Rispondere alla crisi della democrazia con il restringimento
della medesima ci pare cosa molto preoccupante
di Paolo Bagnoli
Insieme alla primavera è arrivata la stagione delle riforme; il presidente del consiglio le ha addirittura calendarizzate. Tra queste, quella sicuramente più in esposizione, riguarda la fine del bicameralismo perfetto, con la conseguente abolizione del Senato qual è oggi, e la sua sostituzione con una Camera delle autonomie.
Vedremo, naturalmente, come andrà a finire, considerato che la strada non è così agevole come la si rappresenta.
Riteniamo che fare del Senato l’emblema da abbattere per avviare il percorso di salvataggio del Paese non solo sia sbagliato e demagogico, ma solleva pesanti e fondati dubbi di merito. Qui vorremmo solo evidenziare due questioni.
La prima: se in Italia il costituente previde un tale ordinamento una ragione ci sarà, ma nessuno si domanda se essa abbia ancora oggi una qualche validità; noi crediamo ce l’abbia.
La seconda: si può ritenere che, in un contesto generale di ridisegno della statualità italiana sia doveroso discuterne, non certo per il motivo meschinamente fasullo dei costi. Ci domandiamo: una democrazia, abolendo e restringendo gli spazi della rappresentatività –questione che investe anche le Province – può ritenersi più forte e meglio funzionante? Crediamo di no.
Ci sembra che per la Repubblica italiana si stia aprendo un terreno molto scivoloso alla cui fine non solo l’espressione della sovranità popolare rischia di vedersi largamente limitata, ma praticamente abolita e relegata, sempre che non si proceda a cambiamenti anche in tutti gli ambiti della rappresentanza, dai comuni e alle regioni.
Vediamo: gli eletti provinciali spariscono, il Senato delle autonomie, nella composizione prevista, non è formato da eletti per quell’incarico e, per quanto concerne la Camera, si pensa a una legge con ancora le liste bloccate; ossia con i deputati eletti come ai tempi del Porcellum, sia pure con diverso meccanismo tecnico.
Ecco il dato di fondo; quello politicamente complessivo, fermo restando che obiezioni sulla legge elettorale per la Camera investono seriamente anche il previsto premio di maggioranza che è, come nella legge Calderoli, una vera e propria vergogna, l'uno non meno anticostituzionale dell’altro.
Così, nell’Italia del nuovo governo, avremo un Parlamento – Camera e Senato delle Autonomie – sostanzialmente deficitario relativamente al principio fondante della democrazia per cui il popolo è sovrano e, in virtù di tale sovranità, elegge i propri rappresentanti.
Ci sembra che, rispondere alla crisi della democrazia, con il restringimento della medesima sia molto, ma molto, preoccupante.
Ci pare, altresì, implicito che con il bipolarismo forzato di coalizione arriverà pure – già se ne sente parlare – la ripresa del tema berlusconiano dei maggiori poteri al presidente del consiglio. Tornerà la ripresa di un tema specifico di Silvio Berlusconi il quale, a fronte della manifesta incapacità nel guidare il Paese, sosteneva che per poter governare l’Italia, occorrevano al premier ben più ampi poteri.
Tali aspetti non sono certo di secondo piano, ma non registriamo né dubbi né una qualche opposizione. Ce lo saremmo aspettati, pur apprezzando l’iniziativa – spregiativamente rigettata come necessità di mettersi in evidenza – di Vannino Chiti.
Siamo, cioè, un po’ stupiti dall’atteggiamento complessivo degli ex-comunisti, provenienti cioè da un partito che aveva fatto della centralità del Parlamento un punto fermo. Al Pci va dato atto, infatti, di essere sempre stato molto sensibile alle questioni di natura istituzionale.
Il ciclone Renzi li sta travolgendo e non riteniamo che sarà la recente riunione dei cuperliani a cambiare il tavolo della discussione. Poi, evidentemente, si tratta di vedere il decorso delle cose. Inoltre, se vogliamo mettere i puntini sulle i, non è nemmeno che Renzi travolga la sinistra poiché essa non c’è più da un bel periodo di tempo.
I sondaggi dicono che oggi il voto operaio, cui il Pci attingeva in maniera consistente, quando non ingrossa l’astensionismo, vaga tra la Lega e i grillini.
Renzi, con spregiudicata intelligenza, ha recuperato un Berlusconi che sembra stare in maggioranza seppure non nel governo e pensiamo che proprio l’area in disfatta del berlusconismo costituisca la grande riserva cui attingere consensi per il Pd. La qual cosa non deve stupire poiché risultava evidente, fin dall’incontro famoso tra i due, che in entrambi staziona una medesima idea di questo Paese.
Una cosa di sinistra, diciamo così, Renzi l’ha fatta, portando il Pd nel Pse; operazione consumatasi in poche ore dopo che gli ex-comunisti vi si erano attorcigliati per vent’anni: è stato bravo. Ma…
Ma tutto conferma una nostra vecchia preoccupazione; ossia che lo sbocco della crisi del Paese, al saldo delle questioni economiche e sociali, difficilmente sembra sfuggire a un approdo autoritativo.
IPSE DIXIT
Sempre tradotte - «Le sconfitte dei partiti maggiormente rappresentativi della sinistra si son sempre tradotte in un arretramento delle condizioni di vita delle classi popolari, anche quando abbiano transitoriamente favorito partiti più radicali.» – Felice Besostri
Indovina chi è questo - «Mi hanno proposto un'alleanza, ma loro sono morti! Non hanno capito di avere a che fare con qualcosa di completamente diverso da un partito politico... Abbiamo una nazione economicamente distrutta... la classe media in ginocchio, le finanze agli sgoccioli, milioni di disoccupati... Loro ci confondono, pensano che siamo come loro. Noi non siamo come loro! Loro sono morti, e noi vogliamo vederli tutti nella tomba... Loro non capiscono che questo movimento è tenuto insieme da una forza inarrestabile che non può essere distrutta... Noi non siamo un partito...». – Dal discorso realmente tenuto a Gottinga nell'agosto del 1932 da Adolf Hitler, sei mesi prima di conquistare il potere in Germania.