martedì 26 ottobre 2010

I garantiti. E i paria

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Perché non convince il contratto unico di Ichino

di Renato Fioretti

La straordinaria facilità di accesso alle più svariate fonti d’informazione ci consente di seguire “in tempo reale” tutto ciò che accade all’altro capo del mondo, ma, contemporaneamente, l’enorme quantità di notizie disponibili, rende sempre più arduo selezionarne la qualità. In questo quadro, è molto alto il rischio che (anche) fatti e notizie, di grande rilevanza politica e sociale, risultino (sostanzialmente) “oscurati” o, solo marginalmente, rilevati. Questo è quanto, a mio parere, è accaduto rispetto ai contenuti del dibattito sul lavoro, sviluppatosi all’Assemblea nazionale del Pd, del 21 e 22 maggio scorso. Recuperando, quindi, l’interessante confronto, coglierò l’occasione per esprimere alcune considerazioni sul Ddl 1481, presentato al Senato da Pietro Ichino.

    Nei due giorni di discussioni, partendo da un denominatore comune - l’esigenza di ridurre lo squilibrio, in termini di diritti e tutele, prodottosi tra lavoratori “insider” e “outsider” - si fronteggiavano, in sostanza, due posizioni. In estrema sintesi, è possibile rilevare che la prima - a sostegno del documento presentato da Stefano Fassina, responsabile nazionale dell’economia - unitamente ad una serie di misure tese a condizionare il ricorso al lavoro a progetto e a tempo determinato, sosteneva la necessità di rendere più onerose le forme di lavoro “atipico”. Per disincentivarne l’uso e, contemporaneamente, promuovere il rapporto di lavoro “standard” (a tempo pieno e indeterminato). La proposta alternativa, sostenuta da Ichino, Nerozzi e numerosi altri esponenti, sosteneva, piuttosto, l’esigenza di una revisione dell’art. 2094 del c.c. Nel senso di pervenire alla definizione di “lavoratore economicamente dipendente”, nella quale comprendere anche alcune tipologie contrattuali “atipiche” in regime di “mono – committenza”. Alla nuova formula, ai fini di una sostanziale “unificazione” dei rapporti di lavoro, si accompagnava l’idea di graduare nel tempo le tutele oggi riconosciute a coloro che Ichino definisce “garantiti”. Alla conclusione dei lavori, il documento finale di Fassina ”Sviluppo, lavoro, welfare: il decalogo del Pd per il diritto unico del lavoro”, fu approvato con una cinquantina di voti favorevoli e ben quarantadue astensioni.

    Immagino che il sostanziale “pareggio” rappresentò una sorpresa solo per coloro i quali, evidentemente, ignoravano che, appena pochi mesi prima, molti tra i presenti avevano sottoscritto due disegni di legge - d’iniziativa dei senatori Ichino e Nerozzi - tesi a trasformare in norme di legge le proposte successivamente avanzate in sede di Assemblea nazionale.

    Rinviando l’esame della proposta Nerozzi a un successivo (eventuale) appuntamento, è utile riproporre all’attenzione del lettore il Ddl 1481, comunicato alla Presidenza del Senato il 25 marzo 2009. Esso presenta numerosi e interessanti elementi di riflessione e, nel rispetto della sintesi, proverò a illustrarne i contenuti ed evidenziarne i motivi di dissenso. Innanzi tutto, è opportuno rilevare che l’ipotesi Ichino di: “Uno standard minimo universale di protezione della continuità del lavoro e del reddito, a stabilità crescente”, può essere considerata una sorta di evoluzione darwiniana del c.d. “Contratto unico” di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, il cui progetto prevedeva - e tutte le occasioni sono buone per ribadirlo e riproporlo - ” Un sentiero a tappe verso la stabilità”.

    Rispetto alla proposta Boeri, che già fu oggetto di uno schietto e approfondito dibattito con Massimo Roccella, attraverso le pagine della versione cartacea di Micromega, quella di Ichino presenta, come già anticipato, alcuni elementi di novità. In primis, al fine di offrire tutte le informazioni possibili rispetto ai motivi del mio dissenso, è utile riportare l’incipit della relazione di accompagnamento al Ddl 1481. La stessa rileva la situazione “di vero e proprio apartheid che divide i 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e dipendenti stabili da aziende private cui lo Statuto dei lavoratori del 1970 si applica nella sua interezza), dagli altri 9 milioni di lavoratori sostanzialmente dipendenti, che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno”. E ancora: “Un Paese moderno, attento alle comparazioni con le esperienze dei Paesi stranieri più civili, dove un simile fenomeno non si manifesta, non può rassegnarsi alla perpetuazione del modello del mercato del lavoro duale. Innanzitutto perché quel modello è iniquo: esso genera, infatti, da una parte posizioni di rendita, dall’altra situazioni di precarietà di lunga durata, per ragioni che hanno poco o nulla a che vedere con il merito delle persone interessate o con esigenze tecnico - produttive”. Nel merito della proposta, è opportuno evidenziare che la stessa, al pari del contratto unico, prevede la stipula di un contratto a tempo indeterminato, una durata della prova non superiore a sei mesi (tre mesi, nella versione Boeri), un periodo d’inserimento nel corso del quale - in deroga all’art. 18 dello Statuto - sarebbe possibile il licenziamento per motivi economici o organizzativi, un risarcimento economico all’atto del recesso, un contratto di “ricollocazione al lavoro” e una diversa modalità di gestione del preavviso. Rispetto al tipo di contratto, vale, per Ichino, quanto autorevolmente contestato da Roccella a Boeri. In effetti, piuttosto che di un contratto a tempo indeterminato “classico”, si tratterebbe di una sorta di contratto a termine “a scadenza variabile” nell’arco della sua vigenza. In sostanza, una nuova tipologia contrattuale da aggiungere alle tante già esistenti. In più, per tutta la sua durata, resterebbe sospesa la possibilità di ricorrere contro un licenziamento senza “giusta causa”. 

    Tra l’altro - e si tratta di un particolare di non trascurabile importanza - mentre Boeri prevede un c.d. “periodo d’inserimento” della durata massima di tre anni, la proposta di Ichino si candida a battere qualsiasi record. Infatti, la flessibilizzazione prevista dal Ddl 1481 si estende ai primi venti anni del rapporto; con pari durata della deroga all’art. 18! La tutela “reale”, prevista dalla vigente legislazione, sarebbe limitata al licenziamento disciplinare e a quello dettato da motivi discriminatori. Su questo punto, oltre ad evidenziare che, per un lavoratore, dimostrare di essere vittima di un licenziamento dettato da un motivo discriminatorio o “di mero capriccio”, è quasi impossibile - stante l’onere “della prova” a suo carico - è opportuno rilevare che il Ddl 1481prevede (anche) la possibilità che il giudice, in entrambi i casi - tenuto conto delle circostanze (?) - disponga la sola reintegrazione con azzeramento o riduzione del risarcimento del danno, oppure il solo risarcimento! Un altro punto, che ricalca quanto previsto dal contratto unico, è la previsione di un indennizzo a favore del lavoratore licenziato per motivi economici/organizzativi. Lo stesso è pari a tanti dodicesimi della retribuzione lorda quanti sono gli anni compiuti di anzianità di servizio. A solo titolo di curiosità, vale la pena rilevare che la versione Boeri prevede un ammontare del risarcimento pari al doppio di quanto indicato nel Ddl in esame.

    Un altro elemento di novità è rappresentato dal c.d. “Contratto di ricollocazione al lavoro”. Esso prevede che al lavoratore licenziato per motivi economici o non reintegrato, sia offerto, da parte di un’Agenzia all’uopo costituita (ennesimo Ente bilaterale “di scopo”): a) un trattamento economico complementare, a scalare nel tempo, per il periodo di disoccupazione; b) assistenza nella ricerca di una nuova occupazione; c) iniziative di formazione professionale. A ben vedere, però, la novità non è poi tale. A parte la previsione di un nuovo “ammortizzatore sociale” (finanziato dalle aziende), resterebbero funzioni di “politiche attive del lavoro” già ampiamente previste (e in gran parte disattese) dalla famigerata “riforma del collocamento”!

    Rappresenta, al contrario, un’ipotesi assolutamente inedita la possibilità che, all’atto della comunicazione del preavviso di licenziamento - pari a tanti mesi quanti sono gli anni di anzianità in azienda, con un massimo di dodici - il lavoratore abbia la facoltà di scegliere tra la cessazione immediata del rapporto (con conseguente godimento della prevista indennità economica) e la prosecuzione della prestazione lavorativa fino alla scadenza dello stesso. Anche qui, contrariamente a quanto si possa presupporre, ritengo si tratti di un’opzione solo apparentemente favorevole. Personalmente, nel considerare un più o meno lungo periodo di “preavviso lavorato”, in alternativa all’immediato recesso, la scelta prevedibilmente operata dalla stragrande maggioranza dei lavoratori, immagino il conseguente “stato di soggezione” cui sarebbe costretto il “licenziando” nei confronti di un datore di lavoro che - se disponibile, e a certe condizioni - potrebbe, in un arco di tempo lungo fino a dodici mesi, anche revocare il provvedimento. Potenzialmente, in aggiunta al licenziamento per giustificati motivi oggettivi e a quello per esigenze economico-produttive, si tratterebbe di una vera e propria “spada di Damocle” strategicamente sospesa sul capo di tutti i lavoratori. Uno straordinario (e ulteriore) deterrente a disposizione dei datori di lavoro poco affidabili.

    Relativamente ai lavoratori “atipici”, Ichino prevede di comprendere tra i lavoratori dipendenti “I prestatori d’opera personale a carattere continuativo che dovessero trarre più di due terzi del proprio reddito complessivo dal rapporto con l’azienda medesima”. Salvo il caso in cui “La prestazione lavorativa sia svolta in condizione di autonomia e ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: a) retribuzione annua lorda superiore a 40 mila euro; b) iscrizione del lavoratore all’ordine degli avvocati o altro ordine o albo professionale incompatibile con la posizione di lavoratore dipendente”.

    A questo punto, è d’obbligo il riferimento alla relazione di accompagnamento al Ddl 1481. Concordando con l’autore, circa il fatto che l’iniquità dei trattamenti rappresenta il motivo determinante della precarietà di lunga durata - per ragioni, per altro, che hanno poco a che vedere con le esigenze tecnico-produttive delle aziende - perché mai la condizione di apartheid andrebbe abbattuta solo ed esclusivamente a beneficio di poche centinaia di migliaia di lavoratori (prestatori d’opera a carattere continuativo, in regime di sostanziale mono - committenza)? E i restanti nove milioni di lavoratori, che lo stesso definisce sostanzialmente dipendenti?

    Si deve ritenere che coloro i quali offrono la loro prestazione attraverso (finte) associazioni in partecipazione (di solo lavoro), rapporti a termine (senza alcuna causale oggettiva e reiterati per anni), agenzie di somministrazione e ogni altra “diavoleria”, consentita da quel grande “supermarket delle tipologie contrattuali” rappresentato dal decreto legislativo 276/03, siano da considerare - per dirla alla Ichino - lavoratori “garantiti”? Infine, per concludere, è possibile condividere il principio secondo il quale ridurre le tutele - in termini di deroga ventennale all’art. 18 e sua profonda “manomissione” - a coloro che ne beneficiano, per ridurre il gap tra “garantiti” e “paria”, rappresenti un’opera di equità sociale?