per decreto? Mi sembra un'operazione mediatica". Sul bersaglio licenziamenti facili, prosegue, "hanno puntato con un accanimento incomprensibile, dall'articolo 18, al collegato lavoro, all'articolo 8, in una società dove mai si è vietato di licenziare. Secondo loro un imprenditore non assume perché‚ poi non potrebbe licenziare. Niente di più falso".

"Il governo agita i licenziamenti solo per ragioni ideologiche, esattamente come fanno sul versante opposto quelli che denunciano soprusi ogni due per tre". Lo dice il leader della Cisl Raffaele Bonanni in un'intervista alla Stampa. "Durante la crisi non abbiamo mai voluto andare allo sciopero - spiega -, per non far perdere soldi ai lavoratori e non danneggiare le aziende. Abbiamo protestato di sabato e fuori dall'orario di lavoro'. 'E adesso - aggiunge - mi dite a che serve anche solo parlare di licenziamenti?'. Sul mercato del lavoro possiamo discutere. Sui licenziamenti no".

 
 

mercoledì 19 ottobre 2011

1 5 0 - I Siciliani

di Riccardo Orioles

 

«Mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa... » disse una volta, profeticamente, Pippo Fava, lo scrittore ucciso dalla mafia a Catania nel 1984. ) Ma gli assassini non hanno potuto cancellarne la memoria. E ora il suo giornale, I Siciliani , rinasce. Ce ne parla Riccardo Orioles, amico e sodale di Fava, oltre che animatore di una nidiata di nuovi giornalisti, a Catania e nel web ( http://www.isiciliani.it/-   http://www.ucuntu.org/ ).

 

Parlare dei Siciliani, in un momento come questo, ha un significato preciso. I Siciliani sono stati una delle primissime voci, e dei primi soggetti militanti, della società civile. Non si parlava delle troie di Berlusconi, a quel tempo, si parlava degli imprenditori mafiosi – e cioè del potere. Se ne parlava direttamente e senza mediazioni, muro contro muro.

    Se ne parlava all'interno di un blocco sociale preciso, i giovani delle facoltà e delle scuole, il ceto medio più civile, e – per brevi momenti – nel corpo della plebe siciliana. Pochi operai, poche fabbriche, ma emarginazione e miseria e un'atavica storia, non dimenticata, di ribellioni.

    Non era ovvio il legame, a quel tempo, fra le fabbriche del nord e i nostri quartieri. Gli operai siciliani in Fiat lottavano come tutti gli altri. Ma tornando in Sicilia trovavano un altro mondo.

    Da allora sono passati trent'anni. La mafia, il potere mafioso, non è più siciliano. Sta dilagando a Milano, a Roma è nel partito di governo. La fabbrica - Marchionne insegna - non è più la patria intangibile, ma il luogo dell'insicurezza e del non-diritto. "Lavoratore" vuol dire, a nord e a sud, tante cose, ma principalmente non avere un posto fisso e dei diritti legali. Sempre più spesso, "precario" sostituisce "impiegato" e "operaio".

 

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La lotta radicalissima di trent'anni fa, contro la mafia imprenditrice e tutto il suo potere è quindi più attuale ancora di prima. Ci manca, quella lotta. Ci manca un'antimafia complessiva, terreno per l'unità delle forze - dei giovani, dei precari, di tutti i non-cannibali del Paese - e per un nuovo patto di generazione. Per un nuovo rapporto col nostro Stato, che dobbiamo difendere ma che dev'essere nostro, com'era stato fondato. L'antimafia, la militanza antimafia, la cultura antimafia, il governo antimafia, in questo preciso senso sono il possibile inizio di qualcosa.

 

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I Siciliani era un giornale, e anche Siciliani Giovani vuol esser tale. Ma i Siciliani erano molto più di un giornale, erano un punto di partenza ed un motore. E anche noi, ora, vorremmo essere tali. In Sicilia? No. Nel Paese. Da soli? No. In rete con altri, con serietà e modestia, tutti insieme.

     "Siciliani" per noi non indica un pezzo di terra, una regione, ma il simbolo di una lotta di tutti, il luogo dove la lotta è iniziata – ma non dove sarà decisa. A Milano come a Catania, a Modica come a Ovada, in questo siamo tutti Siciliani.

 

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E' terminata la prima fase di progettazione, e da domani cominciamo a lavorare al numero uno di questo nuovo/antico giornale. Rinasce con la rinascita del Paese, nelle stesse settimane e negli stessi mesi. Guarda davanti a sé, senza voltarsi indietro. Con una parola di lotta – la Marsigliese, i Siciliani – ed una di speranza. Quel giovani è la storia d'Italia, quante volte tradita dai patriarchi, quante volte salvata dai giovani senza-potere.

 

 

Occupy Wall Street

IPSE DIXIT


Per fortuna - "Per fortuna avevo il casco, altrimenti sarei morto". – Fabio T., carabiniere (Roma, 15.10.2011)


Se l'opposizione - «Se l'opposizione fosse stata presente in Aula e in grado di far parlare uno solo dei suoi esponenti, indicando le cose che un governo alternativo potrebbe fare nel breve periodo che resta della legislatura, il quadro sarebbe cambiato.» – Emanuele Macaluso

 

 

LAVORO E DIRITTI

a cura di  www.rassegna.it


Occupy Wall Street


Intervista a Robert Cammiso, 48 anni: "Guadagnavo più di 100mila dollari. Poi ho perso il lavoro, e ho cominciato a partecipare".


di Davide Orecchio e Fabrizio Ricci


La premessa è d'obbligo: dalle parti di Occupy Wall Street ognuno parla per sé, sempre al singolare e mai al plurale, perché il movimento nordamericano non si è dato leader e nemmeno portavoce. Robert Cammiso però, newyorkese di origini napoletane, dall'alto dei suoi 48 anni si sente in qualche modo "adatto" a raccontare quello che sta succedendo a poche centinaia di metri dal cuore della finanza mondiale, appunto Wall Street.

   Lì, nella Lower Manhattan, a Zuccotti Park, va avanti da quasi un mese un'occupazione simbolica, avviata inizialmente da un piccolo gruppo di giovani militanti che poi si è andato man mano allargando, fino a raggiungere numeri molto significativi (soprattutto per gli Usa) e ad espandersi in molte altre città, grandi e piccole, dal Maine fino alla California. Oggi hanno strappato una vittoria importante: il sindaco Bloomberg aveva annunciato lo sgombero del parco con la scusa dell'emergenza sanitaria. Ma poi l'amministrazione ha rinunciato a pulire il parco. E sotto la pioggia gli occupanti hanno esultato.
    Si autodefiniscono "the 99%", si identificano con "il popolo" ("we, the people"), candidandosi a rappresentare quella grande maggioranza di americani costretta a subire passivamente le decisioni e i soprusi di una ristretta minoranza di miliardari, banchieri e finanzieri, corporations e politici corrotti. I sintomi di una classe media in rivolta ci sono tutti.


Cammiso, che ci fa uno come lei in mezzo a questo movimento fatto soprattutto da giovani e giovanissimi? Quale è la sua storia personale?


Ho lavorato per trent'anni come manager nel settore dell'edilizia. Guadagnavo molto, circa 110mila dollari all'anno. Poi nel 2001 ho perso il lavoro e da lì è cominciata una parabola discendente. Ho cambiato molti lavori, guadagnando sempre meno, finché nel 2010 mi sono ritrovato disoccupato. Allora ho deciso di tornare al college a tempo pieno e ora sono uno studente di logopedia. Quando ho visto quel gruppo di giovani così determinati iniziare l'occupazione a Wall Street mi sono sentito in dovere di raggiungerli e ho cominciato a partecipare.


Ci può spiegare come siete organizzati? Insomma, ormai è quasi un mese che l'occupazione va avanti, ma non sembrate intenzionati ad andarvene tanto presto.


E' un movimento di nuova generazione. Io potrei tranquillamente essere il padre di molti di quei ragazzi. Al tempo stesso è molto sofisticato e democratico, ma non per questo si può parlare di un movimento disorganizzato. Direi piuttosto che è "decentralizzato". Tramite Twitter mandiamo alle persone messaggi istantanei, così tutti possono essere nel luogo prestabilito al momento prestabilito. Due volte al giorno teniamo l'assemblea generale, costruita dai gruppi di facilitazione. Ci sono gruppi per molti temi: media, cibo, sanità, ecc. Ogni rappresentante di gruppo prende la parola e parla a tutti, ma rigorosamente senza amplificazione.


E come riesce a farsi sentire allora?


Usiamo il "people microphone". Chi parla lo fa lentamente, scandendo le parole. Tutti quelli che sono seduti nelle prime file ripetono in corso quello che viene detto. A loro volta quelli più indietro ripetono e così le parole arrivano a tutti, senza bisogno di microfoni o amplificatori. Ci sono anche segni per interagire con chi parla. Per dire che siamo d'accordo, evitando gli applausi che coprirebbero la voce, alziamo le mani con le dita rivolte verso l'alto. Se invece non siamo d'accordo le teniamo puntate verso il basso. Formare un triangolo con le dita significa invece che il concetto non è chiaro e si chiedono spiegazioni. Altro elemento importante: il linguaggio di chi parla è sempre in prima persona: "Io propongo", "Io penso". Non: dovremmo fare questo, o dovremmo fare quest'altro.


Quanti siete ad occupare?


Io non parlerei di occupazione. Secondo me è piuttosto una forma di colonizzazione. Abbiamo creato un'isola autosufficiente in una zona affollatissima di Manhattan. Abbiamo il nostro cibo, la nostra energia (un generatore elettrico): non abbiamo bisogno di nessuno. Attualmente comunque oltre 150 persone dormono nel parco ogni notte. Ma di giorno le presenze salgono a 5mila, 6mila persone. All'ultimo corteo eravamo 25mila. Cifre molto alte per gli Stati Uniti. Un paese in cui le persone non scendono molto in piazza a protestare perché hanno paura di essere arrestate.


E infatti molti manifestanti di Occupy Wall Street sono stati arrestati, tra cui, se non sbagliamo, lei stesso.


Sì, sono uno dei 700 arrestati sul ponte di Brooklyn. Ma quando è successo, dopo che la paura del primo momento si è fatta da parte, mi sono sentito ancora più determinato, capace di tutto. Si aprono nuove possibilità, quando hai superato la paura di essere arrestato.


Cosa pensa delle parole di Obama che ha detto di capire il movimento perché rappresenta il malessere che esiste nel paese?


Il discorso di Obama è stato curioso. Molti politici stanno iniziando ad appoggiarci, ma noi non abbiamo chiesto l'appoggio di nessuno. Questo movimento è stato lanciato da 80 giovani, ma ora che siamo nella quarta settimana le persone iniziano a incuriosirsi. Tuttavia, Democratici e Repubblicani si sono rivelati due facce della stessa medaglia, con in mezzo le corporations.


A proposito di appoggio, richiesto o meno, la scorsa settimana è arrivato quello di molti sindacati e associazioni. Questo è importante o no per il movimento?


Sindacati nazionali e locali sono venuti a marciare insieme a noi. C'erano almeno 10-15mila persone in corteo. Questo è quello che conta. L'obiettivo è che le persone si uniscano a noi, non che lo facciano le associazioni, i sindacati o altre istituzioni. Le persone ci interessano, le sigle no. Quello che sta accadendo è un fallimento di sistema e tutte le organizzazioni sono coinvolte. Ma le persone sono benvenute nel movimento, anche se ci saranno disaccordi. L'importante è comunicare, conversare tra persone uguali.


Qualcuno vi ha ribattezzato il tea party della sinistra, cosa ne pensa?


Rifiuto questa definizione. Questo non è un movimento di destra o sinistra. Stiamo riorganizzando le persone di questo paese intorno a obiettivi comuni. Senza gridare gli uni contro gli altri. Il nostro movimento verte sull'organizzare temi comuni. Non vogliamo farci etichettare: Repubblicani, Democratici... non possono definirci, e questa è la nostra forza. Politici e media sono in difficoltà perché questo movimento non comunica con loro, non li cerca e loro non sanno come raccontarci.


Ok, ma avrete pure degli obiettivi, qualcosa a cui puntate?


Prima di tutto l'idea è di mandare un messaggio: noi esistiamo e non possiamo essere ignorati. Rappresentiamo il 99% della gente. Detto questo, io non posso dirvi cosa vogliamo o cosa non vogliamo. Ognuno di noi ha le sue idee, le sue priorità. Non possiamo fare ora un elenco dei nostri desideri. Non possiamo farlo ora che il movimento sta crescendo e ci sono sempre più persone nelle strade. In ogni caso abbiamo un sito con proposte e richieste ( www.occupywallstreet.org ). Tutti possono pubblicare le proprie. C'è chi chiede l'istruzione gratuita, chi una tassa sulle corporations e sui ricchi e via dicendo. Questo forse è il vero punto di contatto tra di noi, tutti lavoriamo per il bene comune e pensiamo che anche i ricchi debbano contribuire. Se fai soldi, benissimo, nulla di male. Ma devi comunque contribuire al bene comune. Si tratta di rendere le persone responsabili.


In altre parole sembra di capire che vogliate in qualche modo cambiare l'agenda della politica. E' così?


Direi di sì. Qui nessuno vuole l'anarchia o la caduta del governo. Ma sappiamo qual è il problema: le corporations, il governo stesso, le diseguaglianze. Con questi temi vogliamo misurarci e intervenire sull'agenda del governo. Perché in questo paese da troppo tempo i politici vengono a dirci cosa è importante, quali sono le priorità, mentre ora vogliamo essere noi a scegliere. D'altronde, noi siamo il 99%.

lunedì 10 ottobre 2011

Libera Italia

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Due autorevoli esponenti del mondo laico italiano, il radicale Teodori e il socialista Covatta, hanno lanciato un importante Manifesto-appello volto a promuovere la nascita di Libera Italia, "associazione nazionale della democrazia laica, liberale e socialista". Tra i primi firmatari personalità del mondo politico e della cultura come Giovanni Sartori, Franco Reviglio, Alfredo Biondi, Valerio Zanone, Gianfranco Pasquino, Claudio Petruccioli, Gianni Puglisi, Gennaro Acquaviva, Giulio Giorello e Giorgio Benvenuto. Di seguito il testo del Manifesto-appello.

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di Massimo Teodori e Luigi Covatta

www.associazioneliberaitalia.it<http://www.associazioneliberaitalia.it/>

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La seconda Repubblica è al collasso. Dal 1994 nessuna promessa di rinnovamento è stata mantenuta. E' stato interrotto il rapporto fra elettori ed eletti. Il sistema dei partiti non è stato semplificato. La corruzione si è estesa. La democrazia dell'alternanza, allo stato embrionale, è stata avvilita alla mercé di un bipolarismo malfermo fondato su forze dall'incerta cultura politica. L'auspicata rivoluzione antipartitocratica si è ridotta ad una partitocrazia senza partiti.

Le istituzioni sono insidiate da conflitti politici senza regole. Il governo, pur legittimato dal voto, utilizza i metodi del peggiore trasformismo. Il presidente del Consiglio ostenta insofferenza per le garanzie costituzionali. Le opposizioni non riescono ad offrire un'alternativa credibile. Settori della magistratura tendono ad esondare dai loro compiti. Il presidente della Repubblica, unica figura pubblica confortata dal consenso popolare, può esercitare solo una moral suasion per arginare il degrado istituzionale.

La Costituzione, che non è stata modificata neppure nelle parti che tutti dicono di voler cambiare, è scavalcata dalla costituzione materiale. Oggi si tenta di ridurre la riforma federale a merce di scambio e quella dell'ordinamento giudiziario ad occasione di rissa politica. Sul Parlamento grava la deleteria legge elettorale, architettata a vantaggio delle oligarchie centrali e periferiche.

L'elezione dei parlamentari è stata sostituita dalla nomina con cui si perpetuano i notabilati partitici. Milioni di cittadini non sanno a chi dare fiducia: si è così approfondito il vuoto ideale che grava sui rappresentanti politici. E continua l'emarginazione delle forze di democrazia liberale e socialista che nella Repubblica sono state decisive per lo sviluppo e la modernizzazione del Paese.

Partiti di tradizione laica, liberale e socialista sono stati spesso divisi nella storia d'Italia. Ma oggi, dopo l'affermazione della socialdemocrazia in Europa e la diffusione universale della laicità e del liberalismo, le diverse radici possono e devono ricongiungersi in un comune progetto per affrontare le sfide del Duemila. Di fronte a una sinistra e ad una destra che non riescono a trovare basi solide, solo una nuova comune ispirazione alla libertà e alla giustizia sociale può offrire una degna visione del futuro per le nuove generazioni.

E' probabile che l'Italia uscirà dall'attuale crisi con nuovi schieramenti politici, come accadde nel 1994. Qualsiasi sistema ne risulti, non intendiamo rinunciare a una forza che esprima le idealità e le soluzioni riformatrici della moderna democrazia liberale e socialista.

Solo con radici ben piantate nella storia d'Italia e d'Occidente riteniamo che si possano affrontare le sfide del nostro tempo: la internazionalizzazione dell'economia e della finanza, le migrazioni, le disuguaglianze tra ricchi e poveri, i diritti civili e umani, la condizione della donna, la corruzione della democrazia, e il degrado ambientale e culturale del nostro Paese.

Respingiamo una politica, di destra o di sinistra, fondata sul massimalismo o sul moderatismo, sul giustizialismo o sul populismo. Restiamo fedeli al pensiero critico e al metodo sperimentale, consapevoli che tutti gli "ideologismi" finiscono nel conformismo.

Di fronte al dilagare della miseria morale e materiale, all'esibizione del cinismo e dell'egoismo, respingiamo la tentazione dell'antipolitica e dell'a-politica che affiora nella società del benessere conquistata con sacrifici dai nostri padri, ed oggi insidiata da un malessere sociale e culturale che altera bisogni e diritti, erode le pratiche liberali e corrompe le forme democratiche.

La nostra visione del futuro si basa su alcune irrinunciabili idee-forza: uguaglianza dei punti di partenza, diritti individuali, merito, competizione, efficienza economica, welfare senza assistenzialismo, attenzione ai più deboli, buongoverno, Stato di diritto, giustizia non giacobina, laicità, istituzioni forti e controlli efficienti, Europa e Occidente, anti-totalitarismo.

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Video della conferenza stampa di presentazione di Libera Italia<http://www.radioradicale.it/scheda/336851/presentazione-di-libera-italia-lassociazione-nazionale-della-democrazia-laica-liberale-e-socialista>

lunedì 3 ottobre 2011

Il cardinale e i suoi coperchi

A volte ritornano

 

Su Veltroni e D'Alema pesa, per un verso, il loro essere stati comunisti di rango, indelebilmente; per l'altro verso pesa il disfacimento dell'operazione Pd che però può sempre assicurarsi il governo del Paese.

di Paolo Bagnoli

 

"Nel mondo mutevole e leggero – saggezza è spesso cambiar pensiero". La frase di Torquato Tasso e ci è balzata  subito alla mente quando, alcuni giorni orsono, abbiamo letto le dichiarazioni di Massimo D'Alema sul socialismo come storia passata. L'occasione si presterebbe pure a qualche facile ironia poiché i fatti lo smentivano subito dopo visto che – varrà quel che varrà, ma il dato politico è indicativo – per la prima volta dal 1945, i socialisti conquistano la maggioranza nel Senato francese.

    Qualcuno ha pure osservato che, poiché il personaggio non ne azzecca una, quanto diceva era di buon auspicio per il futuro del socialismo. Ma, ripetiamo, la questione è troppo seria per essere liquidata con una battuta. Dopo la fine del Pci e nella vicenda del Pds, D'Alema era colui che aveva sostenuto le ragioni della sinistra, il senso del socialismo e l'esigenza di partecipare ai suoi organismi internazionali fino ad ambire a guidarne qualcuno. Non ci riuscì perché non lo vollero.

    Che Massimo D'Alema non abbia mai creduto nel socialismo era un'ideuzza che ci vagava per la testa. Nella storia italiana sono più numerosi i Giuliano Ferrara che gli Antonio Giolitti, più i comunisti andati a destra che quelli divenuti socialisti. Ma l'uomo, ritenendosi forse l'unico italiano che sa di politica, non fa nulla per nulla. È evidente che una ragione politica ci deve pur essere a base di questa esplicita dichiarazione. Per certuni tutto è sempre tattica.

    A vedere bene, l'operazione è intelligente. E, una volta capito il fine, si comprende anche l'inganno. Vediamo. Il partito democratico, da quando è nato, tutto è riuscito a fare, qualche volta almeno, se pur senza tanta presa, pure opposizione. Ciò che non è mai riuscito a essere è a divenire un "partito". Ora che il rodaggio c'è stato, viene confermato quanto pensavamo circa l'impossibilità di generare un partito vero.

    Un partito degno di tale nome non può prescindere da ceppi culturali storici e da una precisa rappresentazione della realtà. Ciò viene prima di tutto. Poi ci sono, naturalmente, le politiche intese come comportamenti, scelte e così via.

    Di tutto questo nel Pd non vi è, né vi sarà mai, nemmeno l'ombra visto che è nato su una negazione , non su un'affermazione. E la "negazione" riguarda il socialismo dato per morto, e la sinistra per finita.

    E l'affermazione? L'affermazione – si prega di non ridere – sarebbe quella del "riformismo del fare". Qualche settimana fa l'ha rilanciata Walter Veltroni che ha occupato una paginata di "Repubblica" per dimostrare che il niente non è spiegabile. In dottrina politica sicuramente no.

    Veltroni ha fatto il replicante di se stesso, macinando ovvietà politicamente vane, con educazione e persino con passione. Tuttavia, poiché egli, benché portato a fare cinema, è un politico di professione, neanche lui ha ribadito le sue ovvietà per caso, bensì per una qualche preoccupazione.


Ora, quest'ultima sembra prendere corpo con le posizioni della Chiesa, che il cardinal Bagnasco ha recentemente esposto senza reticenza e facendo capire che i cattolici democratici di opposti schieramenti, al di là delle apparenze, sono ben più avanti di quel semplice "annusamento tra cattolici di opposte sponde" che in questi tristi anni peraltro non è mai mancato. Se da tutto ciò nascesse una nuova forza, Bersani, melomane appassionato, potrebbe cominciare a schiarirsi la voce per intonare il De profundis al proprio "partito".

    Se parla Sussi non può certo tacere Biribissi.

    Ecco allora che dopo Veltroni arriva D'Alema il quale con maggiore finezza intellettuale cerca di arginare un possibile devastante futuro: "le grandi forze progressiste al governo non hanno matrice socialista."

    Resistiamo alla curiosità di sapere quali siano le evocate "grandi forze" e dove esse siano (crediamo che la curiosità resterà tale vita natural durante).

    D'Alema cerca di dare sostanza ideologica al "pensiero" veltroniano sostituendo al termine "riformismo" il termine "progressismo". Con la tessa motivazione di Veltroni: l'inattualità del socialismo. Ma con un'aggiunta intellettuale birichina: il progressismo sarebbe la naturale evoluzione storica del socialismo. In via subliminale ci ha fatto intendere che il progressismo dell'oggi sarebbe l'equivalente del socialismo dell'ieri e che lui – complimenti davvero – in quanto presidente della Federazione dei progressisti europei sarebbe il riferimento "vero" di tutto ciò, lasciando indietro il "riformismo" di Veltroni che però evoca anch'esso, almeno nel nome, quella che i nostri ideologi di strada definirebbero una "categoria novecentesca".

    E' stato detto più volte: il riformismo senza aggettivi non si sa cosa sia. Questo progressismo, che subentrerebbe al socialismo "storia passata", è ancora più oscuro. Ma è tatticamente più marcante rispetto all'altro, un collante più forte per un partito di raccolta che perde coloro che aveva raccolto. Valga per tutti il caso di Massimo Calearo.

    Il socialismo, comunque la si possa pensare, ha la sua storia, i suoi ideali, la sua natura, la sua rappresentatività, i suoi problemi. Problemi che, se ci viene passato un bisticcio, più che dal socialismo e dalla sue idee di libertà, democrazia e giustizia per il fine della socializzazione del potere, sembrano derivare dai "socialisti" medesimi, o quanto meno da quelli che hanno smesso di combattere contro la barbarie del capitalismo globalizzato per inseguire le "modernità" del mercatismo e del liberismo globalizzato.

    Su Veltroni e D'Alema pesa, per un verso, il loro essere stati comunisti di rango, indelebilmente; per l'altro verso pesa il disfacimento di un'operazione che, anche se mal riuscita e per molti versi responsabile della forza devastante e dilagante del berlusconismo, può sempre assicurarsi il governo del Paese.

    La filosofia del "governiamo" è ciò che, oggettivamente, li tiene insieme. Insieme tra loro e a tanti altri. Altro che primarie!

    Il diavolo, si dice, "fa le pentole, ma non i coperchi". Stavolta sembra essersi messo a farli il cardinal Bagnasco.

    Com'è noto, chi vivrà, vedrà.
 
 
 

IPSE DIXIT

Prodotto Interno Lordo - «Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani». Robert Kennedy
 
 

LAVORO E DIRITTI

La campana suona anche per le imprese

La presa di coscienza da parte della classe imprenditoriale sul disastro economico rappresenta un fatto positivo. Ma solo assumendosi le proprie responsabilità, gli imprenditori potranno essere credibili

di Emilio Barucci, www.nelmerito.com


In questo periodo stanno succedendo cose strane. L'euro è sull'orlo del baratro, il governo e il Parlamento sono ai minimi termini quanto a credibilità e capacità di agire, confindustria si scopre movimentista: invoca le dimissioni del governo (di centrodestra) e proclama di voler ''salvare il paese''. Bene, di fronte al disastro, una presa di coscienza da parte della classe imprenditoriale rappresenta sicuramente un fatto positivo.

    Gli industriali sostengono che "l'Italia non è un paese in liquidazione". In effetti è vero, ha ancora una struttura industriale forte che a livello europeo si colloca solo dietro la Germania per capacità di esportare. Si tratta di un'anima operosa fatta di piccole imprese ma anche di qualche migliaio di medie-grandi imprese che hanno pienamente accettato la sfida della concorrenza internazionale. Se la classe imprenditoriale italiana intende essere parte attiva di un'operazione salvataggio deve però anche assumersi le proprie responsabilità per come sono andate le cose. Tre sono le questioni cui deve rispondere.

    In primo luogo non si può invocare l'intervento della politica a piacimento secondo il motto ''poco Stato se le cose vanno bene, intervento dello Stato se le cose vanno male con una socializzazione delle perdite''. Per capirsi, non si può invocare un processo di liberalizzazioni e di privatizzazioni per poi chiedere l'intervento pubblico nelle infrastrutture (senza metterci un euro) e per garantire il credito in situazioni di difficoltà (andando ben aldilà dei meriti del privato). Occorre uscire dagli equivoci e riprogettare istituzioni di governo dell'economia coerenti, e non aggiustarsele a piacimento.

    In secondo luogo, le forze imprenditoriali si sono fatte suggestionare a lungo dal progetto politico delle forze di centrodestra che si è contraddistinto per una totale inazione sul fronte dello sviluppo del paese, deregolamentazione selvaggia, crescita della diseguaglianza e distruzione delle istituzioni. Solo ora ci si rende conto che questo progetto politico ha massacrato il paese? Confindustria sembra oramai cosciente dell'errore di valutazione, ha addirittura aperto sulla patrimoniale, aspettiamo proposte concrete anche sulla lotta all'evasione e sulle politiche dei redditi.

    In terzo luogo occorre che le forze vive del paese – come gli imprenditori - facciano la loro parte. Gli imprenditori devono tornare a fare il loro mestiere, cioè investire, rischiare in proprio cercando di agganciare la parte più dinamica della domanda dei mercati internazionali. Per fare questo occorrono soprattutto investimenti che siano in grado di rilanciare la produttività dell'economia. Negli ultimi venti anni –come documentato ampiamente su questa rivista - questo non è successo, la quota degli investimenti delle imprese è diminuita stabilmente, i profitti non reinvestiti sono cresciuti, l'indebitamento è cresciuto, le imprese hanno rincorso la rendita (nei servizi) o hanno risposto alla concorrenza dei paesi emergenti sfruttando il basso costo del lavoro. Una strategia miope che ha fatto sì che il manifatturiero vitale si stia contraendo a vista d'occhio.

    Insomma, la campanella è suonata per tutti. E' finito il tempo in cui si diceva che andava tutto bene perché abbiamo tanti telefonini e che bastava tagliare il carico fiscale e deregolamentare il mercato del lavoro per rilanciare l'economia, occorre che ognuno torni a fare il proprio mestiere all'interno di un quadro di regole certe e coerenti. Se così stanno le cose, solo assumendosi le proprie responsabilità sul recente passato, le forze imprenditoriali potranno essere credibili uscendo dalla vana retorica sulla strategia per la crescita di cui francamente non se ne può più.