IPSE DIXIT
Stranieri - «Augusto Vuattolo mi insegnò che l’emigrato è un lavoratore non uno straniero. In un paese che considera soltanto il profitto e la produttività, tutti i lavoratori sono stranieri.» – Ezio Canonica
Sacconi - "Cattolico strappato ai cattolici e conquistato ai socialisti da Gianni De Michelis. . . Questa è la storia politica di Sacconi come ve la raccontano i socialisti veneziani. Be', visti i risultalti, se lo lasciava lì forse era meglio". - Massimo Bordin
Il mondo del lavoro e la situazione politica
Intervenendo alla trasmissione televisiva 'Che tempo che fa' il neo Segretario Generale della CGIL, Susanna Camusso, tra i tanti temi, affronta il caso FIAT: “Governo apra 'un tavolo' e l'azienda incontri tutte le organizzazioni sindacali”, bisogna discutere davvero “cosa è questo piano industriale, vogliamo sapere cosa c'è dentro e che prospettive ci sono”
La crisi, i giovani, le scelte del Governo, le affermazioni di Marchionne sulla produzione in Italia, i rapporti con la FIOM e con CISL e UIL. Questi i temi affrontati il 7 novembre dal neo Segretario Generale della CGIL, Susanna Camusso ospite alla trasmissione televisiva di Fabio Fazio 'Che tempo che fa' in onda su Rai tre.
La certezza di un cambio politico in Italia “potrebbe essere una prospettiva positiva per il paese”, afferma Camusso nel rispondere ad una delle prime domande poste da Fazio in merito all'"incertezza politica” in cui si trova l'Italia in questo momento, ed aggiunge “è sempre un problema”, ma penso che la “certezza politica che abbiamo avuto negli anni alle nostre spalle sia stata un grande danno per il paese”, perchè, spiega la dirigente sindacale “è stata una certezza di politica di attenzione alle questioni private e di disattenzione al paese. Allora forse una certezza che dica 'si cambia' potrebbe essere una prospettiva positiva per il paese”. Ora, secondo il leader della CGIL “bisogna provare a ricostruire un'agenda che rimetta i problemi veri e le cose da fare come tema fondamentale di questo paese”.
Non poteva mancare un riferimento alle affermazioni, che il 24 ottobre, sono state fatte da Sergio Marchionne, proprio in quello stesso studio, in merito alla produzione FIAT in Italia: “FIAT potrebbe fare di più se potesse tagliare l'Italia”. Affermazioni che hanno sollevato un grande risentimento da parte delle organizzazioni sindacali, ma anche dei lavoratori. Susanna Camusso nell'individuare il problema si chiede se “veramente la FIAT voglia discutere con i sindacati” perchè non può essere che “ognuno di noi stacca un bigliettino e gli chiede se per qualche minuto ci può vedere e dirci delle cose”.
E' ferma la volontà del neo Segretario Generale della CGIL “io riparto da qui: discutiamo davvero cosa è questo piano industriale, vogliamo sapere cosa c'è dentro e che prospettive ci sono, poi - prosegue Camusso - ci potranno essere anche l'organizzazione degli stabilimenti e i turni”. Il numero uno di Corso d'Italia chiede all'ad di FIAT se “sono i modelli che fanno della FIAT un'azienda che non riesce a stare sul mercato o sono le ricadute sul lavoro?”. Un ulteriore problema secondo Camusso è che c'è un sistema Paese che non fa nulla per attrarre investimenti e produzione industriale ed è pronta ad affermare che “su questo Marchionne ha assolutamente ragione”, ma perchè prosegue la dirigente sindacale “si scarica questo sulle pause dal lavoro di 10 minuti e sui lavoratori da 1.200 euro al mese?”. Dunque per sbloccare la vicenda FIAT, Susanna Camusso, propone che il governo avvii “un tavolo” e che l'azienda incontri tutte le organizzazioni sindacali.
Tuttavia il leader della CGIL afferma che “questo è un Paese migliore di quello che spesso vediamo”, ma oggi “è un Paese a rischio” e ricorda che il nostro paese è reduce da due anni e mezzo di crisi, “i giovani non hanno futuro, le ineguaglianze sono sempre più pesanti, a cominciare da chi si trova sulle torri per chiedere diritti”. “Smettiamola di pensare al Ponte sullo Stretto - afferma indignata Camusso -, facciamo piuttosto asili nido”.
Infine, nel parlare dei giovani e della loro drammatica situazione, Camusso ricorda il prossimo appuntamento della Confederazione, dedicato proprio alle giovani generazioni, ossia la manifestazione nazionale del 27 novembre a Roma: 'Il futuro è dei giovani e del lavoro'.
Guarda l'intervista (vai al video):
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-0b2653b2-cba3-4e71-9976-2c0651ee174b-ctcf.html#p=0
Da "Casablanca" riceviamo e volentieri pubblichiamo
Dietro alle sbarre
Settantamila detenuti: oltre un terzo di origine extra-comunitaria. Gran parte poveri. Molti con problemi mentali, un quarto tossicodipendenti. Qualcuno si suicida. Ma sul 41bis…
di Sebastiano Ardita
La conoscenza dell’universo penitenziario, con le sue contraddizioni ed i suoi limiti strutturali, potrebbe essere oggi una buona opportunità per misurare lo stato di attuazione delle politiche penali della nostra Nazione, e non solo di esse. Avvolto nel mistero di fitte mura che poco o niente hanno lasciato intravedere dal di dentro, nell’immaginario della gente lo strumento del carcere è stato ritenuto per anni l’unica possibile risposta ai tanti crimini che abbiamo visto raccontati dalle cronache; ma, al tempo stesso, anche un luogo di rimozione del male e di chi lo ha compiuto.
La sua storia, i problemi di chi vi opera, persino le sue regole appaiono tutt’oggi sconosciute ai più. E dunque anche la sua funzione è tuttora prigioniera di un mito: quello della sicurezza che è garantita ai cittadini dal fatto che i cattivi stiano al sicuro, separati dai cittadini onesti, e messi nell’impossibilità di compiere ancora del male. La fotografia del carcere di oggi è ben diversa da questa rappresentazione convenzionale.
Una quota di questi inoltre non sono esattamente dei criminali – anche se hanno violato la legge penale – ed anzi avrebbero avuto anche l’intenzione di lavorare, se fosse stata loro concessa una qualche opportunità.
Aggiungiamo poi che tra i detenuti il 20% soffre a vario grado di disturbi mentali e che un quarto è rappresentato da tossicodipendenti.
Ma vi è un’altra importante questione. Il carcere come luogo di detenzione stabile, come posto in cui si entra e si paga per le proprie colpe è poco meno che un’utopia.
Da uno studio che ho commissionato nel 2007 è emerso che il 30% delle persone arrestate e condotte nei penitenziari ritrovano la libertà dopo appena 3 giorni. E addirittura il 60 % vi rimane per meno di un mese. Rispetto a questi dunque la detenzione, per la sua brevità, non è in grado di offrire offre né sicurezza per i cittadini, né trattamento rieducativo ai reclusi.
Unendo i due dati ne consegue che, insieme a criminali pericolosi, anche una massa di poveri e disadattati entra in carcere e vi transita per qualche giorno. Affolla le strutture e rischia di essere reclutato dalla criminalità organizzata. Tra questi sventurati alcuni, già sofferenti per gravi disagi, si tolgono la vita. Spesso nei primi giorni di detenzione.
Cosa viene da pensare leggendo questi dati? Innanzitutto che il nostro sistema penale nel complesso non funziona. Ma è solo un eufemismo. Potremmo anche dire che è sull’orlo del collasso, perché determina il fallimento di una grande parte delle sue intraprese e dunque non offre un servizio utile. Per fare un paragone è come se nel sistema scolastico il 60% dei giovani abbandonassero la scuola. Se nel sistema sanitario il 60% dei ricoveri finissero col decesso del paziente.
La seconda considerazione è che ciò che manca è una regia complessiva nel sistema penale, non solo politica ma anche giudiziaria, che parta dalla osservazione di quante e quali detenzioni esso produce, e per quanto tempo, ossia si ponga la questione dei concreti risultati che riesce a realizzare.
La terza osservazione è che gli operatori penitenziari sono i soggetti più produttivi tra tutti gli operatori penali, se non altro perché, intervenendo nell’ultimo segmento, sono chiamati a uno sforzo sovraumano per correggere le storture generate dalle altre parti del sistema: impedire il suicidio dei disperati, accogliere poveri e malati di HIV offrendo loro un lavoro o un altro interesse per vivere, interpretare il linguaggio e le problematiche degli stranieri. Si perché sino a quando sarà vigente questa Costituzione, in carcere più che in ogni altro luogo sarà impossibile ogni discriminazione di “razza, sesso, lingua e religione”.
Per non dire della necessità di applicare con rigore le regole nei confronti di quanto hanno cercato di affermare la loro prevaricazione anche dentro gli istituti di pena: mafiosi ed esponenti di altri poteri criminali.
Solo conoscendo questo mondo è possibile comprendere il compito che l’istituzione penitenziaria è chiamata a svolgere, e concepire il carcere come laboratorio antirazzista, come estrema frontiera dello stato sociale, ad un tempo come luogo di offesa e di riparazione dei valori della nostra Costituzione. E dunque, inevitabilmente, come spazio apolitico, anti ideologico, da tenere al riparo dalle spaccature che si sono determinate nella Nazione.
Un luogo dove la sofferenza predomina, e dove la dignità dell’uomo deve affermarsi prima ancora dei suoi bisogni individuali. Dove gli operatori condividono il disagio coi detenuti e pagano sulla loro pelle il loro impegno in un ambiente estremo. Dove la malattia, la sofferenza, e persino il suicidio finiscono per accomunare i carcerati e quelli che ingenerosamente da qualcuno vengono ancora ritenuti i carcerieri. Non occuparsi del carcere è sprecare una occasione per conoscere lo stato di salute della nostra democrazia. Una occasione perduta, non solo per la società, ma anche per tanti addetti ai lavori del sistema giustizia che questo mondo non lo conoscono per niente. E tutto ciò mentre tanti benpensanti ritengono che tutti i cattivi stiano bene e stabilmente lì: al sicuro dietro le sbarre.