lunedì 15 aprile 2013

Il sindacato serve ancora perché sa di che cosa parla

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it



Quando parla del lavoro e dei lavoratori, il sindacato ha cognizione di causa. Non ascoltarlo è parte di questa crisi. Occorre dotare il Paese di strumenti universali di sostegno al reddito.


di Franco Martini

Segretario generale Filcams Cgil


Nell’esprimere mesi fa un giudizio su uno dei provvedimenti più contestati del Governo Monti, Susanna Camusso disse che il premier “non sapeva di cosa parlava”. Tale espressione poteva apparire un peccato di presunzione, in quanto rivolta ad un accademico di scuola bocconiana. Purtroppo, fotografava uno dei maggiori limiti che ha indirizzato l’esperienza di quel Governo verso gli scogli di una delle più gravi crisi economiche e sociali del Paese: il distacco dalla concreta condizione sociale in cui vivono le persone. Non basta essere buoni tecnici, ancor meno valenti saggi se le competenze appaiono sempre più estranee al vissuto quotidiano. L’esempio degli esodati è forse il più emblematico di quanto il distacco tra teoria e realtà, ben lungi da offrire soluzioni ai problemi, ne rappresenta al contrario un ulteriore aggravamento.

    Le posizioni espresse dall’economista Mauro Gallegati, al netto delle opinioni di merito, sembrano riproporre lo scollamento con la realtà concreta e verrebbe, anche in questo caso, da chiedersi quanto il pensiero teorico sia ispirato da una effettiva conoscenza delle situazioni concrete e dei processi reali.

    Alcune considerazioni appaiono sicuramente suggestive ed in parte condivisibili. L’incapacità del modello capitalistico di rispondere ai problemi nuovi dello sviluppo ed il fallimento delle politiche neo-liberiste. Così come la necessità di immaginare nuovi processi redistributivi del lavoro, a partire dall’orario, oppure, il superamento della dicotomia tra flessibilità e precarietà.

    Possiamo condividere anche la necessità di superare una visione tutta chiusa nel breve periodo, quello dell’emergenza, per assumere un profilo di più lunga prospettiva, dove si definiscono i connotati di una società più equa. Più che un sogno o una utopia, questa è proprio la necessità prioritaria che dovrebbe orientare il dibattito sulla crisi e le sue possibili vie di uscita.

    Molto più discutibili sono altri concetti, in alcuni casi contraddittori con le tesi enunciate in partenza.

    Intanto, pare sfuggire la centralità del lavoro, quale paradigma di un nuovo modello di riorganizzazione e di sviluppo dell’economia. A partire, ovviamente, dal lavoro che non c’è. Se si evidenzia, giustamente, che la gran parte delle nuove generazioni sono condannate a formare un esercito di futuri pensionati poveri e si mette in relazione questo fenomeno alla mancanza di lavoro (del resto, siamo ai vertici delle graduatorie mondiali sulla disoccupazione giovanile); se si aggiunge che tale fenomeno non riguarda più solo le fasce più giovani della popolazione, ma i 40-50enni vittime della pesante recessione che ha investito tutti i settori produttivi del Paese, non si può non assumere l’obiettivo dell’espansione della base occupazionale come la vera emergenza delle prossime ore, non dei sogni utopici.

    Di tutto ciò non appare traccia nel pensiero tsunamico del quale siamo stati investiti. I suicidi che hanno scosso le coscienze del Paese sono a dirci che non è più tempo di titoli e sottotitoli. Occorre prendere decisioni immediate: quali settori, quali progetti, quali risorse, quali soggetti. Fuori da questo contesto la stessa discussione sul reddito di cittadinanza rischia di concentrarci sulle conseguenze, piuttosto che sulle cause della condizione di precarietà sociale. E’ fuori dubbio che occorre dotare il Paese di strumenti universali di sostegno al reddito, ma tale misura risulta più credibile se collocata dentro una vera politica di rilancio dell’occupazione e di una riforma del mercato del lavoro che riduca, fino ad eliminarle, le disuguaglianze. Mentre quella che abbiamo ereditato dal Governo Monti non fa che aumentarle, ad esempio, proprio in relazione agli strumenti di protezione (la mini-Aspi è peggiorativa delle condizioni precedenti). Ma su questo registriamo un silenzio sospetto da parte di molti economisti.

    Sul tema della rappresentanza e del sindacato l’opinione di Gallegati è decisamente poco condivisibile e non per difesa d’ufficio, quanto per analogo distacco dell’analisi svolta dalla realtà concreta.

    Intanto, il tema della rappresentanza e della sua crisi non è questione limitata al sindacato. Anche in questo caso è quanto meno singolare il silenzio perdurante degli analisti sul fenomeno ancor più eclatante della crisi di rappresentanza, che riguarda innanzitutto il mondo delle imprese. Nel settore terziario la rappresentanza datoriale si va giorno, giorno sfaldando, favorendo dinamiche esattamente opposte a quelle virtuose che vengono immaginate nell’utopia partecipativa di cui si narra.

    Ma il vero punto di dissenso riguarda proprio l’idea dell’esaurimento della funzione sindacale quale conseguenza del superamento del bisogno di rappresentanza del lavoro. Evidentemente non si è a conoscenza dei processi reali in corso che caratterizzano la riorganizzazione di interi settori, tanto del manifatturiero, quanto del terziario. Il lavoro è sicuramente espressione di un diritto individuale, dal quale muove l’intero impianto della nostra costituzione. Ma la complessità dei processi organizzativi, indotti dalle sfide competitive sempre più estreme, rendono impossibile l’esercizio di tale diritto fuori da una capacità di rappresentanza collettiva del lavoro, in tutte le sue articolate espressioni.

    Ritenere superata la contrattazione collettiva significa sottrarre ad ogni singolo lavoratore la condizione essenziale per incardinare il proprio rapporto di lavoro ad un sistema di diritti universali. Basta orientare lo sguardo su ciò che sta accadendo da tempo in tutti i settori. Nessuno mette in dubbio l’esigenza di avvicinare la contrattazione al luogo di lavoro, ma con quale fondamento si può pensare di ritenere superata la contrattazione collettiva di primo livello in settori quali quelli degli studi professionali, o del lavoro domestico, o dei servizi in appalto, oppure nei piccoli esercizi commerciali, sempre più massacrati dallo sviluppo insensato delle grandi superficie distributive? Quale partecipazione aziendale si può immaginare in queste realtà? Quale reale capacità di autorappresentanza può esistere in questi mondi del lavoro, al di fuori di un soggetto collettivo, in grado di offrire un riferimento alla solitudine del lavoro, spesso precario?

    Ritenere superato il sindacato significa ritenere superate le ragioni per le quali il sindacato, quale soggetto collettivo di tutela, è nato! Comunque la si giri, immaginare di affidare ad una non ben precisata partecipazione aziendale l’esercizio dei diritti dei lavoratori significa semplicemente prospettare una condizione di piena subalternità all’azienda, una condizione di ricatto, che nelle fasi di crisi profonda come quella che stiamo vivendo, assume connotati ancor più violenti.

    Temo avesse ragione Susanna Camusso a domandarsi se i tanti professori che da tempo si adoperano per spiegarci come uscire dalla crisi “sanno di cosa parlano”. La verità è che il lavoro, le sue condizioni, i suoi drammi (soprattutto quando esso viene meno) da tempo non sono più all’attenzione, tanto dei vecchi, quanto dei nuovi protagonisti della scena politica. E purtroppo esso non è tema semplicemente da declamare o reclamizzare. Bisogna effettivamente sapere di cosa si parla e per saperlo bisogna frequentarlo. Il sindacato avrà pure mille difetti ed è bene che si guardi in casa, per non rimanere travolto dalla montante crisi di sfiducia. Ma resta pur sempre uno dei pochi soggetti “tirati per la giacchetta” quotidianamente. Il sindacato, quando parla del lavoro e dei lavoratori, ha cognizione di causa. Non ascoltarlo è parte della responsabilità di questa crisi.