mercoledì 14 maggio 2008

Il dramma israelo-palestinese

Il dibattito su Israele, la sinistra e il sionismo
Si conclude oggi la riflessione avviata da Besostri su "Israele e il sionismo". La prima puntata ("Israele, la Sinistra e il Sionismo") era apparsa sull'ADL dell'8 maggo scorso, la seconda puntata ("La Terra santa e la sua invenzione") è stata pubbllicata ieri. Testi precedentemente pubblicati sul medesimo tema: Vera Pegna, "Sionismo o pace: la scelta è vostra" (ADL 28.4.08), Claudio Vercelli, "Lo Stato d'Israele ha sessant'anni" (ADL 5.5.08).

di Felice Besostri
Il dramma israelo-palestinese si scatenò quando la risoluzione delle Nazioni Unite, che poneva fine al mandato britannico e prevedeva la spartizione della Palestina in due stati non fu accettata dagli Stati arabi confinanti, che scatenavano la guerra nel 1948.
In una situazione di guerra ogni parte può ricordare le atrocità dei nemici, coprendo ed ignorando le proprie: nessuna di esse giustifica le altre.
Ora possiamo scegliere tra due strade, quella della vendetta e quella della composizione dei contrasti.
Nella scelta peseranno inclinazioni, esperienze subite di ingiustizie, ma anche gli obiettivi da raggiungere e gli interessi da tutelare.
Nella mia opinione l’interesse primario della popolazione israeliana e palestinese è nella pace, Shalom e Salam, nello sviluppo economico e civile, in questo caso particolarmente dei palestinesi.
Problemi giganteschi, ma che possono essere aggravati se la condanna di pratiche di occupazione, di chiusura di frontiere e di massicce rappresaglie diventa accusa di genocidio e di pulizia etnica.
La popolazione araba palestinese ed araba israeliana è incessantemente cresciuta di numero, anzi settori dell’opinione pubblica israeliana temono proprio il dinamismo demografico della popolazione araba. Una grande Israele estesa alla Cisgiordania in poco tempo avrebbe una maggioranza araba e mussulmana, a quel punto il mantenimento del controllo del Parlamento e del Governo richiederebbe la negazione della democrazia, non concedendo il voto ai cittadini acquisiti ovvero deportando la popolazione.
La necessità di un processo di pace è quindi nell’interesse degli stessi israeliani, anche se il dibattito sulla natura dello Stato di Israele, se Stato ebraico o Stato per gli ebrei, è ancora in corso.
I rapporti tra sionismo e religione, sono stati burrascosi, fatto che non si può dimenticare e che dovrebbe rendere cauti spiriti laici a brandire personalità e pensatori religiosi contro il sionismo e perciò contro lo Stato di Israele.
Basta leggere i racconti di Isaac B. Singer per rendersi conto dello scompiglio portato dai sionisti, nel mondo chiuso delle comunità ebraiche in cui dominavano rabbini e zaddik. La liberazione delle donne, lo scatenamento di energie, il desiderio di conoscenza sono stati un fattore di progresso e di normalità ebraici.

La creazione dello Stato di Israele ha innsecato un imponente esodo di popolazione palestinese, in parte forzata in parte volontaria, nell’illusione che fosse temporanea. Qualunque accordo di pace dovrà tenere conto della volontà del ritorno dei profughi e dei loro discendenti, ma parliamoci chiaro un illimitato ritorno non è né realistico, né ragionevole se la prospettiva è quella di due popoli, due Stati.

La Palestina non è l’unico caso nel secondo dopoguerra: milioni di tedeschi dai Sudeti, dalla Prussia orientale e dai territori ad est dell’Oder assegnati alla Polonia o dei Greci che hanno dovuto lasciare insediamenti millenari nei territori turchi, i musulmani indiani in seguito alla divisione dell’ex dominio britannico tra India e Pakistan, in minore misura gli italiani dell’Istria e della Dalmazia ed in tempi più recenti a Cipro in seguito all’invasione turca della parte settentrionale dell’isola.

In tutti questi casi ha prevalso la volontà politica di integrarli, non di tenerli in campi profughi.
Popolazione palestinese è stata cacciata o se ne è andata dalle terre ancestrali, ma nel contempo Israele ha accolto gli ebrei yemeniti ed etiopi e tutti gli ebrei delle comunità sefardite dei paesi arabi dalla Siria al Marocco per non calcolare i milioni provenienti dall’ex Unione Sovietica e da altri paesi dell’Europa orientale, specialmente dopo le politiche antisraeliane post 1956, che sono diventate presto antisemitismo ufficiale.

Un rovesciamento di antichi rapporti, malgrado i processi staliniani, che colpirono molti dirigenti comunisti di origine ebraica, come il ceco Slausky.

L’URSS fu il secondo stato al mondo a riconoscere Israele e alla morte di Stalin il giornale del Mapam, il partito sionista socialista di sinistra forte tra i kibbutzini uscì con il titolo in prima pagina “Il sole dei popoli si è spento”. Fino al 1956 le simpatie della sinistra per Israele erano scontate, un misto di rispetto per le persecuzioni subite dal fascismo e dal nazismo, per l’eccezione democratica che Israele rappresentava in tutta l’area, per non parlare dei criminali nazisti accolti nei paesi arabi e dai loro regimi più autoritari. In seguito ha prevalso, nei settori della sinistra più legati all’Unione Sovietica, l’antiamericanismo viscerale, che si estendeva automaticamente agli alleati degli USA.

Il naturale sostegno al movimento di liberazione dei popoli si è esteso ai palestinesi, popolo oppresso e sotto occupazione militare, ma il giusto sostegno ad una causa si è trasformato in accecamento totale nei confronti non solo del Governo di Israele, ma dell’intero popolo israeliano e per estensione degli ebrei.

Ci sono episodi come la bara depositata davanti alla Sinagoga di Roma durante un corteo sindacale che segnano una rottura psicologica e politica tra ampi settori della sinistra ed Israele e la comunità ebraica.

L’accecamento fanatico ha impedito di comprendere e valorizzare quei settori israeliani, impegnati nel processo di pace, come Shalom Akshav (Pace Adesso) da un lato e di condannare la deriva terrorista ed integralista islamista delle formazioni palestinesi dall’altro.

Se si è di sinistra è inaccettabile che non si siano levate in tempo voci critiche nei confronti della corruzione dilagante nell’OLP e nell’ANP, così come la pratica corrente della tortura nelle prigioni palestinesi e le esecuzioni, senza processo, di presunti collaborazionisti, come la repressione degli omosessuali e delle voci critiche di pochi isolati intellettuali palestinesi.

Parafrasando Maxim Gorki “proprio perché sono dalla parte dei palestinesi non posso perdonare tutto quello che fanno”, così come essendo dalla parte di Israele non si può tacere di fronte a qualsiasi cosa il suo Governo faccia.

Se si può ora parlare di nazione palestinese, paradossalmente è grazie ad Israele: è un’identità nata dalla contrapposizione ad Israele. Niente di strano il sionismo è nato anche come reazione all’antisemitismo ed alla sua manifestazione più virulenta: i pogrom. L’identità nazionale palestinese corre un pericolo che prevalgano gli islamisti: la fuga dei palestinesi cristiani è un segnale preoccupante in questa direzione, così come la contrapposizione tra Hamas ed al-Fatah.

Il movimento palestinese rischia di diventare la pedina della Siria, attraverso Hezbollah, e dell’Iran: un movimento eterodiretto, da giocare sullo scacchiere internazionale accrescendo la dipendenza di Israele dagli interessi geostrategici USA.

Bisogna infine essere consapevoli che porre nel piatto della sinistra italiana anche il conflitto israelo-palestinese significa gettare benzina sul fuoco in una situazione drammatica della sinistra nel nostro Paese dopo la scomparsa di tutte le sue componenti dal Parlamento, dai socialisti ai comunisti, dai riformisti agli antagonisti. Tuttavia, come si dice “Hic Rhodus, hic salta”.