giovedì 8 maggio 2008

Contro il negazionismo - Ex schiave protestano

traduzione di Marianita De Ambrogio - Donne in Nero Padova
Per ulteriore documentazione in "Comfort Women" di Miala Leong (con bibliografia) - http://mcel.pacificu.edu/korea/gender/comfort.php

Migliaia di donne asiatiche -- secondo un rapporto di Amnesty International -- «sono state ridotte in schiavitù e violentate, torturate, brutalizzate ripetutamente per mesi e anni». Una di esse, ricorda il giorno in cui venne rapita dall'esercito giapponese: «i soldati avevano una lista dove figurava il mio nome. Mi costrinsero a salire sul camion. Mio nipotino uscì a guardare. Era un bambino piccolo. I soldati lo presero a calci e lui morì». Le ex schiave coreane lottano da anni per ottenere giustizia. Ma in Giappone un crescente movimento negazionista rifiuta di riconoscere gli abusi che esse hanno subito.

di David McNeill
Independent.co.uk Web

In Corea, le chiamano halmoni (nonne) - benché molte siano talmente segnate mentalmente e fisicamente da non essersi mai sposate né avere avuto figli. In Giappone, sono conosciute come «Donne di conforto», un eufemismo odioso per il loro ruolo forzato di fornire «conforto» alle truppe giapponesi in bordelli militari. Ma nel mondo, un'altra denominazione più dura le perseguiterà fino alla tomba: schiave sessuali.

Kang il-chul, è una delle poche sopravvissute che sta finendo la sua vita nella «Sharing House», un museo e rifugio comunitario a due ore dalla capitale della Corea del Sud, Seul. E' un edificio severo in cemento in una zona poco popolata tra campi di riso e montagne boscose. Lei dice di avervi trovato una forma di pace. «Qui ci sono tra le mie amiche, che mi trattano bene» dice.

Racconta d'essere stata presa all'età di 15 anni e mandata in una base giapponese in Manciuria. Dalla seconda notte, prima delle sue prime mestruazioni, è stata violentata. Notte dopo notte, i soldati facevano la fila per abusare di lei. Ha delle cicatrici sotto il collo, bruciature di sigaretta. Continua a soffrire di mal di testa perché picchiata da un ufficiale giapponese. «Ho sempre lacrime di sangue nella mia anima quando penso a quanto è accaduto» dice.

Come molte altre, trova traumatizzante ricordare il passato, piangendo, torcendo un fazzoletto tra le mani e dondolandosi mentre parla. Ma si arrabbia e batte il pugno sul tavolo quando si menziona il premier giapponese Shinzo Abe. «Quest'uomo orribile vuole che noi muoiamo». L'anno scorso, il premier Abe ha sbalordito le donne della «Sharing House» negando che non vi siano "prove" a dimostrazione che le donne erano state effettivamente costrette a subire innumerevoli abusi. Questa esternazione revisionista capovolgeva la posizione ufficiale del Giappone. Travolto da una tempesta politica e finito sotto pressione da parte degli alleati USA, Abe ha fatto marcia indietro, producendo una serie di dichiarazioni formulate con prudenza che hanno raffreddato la polemica.

Ma la negazione «ha atterrito» Kang: «Avevo l'impressione che il mio cuore si rivoltasse» dice. «La più gran paura delle donne è che si dimentichino dopo la loro morte i crimini commessi contro di loro» aveva commentato Ahn Sin Kweon, il direttore di «Sharing House».

Migliaia di donne asiatiche - e alcune di loro avevano appena 12 anni all'epoca dei fatti - «sono state ridotte in schiavitù e -- secondo un rapporto di Amnesty International -- violentate, torturate, brutalizzate ripetutamente per mesi e anni». Abusi sessuali, botte e aborti forzati hanno reso molte donne incapaci di avere figli.

La maggior parte delle sopravvissute è rimasta in silenzio fin quando un piccolo gruppo di vittime coreane non ha parlato apertamente, all'inizio degli anni '90. Tra loro, Kim Hak-soon, che era stata violentata e trattata, secondo le sue stesse parole, «come un cesso pubblico».

«Noi dobbiamo ricordare queste cose che ci sono state imposte», ha detto Kim Hak-soon prima di morire.
L'appello era stato ripreso da circa 50 donne, ricorda il direttore della "Sharing House" Ahn. Molte donne non erano sposate, vivevano sole in piccole città, tra gli stenti. «Un'organizzazione buddista ha aiutato a costruire "Sharing House" su un terreno offerto negli anni '90. All'inizio erano abbastanza reticenti per timore di finire sotto le luci dei riflettori. Sempre più persone sapevano che loro erano state violentate. E' molto difficile per donne di questa generazione discutere di temi sessuali apertamente, e ancor meno di esperienze vissute».

Il Giappone aveva riconosciuto ufficialmente la schiavitù militare in tempo di guerra in una dichiarazione storica del 1993, seguita da un'offerta di risarcimento proveniente da un piccolo fondo privato, estinto l'anno scorso. Ma questa dichiarazione detta "di Kono" ha tormentato a lungo i revisionisti giapponesi i quali negano che l'esercito sia stato coinvolto direttamente. «Le donne erano prostitute legali che si guadagnavano del denaro per la loro famiglia» dichiara Nobukatsu Fujioka, un docente universitario revisionista giapponese.

Benché Abe non sia più primo ministro, cui è succeduto Yasuo Fukuda, le vittime della violenza giapponese temono il ritorno del negazionismo. Per Kang è solo questione di tempo. La lotta caratterizza gli ultimi anni della loro vita. Se perdono questa battaglia civile, saranno catalogate come prostitute.

Quando la sua salute glielo permette, questa donna di 82 anni si trascina ad un sit in settimanale davanti all'ambasciata del Giappone a Seul. Le ex schiave sessuali vi si recano dall'inizio degli anni '90 e in febbraio vi hanno tenuto la loro ottocentesima manifestazione consecutiva. Urlano con rabbia contro i muri le loro rivendicazioni: la punizione da parte dei soldati violentatori, le scuse da parte dell'imperatore, l'edificazione di un Luogo della Memoria in Giappone.

E' improbabile che ce la facciano. Ma la "Protesta del Mercoledì", come la chiamano, ha assunto un carattere rituale, benché impregnata di tristezza visto che il gruppo delle sopravvissute, ormai esiguo, è ridotto a causa delle malattie e della mortalità. Delle 15 residenti alla "Sharing House" ne restano solo 7, quasi tutte in cattive condizioni di salute. Ma conseguono lo stesso delle piccole vittorie. L'anno scorso, il Congresso USA ha approvato la Risoluzione 121 che invita Tokyo a «scusarsi ufficialmente e ad accettare la responsabilità storica» per la questione delle "donne di conforto". Kang il-chul era tra le donne recatesi in delegazione a Washington per testimoniare.

La risoluzione, fortemente combattuta da Tokyo, era stata presentata da Mike Honda, esponente dell'emigrazione nipponica negli USA. Un editoriale nel più grande giornale giapponese, "Yomiuri", ha commentato asserendo che non esisterebbe «ombra di prova» che il governo giapponese avesse promosso la prostituzione militare.

Una copia della Risoluzione 121, firmata da Honda e dalla presidente del Congresso Nancy Pelosi è appesa nell'ufficio di Ahn Sin Kweon. «La risoluzione è stata molto importante per noi perché la nostra priorità è mantenere viva la memoria di queste donne» dice, ricordando l'accoglienza fatta ad Honda durante la sua visita lo scorso novembre. «E' stato trattato come un eroe». Un grande manifesto che ritrae Mike Honda raggiante per la vittoria politcia in Congresso campeggia nel cortile più grande della "Sharing House".

Curiosamente, ma non troppo, il direttore della "Sharing House" Ahn è molto arrabbiato con il suo governo. Come molti attivisti del movimento antifascista coreano, crede che Seul abbia barattato ogni rivendicazione di risarcimento con il trattato d'amicizia siglato tra Tokyo e Seul nel 1965, ottenendone in cambio sovvenzioni e prestiti a basso interesse. Il direttore Ahn dice che spetterebbe anche al popolo giapponese criticare il proprio governi. Ogni anno circa 5.000 cittadini nipponici visitano la "Sharing House". I loro incontri con le ex schiave sessuali sono spesso strazianti.

Ma la signora Kang diffida molto dei giornalisti giapponesi. «Vogliono mostrarci deboli e morenti» grida battendo di nuovo arrabbiata il pugno sul tavolo: "Soprattutto la TV, che tallona le donne più anziane e malate!" Più tardi, mi blocca mentre sto per fotografare una donna molto esile mentre fissa la TV con lo sguardo assente. «No. Ci dovete mostrare forti», esige. E noi la ritraiamo in posa da pugilatrice, accanto al monumento alle vittime degli stupri di guerra.

Il giorno in cui venne rapita, ricorda, «i soldati avevano una lista dove figurava il mio nome. Mi costrinsero a salire sul camion. Mio nipotino uscì a guardare. Era un bambino piccolo. I soldati lo presero a calci e lui morì».

Ricordi come questi rafforzano la sua determinazione: «Le generazioni future ci chiameranno prostitute? O il governo giapponese salverà la sua faccia, o noi salveremo la nostra».