Due anni dopo il terremoto nel Centro Italia molti lo pensano: “Lo stato non può ricostruire tutto”. Assisteremo, dunque, a un ulteriore spopolamento della montagna appenninica? Se sì, allora dobbiamo mettere in conto perdite inaudite di beni artistici e culturali, oltre alle conseguenze catastrofiche sulla tenuta idro-geologica dei territori spopolati. Eppure, abbiamo milioni di disoccupati, che potrebbero essere coinvolti in un “esercito del lavoro” capace di offrire percorsi di riqualificazione e operosità utili a tutti, e utili anche ad aprire un nuovo capitolo della democrazia italiana.
di Andrea Ermano
Ho esperienze personali e dirette di eventi sismici. Ma il problema della ricostruzione è molto più complesso di quanto pensassi. Me ne sono reso conto assistendo all’inaugurazione della mostra zurighese dedicata alle foto che Claudio Colotti ha scattato “tra volti e macerie” dopo il sisma nel Centro Italia.
Il complesso problema della ricostruzione è ben evidenziato dal fatto che – accanto ai compiti della prevenzione anti-sismica, tragicamente trascurati nel nostro Paese, e accanto alle questioni connesse allo stato d’emergenza – due sono le catastrofi con le quali veniamo brutalmente confrontati: la prima sta nella perdita di vite umane che coincide con l’evento tellurico, la seconda è quella che segue sul piano del tessuto territoriale nel decennio successivo all’evento, essendo noi esseri umani esposti a una sorta di paralisi per impotenza di fronte alle devastazioni che un grande terremoto porta con sé.
Dal lungo sciame sismico che ha distrutto il Centro Italia emerge una quasi inconcepibilità financo dei criteri a cui poter improntare una ricostruzione, perché è molto arduo enunciare termini e principi in base ai quali procedere entro le attuali compatibilità di sistema.
Il caso di Amatrice è emblematico. Questo antichissimo centro della Sabina è quasi completamente distrutto. E ci si domanda: quanta Amatrice ricostruire? La capienza abitativa massima (al livello demografico del 1911) superava le diecimila persone. Un secolo dopo, però, il lungo processo di spopolamento della montagna appenninica ha fatto sì che la cittadina ospitasse ancor soltanto duemilaseicento abitanti, e ciò durante la stagione estiva, includendo turisti e villeggianti, mentre d’inverno la popolazione si riduceva alla metà. Oggi, dopo le scosse del 2016, non sappiamo quante persone vorranno e potranno continuare a vivere in loco.
In Friuli, dove la macchina della ricostruzione si era mossa con un certo grado di rapidità, ci sono voluti pur sempre otto-dieci anni. Nella Sabina terremotata bisognerà attenderne, quindi, almeno altrettanti anni prima di poter vedere ricostruite le case. Ma, mentre nel Friuli del 1976-1986 la situazione socio-economica appariva stabile per non dire in espansione, ad Amatrice oggi nessuno sa dire quanti edifici debbano essere rimessi in piedi. Bisogna restaurare ad integrum l’Amatrice dell’anno 1911 (abitanti 10'347), oppure quella del 2011 (abitanti 2'646)? Quanto grande potrà essere la cittadina nel 2026?
In queste condizioni, oltre tutto caratterizzate da un contesto socio-economico che non collima né per fase né area né scenari con nessuna situazione precedentemente nota, è davvero molto arduo concepire un serio piano urbanistico.
Fin qui il caso di Amatrice. Che va però centuplicato, dato il numero dei comuni colpiti.
Ed ecco, dunque, perché molti pensano e dicono che: “Lo stato non può ricostruire tutto”.
Ma se non lo stato, chi altri potrebbe? E questo appunto è ciò che si diceva: siamo alla paralisi per impotenza, paralisi tanto più grave in quanto nel Centro Italia sono custoditi inestimabili tesori d’arte, patrimonio dell’intera umanità.
Assisteremo, dunque, a un ulteriore spopolamento della montagna appenninica? Se sì, allora dobbiamo mettere in conto perdite di beni culturali in proporzioni inaudite, e non solo questo. Perché un ulteriore spopolamento produrrebbe ulteriore dissesto idro-geologico, con ricadute altamente negative su intere regioni d’Italia e importanti città.
Di fronte a questo triste scenario, uno stato degno del nome dovrebbe fare qualcosa di concreto. E invece assistiamo a gesticolii e ululati sovranisti davvero senza costrutto, come dimostrano le varie crisi xenofobiche scoppiate nel corso di quest’anno.
Bisogna reintrodurre il servizio di leva previsto dall’articolo 52 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.
E noi domandiamo: difendere il territorio della Repubblica, il patrimonio artistico, i beni e la vita dei cittadini terremotati non rientra forse proprio in questo “sacro dovere”?
Se la Costituzione sancisce con solennità che il “servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge”, che cosa ci impedirebbe di poter soddisfare la lettera e lo spirito della nostra Carta fondamentale utilizzando la pala e il piccone, anziché il fucile e la baionetta?
Attendiamo il parere dei giuristi.
Ci sono oggi in Italia milioni di disoccupati, che potrebbero essere coinvolti in un “esercito del lavoro” (per usare un’espressione cara a Ernesto Rossi) capace di offrire percorsi di riqualificazione e di operosità utili a tutti.
Il nucleo progettuale di un socialismo democratico sta e cade in questo XXI secolo con la capacità sul piano economico di mettere in campo una nuova dimensione del “pubblico”, oltre l’orizzonte del deficit spending. Per farlo non esistono ricette monetarie o finanziarie. Occorre tirarsi su le maniche e “mettere insieme” quelle attività fisiche e mentali comunemente dette “lavoro”.
Occorre coordinare in modo intelligente queste attività fisiche e mentali dentro a un “esercito del lavoro”. E occorre subordinare la grande mobilitazione di massa che ne scaturirebbe a scopi di pubblica utilità, che pure non mancano: la gestione dell’acqua, dei beni culturali, la conservazione del territorio, l’accudimento sociale, l’accoglienza, la formazione permanente ecc. ecc.
Il volontariato non basterà. Né basterà la chiesa. Né, tanto meno, basterà il “libero” mercato. Occorre osare più democrazia e più partecipazione. Ecco perché un servizio di leva civile universale è assolutamente utile a realizzare nuove forme di auto-gestione in rapporto a tutti quei lavori che nessuno fa e che pure devono essere fatti.
Un nuovo, grande New Deal può portarci fuori dalla lunga crisi attuale. E Amatrice può essere salvata. Dall’art. 52 della Costituzione.
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