martedì 3 febbraio 2015

Tsipras e sindacati, un dialogo difficile

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

  

di Dimitri Deliolanes

 

La dura crisi scoppiata nel 2010 ha dato un colpo decisivo alle due organizzazioni centrali. Sia la GSEE che l’ADEDY hanno proclamato più di una trentina di scioperi generali, ma senza alcun risultato. Non solo è stato violentemente abbattuto il costo del lavoro (in media di circa il 40%) ma anche i diritti sindacali sono stati drasticamente limitati. Perfino i contratti collettivi di lavoro hanno perso ogni rilevanza legale. Questo ha provocato una grave crisi di rappresentanza e incisività nel movimento sindacale greco. Syriza ne soffre ancora di più. La sua impetuosa crescita di consensi non si è tradotta anche in maggiore influenza all’interno delle due confederazioni. Persino al livello dei sindacati di categoria o negli ordini professionali, la corrente del partito, denominata META (Schieramento di Classe e di Lotta degli Operai e degli Impiegati) si trova in minoranza. L’intervento sul mondo del lavoro, quindi, deve per forza passare attraverso l’opera del governo.

    Nel programma economico del nuovo esecutivo la questione del lavoro sta ovviamente al primo posto. Come Tsipras ha annunciato già a settembre a Salonicco, i provvedimenti previsti si basano su due pilastri. Il primo è l’immediato intervento in favore delle famiglie senza alcun reddito. A questo si è voluto associare, però, anche un ripristino del minimo salariale ai valori pre-crisi, cioè 780 euro al mese al posto degli attuali 470. Il secondo pilastro è quello più noto e riguarda l’elaborazione di una strategia di sviluppo economico del paese. Su questo Syriza e lo stesso Tsipras sono stati molto riservati finora, e c’è un motivo. Il ragionamento del premier è che la Grecia ha ottenuto, con un costo altissimo e con una dose di contabilità creativa, un surplus notevole, quindi il settore pubblico non costituisce più quel pozzo senza fondo che inghiottiva enormi risorse statali. Il problema è il debito che pesa in maniera determinante sul bilancio dello stato, visto che ha raggiunto oramai il 176% dell'esiguo Pil greco. La proposta di rinegoziare il debito nasce da questa esigenza di liberare risorse per investimenti in favore dell’economia reale e creare occupazione, ed è accompagnata anche dalla condizione che la restituzione del debito sia accompagnata da una ripresa dello sviluppo. Tsipras ha ripetuto molte volte che non ha intenzione di tornare all’epoca dei deficit e per questo lascia ogni elaborazione riguardo una possibile strategia di sviluppo agli esiti della trattativa con l’Unione Europea. Sarebbe impossibile per qualunque governo greco fare piani sulla carta con capitali inesistenti, rispettando le norme in vigore sul deficit ed evitando di ricorrere ai mercati.

    Non resta quindi che valutare i possibili effetti che potrebbe avere sull’economia greca il ripristino dei minimi salariali del periodo pre-crisi. Secondo Tsipras, tali effetti sarebbero sicuramente positivi: aumentando, anche se di poco, gli stipendi, c’è speranza che tragga nuovo alimento il mercato e il denaro cominci a girare e provochi un aumento dei consumi, dando un po’ d'ossigeno all’oceano dei ceti medi ora in condizioni disastrate. Di più non si può sperare.

    Come finirà questa trattativa? Non è possibile fare previsioni. Evidentemente, non tutto il piano di Atene sarà recepito da Bruxelles è possibile dire già da ora che nessuno tirerà la corda con il rischio di spezzarla. Quindi tutte le chiacchiere sul possibile “grexit” erano solo espedienti pre-elettorali, finalizzati a spargere il terrore tra gli elettori incerti. Una volta che si sono dimostrati inefficaci, sono stati dimenticati già dopo la chiusura delle urne. L’essenziale è comprendere l’importanza attribuita dal nuovo governo ateniese alle reazioni degli altri governi europei, in particolare di quelli dei paesi indebitati come l’Italia. Tsipras ritiene, non a torto, che il caso greco fungerà da catalizzatore in modo da accelerare il processo di sganciamento dal merkelismo di gran parte dei governi interessati. D’altronde, in questa direzione lavora anche Draghi.  >>> Continua su rassegna.it