di Andrea Ermano
Cosa ci suggerisce la tesi di Emanuele Macaluso (vai al video sul convegno "Sinistra anno zero") circa la prevedibilità della crisi a strapiombo in cui versa il PD? Forse vuol dire che l'attuale situazione può essere compresa razionalmente e che quindi forse un rimedio è ipotizzabile.
Crisi talmente tanto prevedibile e prevista, che sulla nascita del PD, accompagnata all'epoca dalle solite fanfare mediatiche, noi manifestammo controcorrente e con molta chiarezza, già nel 2006, una serie di obiezioni fondamentali. E poi ancora due anni fa, nel giugno 2016, ci domandavamo preoccupati che cosa stesse succedendo di quella forza politica. L'onnipotente Renzi correva alla cieca verso una revisione costituzionale in "combinato disposto" con l'Italicum proprio mentre l'Italia, per dirla con Stefano Folli, scivolava "un passo dopo l'altro verso i Cinque Stelle".
Renzi puntava a un Senato ridotto a 100 seggi di nomina regionale. Ma non si rendeva conto di predisporre così le condizioni per un assalto al Colle?! In base all'Art. 90 della Costituzione «il Presidente della Repubblica (…) è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». Ora, se il Parlamento passa da 945 a 730 membri, e per di più eletti con quelmaggioritario, di fatto sul Capo dello Stato pende una spada di Damocle perché a quel punto basteranno 366 voti in tutto per avviare, o minacciare di avviare, la procedura di impeachment, con esiti istituzionali di gusto, diciamo, brasiliano.
Ipotizziamo che un governo populista intenda far fibrillare la nostra adesione all'Euro annunciando per esempio una consultazione popolare su di un qualche regolamento applicativo connesso alla moneta unica. Il Presidente della Repubblica potrebbe pur sempre replicare che la Costituzione vieta di abrogare per via referendaria i trattati internazionali, e poco importa se ciò non potendo avvenire direttamente, si realizzi indirettamente, aggredendone "solo" il regolamenti attuativi. Su questa base il garante della Costituzione avrebbe buon gioco a rifiutarsi di firmare le eventuali deliberazioni del governo. E fin qui tutto bene.
Ma che ne sarebbe di noi oggi se ci muovessimo, invece, nella logica del "combinato disposto" renziano? In tal caso il Parlamento sarebbe dominato, si badi, da un'unica forza politica, minoritaria nel Paese, ma maggioritaria alla Camera grazie all'Italicum che l'avrebbe messa in grado di innescare da sola lo stato d'accusa, ovviamente gridando al tradimento del mandato popolare, e senza bisogno di trattative o alleanze. Disporrebbe così di una deterrenza inaudita contro l'inquilino del Quirinale. E allora chi potrebbe tutelare l'ancoraggio euro-occidentale dell'Italia?
Fortunatamente nel referendum del 4 dicembre 2016 ha vinto il No. E il "nostro" Felice Besostri, l'avvocato socialista autore del ricorso contro il Porcellum, è poi riuscito a portare anche il contenzioso sull'Italicum al giudizio d'incostituzionalità della Consulta, pronunciatasi con la sentenza n. 35 il 25 gennaio 2017.
Ma già sull'ADL del 9 giugno 2016, di fronte all'azzardosa prospettiva tratteggiata qui sopra, noi scrivevamo (e ci si consenta l'autocitazione): «Com'è mai possibile che un fattore politico di tali proporzioni sia rimasto celato alla consapevolezza dei piani alti del renzismo?». La conclusione che ne traevamo (accanto a un posizionamento per il No al referendum) era di grande inquietudine, perché: «Non sarà agevole affrontare il mare mosso su una nave istituzionale malsicura. E dunque, come si capisce, i due anni di renzismo, perduti, oggi pesano e domani peseranno ancor di più.» E in ciò facevamo esplicito riferimento anche alle dinamiche esplosive, poi effettivamente esplose, di un'immigrazione completamente sgovernata, ad ulteriore incentivo della radicalizzazione: «Basterà attendere che la "radicalizzazione" degli immigrati si "islamizzi" e quella degli autoctoni si "fascistoidizzi" ("lepenizzi", "salvinizzi", ecc.)… Il risultato sarà quello di destabilizzare dalle fondamenta ogni ragionevole proposta politica».
Al punto in cui si era valutammo, infine, che: «Renzi dovrà decidere se dare fuoco alla casa e auto-rottamarsi oppure superare il proprio atteggiamento divisivo, riaprendo un dialogo con le componenti di sinistra, all'interno e al di fuori del suo partito. Il senso della misura e della responsabilità consiglierebbero a tutti uno sforzo di riflessione unitario. Perché ogni grande disastro ha una ricetta relativamente semplice, ma infallibile: sopravvalutare le forze proprie sottovalutando del pari l'entità dei problemi da affrontare».
Questo scrivevamo allora. Cosa possiamo aggiungere oggi? Ascoltiamo il principale esponente della posizione mai stata comunista e neanche mai socialista, il grande giornalista, scrittore e regista italiano Walter Veltroni: «Amo l'idea del PD che ho fondato con milioni di persone e che non vorrei vedere affondare. Rischio che si manifesta evidentemente quando un partito che ha perduto la metà dei voti, il rapporto con gli strati popolari e con i giovani, che è stato sconfitto a tutte le elezioni da quattro anni, che ha inaridito la sua vita interna in un delirio di capicorrente e capi bastone, oggi – invece di approfondire le ragioni della più grande sconfitta delle forze di progresso dal dopoguerra e della nascita di un nuovo bipolarismo populista – sembra continuare come in questi anni, impermeabile ai risultati.»
Di ritorno da un altro continente, lui ama l'Idea del PD... Non vorremmo interrompere emozioni, ma il problema di questa sinistra, a nostro sommesso parere, sta nel non avere proprio nessuna Idea. E mai la gente si fida di un personale politico senza Idee cioè al soldo di tutte le metafore. Non da ultimo anche per questa ragione la sinistra italiana a trazione PD è complessivamente passata, nel computo dei consensi, dal 45% al 35% (firmato Veltroni), dal 35% al 30% (firmato Bersani) e dal 30% al 25% (firmato Renzi). Non chiamatelo tradimento ideale, se non vi piace, purché vi sia chiaro che la catastrofe ha una sua regolarità.
E per le esigenze giornalistiche di un editoriale potremmo anche fermarci qui.
Ma c'è una notazione del 1971 di Carl Schmitt sul "progresso scatenato" che aiuta la comprensibilità. Si trova nel volume Le categorie del 'politico', curato dall'ideologo della Lega d'antan, Gianfranco Miglio: «Il progresso scatenato (…) rimanda al futuro e induce aspettative crescenti, che esso stesso supera con nuove aspettative sempre più grandi». Quando la Società Editrice "il Mulino" pubblicava queste parole, Matteo Renzi non era ancora nato, ma il suo ritratto politico di "annunciatore" era già tutto inscritto nel firmamento del "progresso scatenato".
Poi nacque, crebbe, divenne sindaco di Firenze, e si scatenò. Chi non ricorda le prime assemblee alla Leopolda, il fervore di mille iperboli cibernetiche, e lui che tutti elogiava e tutti motivava: di più, di più, di più!
Che cosa resta di quella bellissima cavalcata? Resta che su itinerari di questo genere alla fine vincono sempre gli Schmitt, i Miglio e le destre reazionarie. Perché tra il populismo degli annunci mirabolanti e quello della paura securitaria, il secondo finirà sempre per ereditare la bolla del primo non appena questa scoppia.
Dicevamo del senso della responsabilità che consiglierebbe a tutti uno sforzo di riflessione unitario, utile a fornire risposte in positivo e nell'interesse generale. Guido Calogero osservò una volta che due premesse o negative o particolari non concludono. Così anche in politica: non basta rottamare avversari o impadronirsi di un partito o anche di un'intera nazione per fare Politica con la P maiuscola. Occorrono premesse universali e affermative, cioè occorrono Idee, se uno ne ha. Cioè occorre essere anche disposti a pagare un prezzo: a) per averle, b) per non tradirle.
Quindi, sbaglia chi va sostenendo che il PD non potrebbe fare governi con nessuno, pena la propria scomparsa: è un altro combinato di premesse inconcludenti, l'una negativa, l'altra "particulare". Senza contare, nel merito, che il PD "potrebbe", e che l'interesse del Paese sta al di sopra dei singoli partiti o esponenti politici.