Freschi di stampa, 1917-2017 (11)
Prosegue la serie di testi ispirati o ripresi dall'ADL nell'anno delle due rivoluzioni russe che hanno cambiato il mondo. La nostra redazione di allora poté "coprirle" entrambe con materiale di prima mano. Ciò grazie soprattutto ad Angelica Balabanoff, fautrice degli stretti legami sviluppatisi tra i socialisti italiani e russi impegnati, insieme al PS svizzero, nella grande campagna di “guerra alla guerra”. Campagna lanciata con la Conferenza di Zimmerwald. E culminata nella Rivoluzione d'Ottobre.
Lettera-programma del compagno Lenin
«Le borghesie alla resa dei conti», titola L'ADL numero 23, anno XX, del 2 giugno 1917. Il catenaccio, anch'esso a tutta pagina, annuncia che: «Col fallimento della guerra, si avvicina il tramonto del nefasto dominio del capitalismo».
Pochi giorni prima, “Il Secolo” di Milano, all'epoca il secondo quotidiano d'Italia per copie vendute, aveva lanciato questo appello guerresco: «Occorre attaccare alla fronte. Una offensiva, comunque vada dal punto di vista militare, per la politica interna è una vera manna».
In quel maggio-giugno 1917 ha luogo, in effetti, la decima battaglia dell'Isonzo, che si pone come obiettivo lo sfondamento delle linee nemiche e la conquista di Trieste. Siamo, dunque, alle Idi di maggio e – dopo sessanta ore di bombardamenti a tappeto da Tolmino fino all'Adriatico (gran consumo di munizioni: enormi profitti per l'industria bellica) – il fronte austro-ungarico viene rotto nella periferia meridionale di Gorizia. E le forze armate italiane conquistano il villaggio di Jamiano e qualche collina carsica.
Seguono scontri, scaramucce, attacchi e respingimenti per un paio di settimane. Dopodiché inizia il contrattacco austriaco, che s'intensifica bruscamente il 4 giugno 1917. Ogni vantaggio strategico dell'Italia è vanificato nel giro di poche ore.
Che dire di questa “vera manna” per la “politica interna”?
Costi: 53 mila vite umane, 36 mila ragazzi italiani e 17 mila ragazzi austro-ungarici morti in poco più di tre settimane.
È bene ricordare che l'Austria-Ungheria sarebbe stata disponibile fin dall'inizio della guerra a cedere Trento e Trieste all'Italia in cambio della neutralità. Non una goccia di quel sangue fu, dunque, veramente necessaria allo scopo ufficiale che la propaganda di guerra andava agitando da tre anni.
Dopo la decima battaglia dell'Isonzo, il Ministero della guerra diffonde un comunicato: «L'azione delle nostre fanterie fu superiore ad ogni elogio, e le gravissime perdite sofferte imposero rispetto allo stesso nemico».
Tutt'altrimenti, il fondo dell'ADL, recante il titolo “Nel vicolo cieco”, afferma che: «Venne l'offensiva: due chilometri di avanzata, diecine di migliaia di morti dall'una e dall'atra parte. Con la gonfiatura dell'episodio, con strombazzatura della vittoria, con esaltazione morbosa del “valore italico” ecc. ecc. (…) Mentre il giornalismo venduto cerca di dipingere un'Italia unanime che si entusiasma alle novelle della poca terra strappata al nemico, con ecatombi di uomini dall'una e dall'altra parte. Non risoluto nessuno dei problemi (…): non trovati i mezzi, che non vi sono, per risolvere la guerra in breve e vittoriosamente; non fronteggiato il pericolo rosso della rivoluzione che minaccia; non moralizzata la guerra dal punto di vista della equa ripartizione del male e del sacrificio, poiché i fornitori continuano a rubare a man salva ed il proletariato continua a soffrire fame e morte. Nulla!». (ADL 2.6.1917).
Il fondo dell'ADL incalza: «Noi sentiamo che manca in Italia nei dirigenti della classe dominante ogni fede, ogni entusiasmo, ogni energia (…) Qualcosa è franato con la guerra nel mondo borghese: è franata la convinzione cioè che i popoli anche se martorizzati e massacrati restino docili alla catena (…) Lo schiavo di ieri si è liberato in Russia e minaccia coi pugni protesi gli sfruttatori delle altre nazioni». (ADL 2.6.1917).
L'establishment si trova in un “vicolo cieco” perché, dopo aver voluto la guerra in vista dei grandi affari che essa sempre porta con sé, si rende conto ora dei grandi rischi sopraggiunti. Avanzare e vincere non si può. Stipulare la pace nemmeno. E cresce, invece, il rischio rivoluzionario. Perciò “si avvicina il tramonto del regime capitalistico-borghese”. Questa la tesi di fondo. Che sembra una cosa eccessiva. Ma sul piano macro-storico le cose paiono prendere proprio questa piega. Basti pensare che, meno di trent'anni dopo, nel maggio del 1945, una grande parte dei paesi e degli abitanti del pianeta si troverà a vivere in regimi di affiliazione sovietica. Solo la successiva avversione al carattere dispotico che il comunismo aveva assunto e il “soft power” – vuoi liberal-democratico, vuoi social-democratico – messo in campo dall'Occidente durante i “trenta gloriosi” (1945-1975) condurrà, in epoca più recente, alla crisi dell'impero moscovita.
Oggi noi viviamo in una fase di amnesia neo-liberista quasi totale, ma nel punto storico in cui ci collochiamo nel rileggere L'ADL del 2 giugno 1917 è del tutto evidente che un gigantesco rivolgimento globale sta iniziando.
Appare, quel giorno, sull'ADL “Una lettera-programma di Lenine” (ancora in grafia francese). Il testo esordisce e si snoda, tipicamente diremmo, lungo una serie di prese di distanza piuttosto faziose rispetto ai dirigenti socialdemocratici europei, tutti o quasi in odore di opportunismo. Tra essi il leader bolscevico annovera anche “la maggioranza fra i dirigenti del Partito socialista svizzero” alla quale contrappone la «affettuosissima (…) solidarietà da parte dei lavoratori socialisti rivoluzionari».
Naturalmente Lenin rivendica la più riguardosa non ingerenza nelle vicende interne degli altri partiti socialisti d'Europa, fatta eccezione tuttavia per le “questioni fondamentali di principio”. Nel qual caso: «La nostra voce si elevava per il trionfo delle tendenze politiche della “Sinistra di Zimmerwald”, e per far fronte non solamente al social-patriottismo, ma anche alle tendenze del cosiddetto “Centro” i cui rappresentanti sono: R. Grimm, P. Schneider, Jacq. Schmid ecc. ecc. nella Svizzera; Kautsky, Haase della “Unione del Lavoro” in Germania; Longuet, Pressemane ed altri in Francia; Snowden, Ramsky, Macdonad ed altri in Inghilterra; Turati, Treves e i loro amici in Italia; e quel Partito socialista russo che abbiamo sopra nominato, avente nel suo Comitato organizzatorio Paul Axelrod, Martow, Tscheidse, Skobelow» (ADL, 2.6.1917).
La polemica di Vladimir Ilic Ulianov contro questa «schiuma immonda che si è prodotta alla superficie del movimento operaio internazionale» non è nuova, ma ora le meandriche dispute contro i menscevichi d'ogni ordine e grado stanno per imboccare la strada di uno scatenamento cinico nuovo, che porterà le parole a tradursi in oltraggi, proscrizioni, pogrom e purghe secondo una dinamica tristemente nota.
A chi gli chiede che cosa intenda fare il suo partito nel momento in cui giungesse “immediatamente” al potere, Lenin risponde:
«1. Offrire la pace a tutti i popoli belligeranti; 2. Noi proponiamo al riguardo le seguenti condizioni: a) proclamare immediatamente l'indipendenza delle colonie; b) liberazione dei popoli oppressi, restituendo ad essi i loro diritti. 3. Noi incominceremmo immediatamente questa opera con la liberazione dei popoli oppressi dai “grandrussi”» (ADL, 2.6.1917).
Offrire la pace… Liberare i popoli oppressi… Sembra un programma da professori neo-kantiani. Poi però il capo dei bolscevichi aggiunge: «Noi dovremmo condurre la guerra rivoluzionaria non solo contro la borghesia russa, ma anche contro quella della Germania. E noi saremmo disposti a condurla. Noi non siamo pacifisti. Noi siamo avversari delle guerre imperialiste (…) [Ma] sarebbe una assurdità voler pretendere dal proletariato la rinuncia alle guerre rivoluzionarie (…). Il proletariato russo ha avuto la sorte di essere chiamato a dare principio a una serie di rivoluzioni le quali vengono determinate e provocate dalla medesima guerra attuale. (…) Ora, dopo il marzo 1917, solo un cieco può avere il coraggio di sostenere che la nostra tesi sia errata. La trasformazione della guerra imperialista in guerra tra classi incomincia a diventare realtà.» (ADL 2.6.1917).
In effetti, solo un cieco può leggere le parole della “lettera-programma” di Lenin e non vedere come il disegno del futuro fondatore dell'URSS possegga già la forma monumentale e azzardosa della dottrina politica in grande stile.
Sentiamo, qui, che il secolo breve si approssima alla sua velocità di massima. Quando l'avrà quasi raggiunta, Walter Benjamin trarrà da un quadro di Klee l'immagine emblematica dell'Angelus Novus:
«Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine davanti a lui sale al cielo.»
Così Benjamin nelle sue Tesi del 1940, redatte dopo il patto Hitler-Stalin e l'invasione della Polonia.
Ma già il 2 giugno del 1917 la redazione dell'ADL, pur mostrando sincera ammirazione per “il vigore e il valore” di Vladimir Ilic Ulianov e pubblicando in grande evidenza la sua “lettera-programma” quale testimonianza di un “tenace assertore della pace e della lotta di classe”, non riesce già più a nascondere qualche riserva:
«Inutile dire che non condividiamo intieramente gli apprezzamenti che il compagno Lenine fa nei riguardi di molti uomini che, come il Grimm, sono parte del nostro movimento zimmerwaldiano» (ADL 2.6.1917). Come dire che, per la nostra comune perceptio, ci sono forme dell'attacco personale tali da risultare eccessive anche agli spiriti più rivoluzionari nei tempi più infuocati.
(11. Continua)