giovedì 3 marzo 2011

Ci riguarda: Quello che succede sulla sponda sud del Mediterraneo ci riguarda

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

di Franca Di Lecce
direttore del Servizio rifugiati e migranti della FCEI

La drammatica e dura repressione di questi giorni in Libia, dove è scoppiata la rivolta contro il regime di Gheddafi, rimette in primo piano, e in modo dirompente, la questione dei rapporti Italia-Libia, ma anche i rapporti tra Libia e comunità internazionale. Lo scenario del Mediterraneo è mutato radicalmente in poche settimane e questo richiederà senza dubbio un ripensamento profondo e radicale delle politiche finora portate avanti dall'Italia e dall'Unione Europea anche in tema di immigrazione.

    Rivolte di piazza, feriti, morti, scontri, mercenari africani probabilmente reclutati dal regime per sparare sulla folla, defezioni nell'esercito di chi si rifiuta di assecondare la ferocia del tiranno e si unisce ai manifestanti, queste sono le immagini e le notizie che vengono dalla Libia, corrono veloci e ci raggiungono come ammonimento perché nessuno possa dire “io non sapevo”.

    L'Italia da anni rivendica il ruolo strategico della Libia nell'area mediterranea e i rapporti privilegiati di cooperazione con il dittatore africano. Il nostro Paese non è soltanto uno dei principali partner commerciali della Libia, ma anche il maggiore esportatore di armamenti, senza dimenticare che un quarto del petrolio italiano viene fornito dalla Libia.

    La Libia è diventata da anni un punto di passaggio quasi obbligato per i migranti che dalle regioni periferiche dell'Africa o anche dell'Asia vogliono raggiungere l'Europa e l'Italia, un partner strategico nella “lotta all'immigrazione clandestina”, come si legge nel “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” con la Libia che il Senato, dopo un iter velocissimo, ha approvato quasi all'unanimità, il 3 febbraio 2009. Il trattato, siglato il 30 agosto 2008 da Berlusconi e Gheddafi, è il risultato di 10 anni di negoziati dei diversi governi che si sono succeduti nel nostro Paese. I diritti umani sono sempre restati a margine, se non del tutto esclusi, dall'agenda diplomatica di entrambi i paesi. Il Governo e il Parlamento italiani non sembrano essersi preoccupati di questo durante i negoziati e in sede di ratifica dell'accordo, nonostante le gravi violazioni dei diritti umani dei migranti in Libia siano ampiamente documentate: torture, detenzione arbitraria, espulsioni, violenze, arresti indiscriminanti, abusi verso donne e minori.

    Gli effetti del trattato sciagurato li abbiamo visti: persone in fuga da guerre e povertà sono state respinte in Libia come pacchi scomodi di cui disfarsi rapidamente. Molte di quelle persone respinte dal governo italiano hanno tentato ancora di raggiungere l'Europa cambiando rotta e da mesi sono sequestrate dai trafficanti nel deserto del Sinai.

    Oggi il popolo libico è in rivolta, chiede libertà, riforme e una vita dignitosa, mentre il tiranno tira dritto e afferma di resistere e andare avanti fino alla morte.

    Ma sappiamo bene che non è solo questione di immigrazione: l'aspirazione alla libertà di popoli oppressi si intreccia drammaticamente con gli interessi politici ed economici, con i silenzi e le complicità di tutta la comunità internazionale, e le posizioni che essa prenderà saranno il banco di prova anche delle nostre democrazie.

    Mentre l'ONU chiede la fine immediata delle violenze e della repressione, e attraverso l'Alto Commissario per i Diritti Umani, Navy PiIllay, un'inchiesta internazionale sulle violenze libiche e giustizia per le vittime, noi chiediamo con forza in queste drammatiche ore che il Governo Italiano esprima senza indugi una netta condanna della brutale repressione in Libia e che pretenda la cessazione degli attacchi alla popolazione civile. L'Italia, che da anni gioca un ruolo strategico nei rapporti tra la Libia e l'Unione Europea, deve chiedere l'immediata e incondizionata fine della violazione dei diritti umani, insieme alla sospensione della fornitura di armi e munizioni.

    Quello che succede sulla sponda sud del Mediterraneo ci riguarda e ci interpella e auspichiamo che l'Italia possa trovare il coraggio di invertire la rotta, anche cambiando strategia sull'immigrazione per iniziare un confronto costruttivo che può avvenire solo a partire dal riconoscimento che la dignità umana è inviolabile e che va data accoglienza dignitosa alle persone in fuga da persecuzioni, guerre e povertà.

    Abbiamo oggi la grande opportunità di voltare pagina, se non cadiamo nella trappola della strategia della paura: agitare lo spettro dell'invasione di migliaia di migranti in arrivo sulle nostre coste è disumano, oltre che inutile e dannoso, e serve a chi in questi anni ha fatto affari con i dittatori. Abbiamo la grande opportunità e la responsabilità di sostenere e stare accanto a chi in Algeria, Tunisia, Yemen, Libia e in altri paesi, rompendo il circuito della paura, ha sfidato la dittatura per chiedere il diritto di vivere in dignità (nev-notizie evangeliche 08/11).    


IPSE DIXIT
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Oh, là - «Ho visto qualcosa che mi è parso il contrario dei nostri cataloghi. . . vacche al pascolo mi guardavano con l’aria di dire: “Oh, là c’è qualcosa nel mondo.”» – Gianni Celati


Sciopero generale

La Cgil si prepara

La segreteria confederale ha il mandato del direttivo per proseguire la mobilitazione, "incluso il ricorso allo sciopero generale". Sarebbe il quinto con il governo Berlusconi, il primo con Susanna Camusso alla guida del sindacato.

Contro gli accordi separati, per un fisco più equo e per una diversa politica economica e industriale del governo: con queste richieste la Cgil si prepara allo sciopero generale o, in ogni caso, a proseguire nella mobilitazione. Lo ha deciso il direttivo di Corso Italia, non senza destare qualche sorpresa, dopo due giorni di discussioni (22 e 23 febbraio) a porte chiuse. Il Parlamentino ha approvato il documento politico con 83 sì, nessun voto contrario e 20 astensioni, consegnando così alla segreteria il via libera formale per "decidere i tempi e le modalità di prosecuzione delle iniziative di mobilitazione, incluso il ricorso allo sciopero generale".

    Va però chiarito che "tecnicamente" lo sciopero non è stato ancora proclamato, al contrario di quanto farebbe pensare una lettura disattenta dei giornali. Il direttivo ha accettato la proposta del segretario generale, Susanna Camusso, che aveva chiesto la possibilità di decidere quando e come andare allo sciopero generale. È un po' come quando il governo chiede al Parlamento la delega per una legge complessa (come il federalismo fiscale): una volta approvato il provvedimento "quadro", vanno scritti e licenziati anche i singoli decreti. In questo caso la segreteria, ottenuto il consenso del direttivo, dovrà decidere tempi e modi dello sciopero. Per questo la data ancora non è stata stabilita.

La segreteria potrà accettare la richiesta della minoranza - che vuole lo stop subito, al massimo entro aprile - oppure allungare i tempi, decisione su cui peserà anche il clima politico.

    Restano fissate le iniziative delle singole categorie, in particolare quella del 25 marzo quando si fermeranno la scuola e dal pubblico impiego. Oltre all'impegno della Cgil in altre iniziative come quella per il 17 marzo per l'unità d'Italia, le "marce per il lavoro" (sabato in Veneto la prossima tappa) e le assemblee per democrazia e rappresentanza sindacale.

    Sarebbe, questo, il quinto sciopero generale da quando è in carica il governo Berlusconi. Il primo fu nel 2008, poi due volte nel 2009 (dopo l'accordo separato sul modello dei contratti), l'ultimo l'anno scorso. E la prima volta della Cgil guidata da Susanna Camusso.

    La discussione nel direttivo del 22 e 23 febbraio, secondo quanto si apprende negli ambienti di Corso Italia, è andata oltre gli steccati congressuali, quelli della divisione in due anime contrapposte. Con un quadro politico-sindacale degradato, fino all'ultimo strappo sul pubblico impiego, la semplice mobilitazione senza sciopero non basta più anche a categorie come il commercio e i chimici, che finora avevano frenato. Sembra prevalere, dunque, l'idea della "spallata" per sostenere le richieste di chi vuole un governo che pensi al lavoro e alla crisi e non ai guai giudiziari del premier. (M.M. - www.rassegna.it)