a cura di www.rassegna.it
Il mercato può essere placato solo da un recupero straordinario di guida politico che è possibile soltanto a livello di istituzioni europee. Per questo è sbagliato fermarsi all'interno della cornice nazionale
di Michele Prospero
La vicenda greca, l'apparizione degli esecutivi tecnici, la rimozione dei governi in carica in tutti i paesi in cui si è finora votato svelano un momento di grande difficoltà della politica. Dalla crisi o grande contrazione scoppiata nel 2007 non è ancora scaturita una risposta efficace da parte della politica. Nata dall'asimmetria creatasi negli ultimi trent'anni nel rapporto tra mercato e potere politico, la crisi viene affrontata con delle sterili ricette che non fanno altro che ribadire la continuità del terreno molto marcio che ha provocato l'insorgenza dell'infezione all'origine dell'attuale collasso.
La pretesa cura ribadisce la centralità del mercato, delle banche, della finanza e prevede poco spazio per le politiche pubbliche, le misure di spesa sociale, il mantenimento dei diritti sindacali. Desta più allarme politico il possibile fallimento di una banca che il sempre più vicino fallimento di uno Stato o la disoccupazione di massa e l'impoverimento dei ceti medi. Perciò i pochi fondi pubblici ancora a disposizione dei governi servono per ricapitalizzare le banche, non per arginare una crisi che lascia moltitudini di disperati senza nessun'altra prospettiva se non quella di incendiare cassonetti e bancomat.
Sembra che la Grande depressione del 1929, l'unica crisi che abbia assonanze con quella odierna, non abbia insegnato nulla alle classi dirigenti d'Occidente. Allora la differenza la fece proprio la politica. Al mercato, in preda a un distruttivo sentimento di panico, la politica oppose lo spazio pubblico come momento di rassicurazione (sostegno della domanda) e di parziale razionalità (nuove regole, normative per le Borse, le banche, le imprese). Oggi la politica non ha invece la forza per guidare le turbolenze del mercato e per questo suo deficit organico si affida proprio al mercato per rassicurare le Borse. Così facendo paradossalmente proprio la politica accentua le incertezze e i momenti di angoscia degli investitori. Il mercato non si placa con politiche deboli, ma solo con una politica forte in grado di domare le inquietudini. Una politica che produce incertezza e genera angoscia non serve neppure al mercato che di per sé cade in acute depressioni periodiche e avrebbe bisogno di autorità solide in grado di tranquillizzarlo.
Anche quando si inaugura una stagione tecnica o di decantazione e di tregua, non andrebbe mai dimenticato che la soluzione ai guai dell'economia è nella politica, non nella competenza che conquista il potere. A destra si odono ancora sordi rancori contro il capo dello Stato, reo di aver guidato dietro le quinte un golpe di velluto attuato con le maniere postmoderne di una usurpazione dolce perpetrata ai danni del Cavaliere abilmente disarcionato. La destra, che ora grida alla violazione della Costituzione, all'ingerenza del Quirinale e delle potenze straniere, aveva un solo modo per fermare la aborrita tecnocrazia: giocare in anticipo per non subire il precipitare degli eventi. L'impossibilità di un'intesa politica gestita direttamente dai partiti ha reso possibile l'apertura dello spazio di decisione del capo dello Stato dinanzi al quale si spalancava lo spettro di un paese al collasso.
Il vuoto dell'iniziativa politica del partito maggioritario ha consegnato poteri d'eccezione al Quirinale che non poteva certo attendere oltre dinanzi alla sfida dell'emergenza economica che così è stata sfruttata per avviare una nuova stagione, densa di incognite oltre che di opportunità potenziali. Al Colle dopo il mercoledì nero dei mercati non restava che una scelta: o un'iniziativa al di fuori della norma ma non certo illegale o la difesa statica di una forma (attesa della sfiducia formale delle Camere eccetera.) mentre però cresceva l'angoscia più cupa dinanzi alla speculazione incontrollata. Il problema è insomma politico, non c'entra nulla il grido di dolore degli orfani del diritto costituzionale strattonato per accontentare una richiesta mondiale di rimuovere il Cavaliere. Questo non significa che siano fondati gli acritici incoraggiamenti a brindare al tempo nuovo con uno spirito euforico che trascura le incognite di un passaggio politico tra i più incerti e imprevedibili negli esiti conclusivi.
Molti rassicurano le truppe ancora stordite dagli eventi con una mera petizione di principio: la politica è stata certo sacrificata, ma per la politica proprio questa morte dolce è una splendida occasione. Basta adottare il programma unico, quello della lettera della Bce, e attendere gli eventi che mai come adesso promettono sorti magnifiche e progressive. Troppo facile però metterla così. Nessun dato obiettivo sorregge queste asserzioni che non vanno oltre un'edificante invocazione retorica per cui proprio con la vigilanza europea comincerebbe il tempo della politica. Certo, anche nel baratro occorre tracciare un percorso che consenta di reagire e quindi fornisca almeno un'occasione per invertire il passo. Senza un'analisi delle condizioni obiettive non si costruiscono però alternative reali.
Bisogna nominare il punto di sofferenza, non rimuoverlo con ottimistiche esortazioni. Per afferrare l'occasione di una svolta, che pur nelle insidie estreme può comunque maturare, non è necessario inneggiare a una rinascita della politica che non c'è (ancora) stata, perché l'opposizione sente il fiato sul collo di una crisi che impone scelte controverse e minacciose per il suo blocco sociale di riferimento, mentre il vecchio personale del governo di destra può almeno respirare scaricando anche sugli altri il peso della responsabilità di sacrifici.
Occorre, per creare occasioni favorevoli e volgerle in un senso propizio alla politica, decifrare la realtà per quella che è, senza infingimenti. Magari ci saranno opportunità di una rimotivazione culturale della politica (questo dipende da come si agisce nell'immediato per conciliare rigore ed equità, risanamento e coinvolgimento attivo dei soggetti del pluralismo sociale), ma intanto è in corso un possibile arretramento della politica e bisogna riconoscerlo come tale.
Va peraltro colta una regolarità nella storia repubblicana. Gli ultimi vent'anni della storia italiana hanno visto due sole brevi parentesi di guida politica: il governo D'Alema e quello Amato che prese il suo posto. A chi grida per la fine della politica, andrebbe rammentato che proprio nella Seconda repubblica la guida politica è stata una momentanea eccezione. Non più di due anni sono stati ricoperti da premier politici. Per il resto, il ventennio ha oscillato tra il populismo come fuga dalla responsabilità delle scelte ponderate e la tecnocrazia come trasformatore dei nodi politici e sociali in faccende di competenza. Dini, Ciampi, lo stesso Prodi, vantavano forti credenziali tecniche.
La parentesi tecnica oggi inaugurata rientra in una consuetudine italiana di affrontare le crisi di regime (governo Badoglio) e le cadute dei sistemi di partito (governo Ciampi) con soluzioni metapolitiche. Il passaggio tecnico non può però significare far tacere a lungo la politica (la crisi dell'euro non è in primo luogo una grande faccenda politica scaturita dall'anomalia di una moneta sovranazionale sprovvista di un'autorità politica sovranazionale?) e umiliare i soggetti sociali e il lavoro. Se il momento tecnico comporta sospendere la politica come conflitto culturale aperto sui fini pubblici e maltrattare le parti sociali organizzate dal sindacato, allora non solo la crisi non verrà risolta ma dopo la stagione della tecnica tornerà a bussare alla porta un qualche capo carismatico con il vangelo rigenerato dell'antipolitica e del populismo.
Non si cura, infatti, un sistema destrutturato puntando sulla polarità tra l'incompetenza del populista narratore e la competenza del tecnocrate risanatore. Se per superare l'eccezione di una crisi economica devastante si invoca un tecnico non come garante di una tregua ma come distruttore di ogni preziosa coesione sociale, si annebbia il ruolo di ricambio dell'opposizione, la forza coesiva del sindacato e si conferma così l'inaffidabilità del sistema che con i suoi strumenti politici regolari e con i suoi soggetti sociali è inadeguato a decidere le cose più importanti.
Proprio quando la soluzione tecnica prende il posto del ricambio politico i partiti dovrebbero approfondire il lavoro di manutenzione organizzativa e di ridefinizione culturale e identitaria. Senza questo lavoro si rischia di uscire dalla tregua senza più solidità e identità. La politica deve essere rimotivata come la sola risorsa disponibile. Come si fa del resto a recuperare la credibilità del sistema se persino la sopravvivenza del paese è al di fuori del gioco politico? La scorciatoia tecnica (che Eugenio Scalfari vorrebbe trasformare da momentanea a strutturale) accentua la percezione della crisi come sfuggente e senza rimedi politici efficaci nel pendolo dell'alternanza tra destra e sinistra. Quando la tecnica si offre per dare la soluzione definitiva, il ritorno della politica si configura come un problema di per sé. L'affidabilità del sistema non può nascere entro un quadro politico sospeso su cui a tempo si profila il cammino rigeneratore dei tecnici. L'immagine di una democrazia non risoluta non incoraggia certo la rapida rinascita politica ed economica.
Ma anche svolgere le elezioni e affidarsi a nuovi leader non cambia in maniera istantanea il panorama fosco delle oscillazioni impazzite della Borsa. Ciò perché il problema è europeo più che nazionale. La mancanza di uno spazio politico europeo è il vero nodo. Finché manca questo anello istituzionale che, al denaro comune faccia coincidere un potere comune, il gioco politico risulta del tutto impotente dinanzi alle ondate speculative. Si potrà prevedere il governo dei custodi o la repubblica dei soviet, l'agorà o la teocrazia, ma nulla cambierebbe, perché quello attuale non è un problema interno a uno Stato. Il mercato può essere placato solo da un recupero straordinario di comando politico che è possibile soltanto a livello di istituzioni europee. Per questo è sbagliato fermarsi all'interno della cornice nazionale per verificare lo stato del duello tra tecnica e politica. Quello che occorre combattere è la soverchiante potenza della speculazione che punta diritta sul momento di reale sofferenza europea di una moneta senza un potere capace di un'inclusione sociale europea. (Rassegna.it)
IPSE DIXIT Stati Uniti d'Europa I - «Avremo pace vera quando avremo gli Stati Uniti d'Europa.» Carlo Cattaneo (1848) Stati Uniti d'Europa II - « La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.» Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni (1941) Stati Uniti d'Europa III - «La rivendicazione dell'unità europea esprime oggi l'aspirazione molto diffusa per un ordine tra le nazioni europee che sia veramente atto a garantire la pace, la libertà e la giustizia.» Eugenio Colorni (1944) Anche se - «Anche se questa vecchia Europa è troppo onusta di Storia e troppo ancor carica di rancori per poter adottare quel puro modello svizzero o americano additatole come unica salvezza di pace (. . .), soltanto un assetto federativo potrà troncare in sul nascere le superstiti cause di conflitti.» Alessandro Levi (1945) Un'atto di fiducia - «Affinché questo possa venirsi a costituire occorre un'atto di fiducia cui debbono predere consapevolmente parte milioni di famiglie delle diverse lingue (. . .) È l'incorreggibilità degli esseri umani l'unico insegnamento della Storia? Fate sì che la Giustizia, la Grazia e la Libertà prevalgano! I popoli debbono solo volerlo (. . .) Perciò io dico a voi: fate sorgere l'Europa!» Winston Churchill (1946) Per misurare il regresso - «Per misurare il regresso da noi subito se non altro nell'impostazione dei problemi in questi soli due anni trascorsi dalla fine della guerra, basti ricordare il fervore quasi unanime che allora suscitava nei movimenti di resistenza dei vari Paesi l'idea di una non lontana unificazione politica dell'Europa.» Ignazio Silone (1947) Un progresso incredibile! - «Se oggi la più parte del continente gode dei diritti umani e della pace, noi questo progresso non ce lo eravamo neanche immaginato: né nel 1918 né nel '33 né nel 1945. Ma questo progresso incredibile è, insieme, anche un obbligo, per tutti noi. E dunque noi dobbiamo lavorare, e noi dobbiamo combattere, affinché l'Unione Europea, unicum della storia, sappia uscire dalla sua attuale debolezza, forte e consapevole di sé.» Helmut Schmidt (2011) |