Una  riflessione siloniana 
 
  
 In  occasione dell'uscita presso le edizioni dell'ADL di "Zurigo Per Silone II",  curato da Emilio Speciale, pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento del  nostro direttore. 
 
  
 di  Andrea Ermano 
 
 
  
 Che  cos'è l'uomo?  
    
 Desidero  proporvi uno schema di riflessioni circa il senso e il significato della dignità  della persona, procedendo nello spirito dell'umanesimo socialista che secondo  Ignazio Silone consiste in un'estensione etica di quel sentimento di fratellanza  per il quale l'uomo sta al di là di tutti gli interessi economici, politici e  religiosi che tendono a strumentalizzarlo e a opprimerlo. 
     Muovendo di qui incontriamo una domanda tutt'altro che secondaria, nella quale  Kant fa confluire le questioni ultime della filosofia in "senso cosmopolita":  
 
  
 1)  Was kann ich wissen?  
 2)  Was soll ich tun? 
 3)  Was darf ich hoffen? 
 
  
 Che  cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è dato  sperare?  La  domanda in cui i tre quesiti confluiscono è: «4) Was ist der Mensch?»  Che  cos'è l'uomo? 
     Con gli antichi si potrebbe rispondere che l'uomo è quell' essere vivente che  possiede pensiero e linguaggio . 
     Gli atti del pensiero e del linguaggio posseggono una struttura  intenzionale : sono sempre riferiti a qualcosa. I segni del linguaggio  sono sempre "segni di...". Così il pensiero è sempre "pensiero di...".  Segni  di... Pensiero di...  Di che cosa? 
 
 
  
 Essere,  alla terza e alla prima persona  
 
  
 Il  tratto comune agli oggetti del pensiero e del linguaggio sembra risiedere nel  loro semplice essere . La nozione di oggetto in generale fa il suo  ingresso nel pensiero, nel linguaggio e nella tradizione della filosofia come  sostantivo participiale neutro. Esso è l'ente, il ciò-che-è parmenideo  che solo 'è' e che non può non essere. 
     Esso in verità si rivela un coacervo abbastanza assurdo, data l'estrema  difficoltà che il pensiero e il linguaggio incontrano nel cercare di determinare  che cosa esso sia nella sua sostanza. Non l'acqua né il fuoco, non l'aria o la  terra o il Sole "grande un piede", né l'essere giallo o bianco o un altro dei  cangianti colori. Perché se c'è l'ente giallo, pure esiste il non-giallo; così  il bianco 'è', ma anche il non-bianco. 
     Insomma, l'ente può essere detto in molti modi, e in altrettanti contraddetto.  Il mondo dell'ente è troppo pieno di contraddizioni, cioè vuoto: un nulla.  
     All'essere degli antichi, neutralizzato e annichilito, la rivoluzione cartesiana  ha opposto una nuova sostanzialità, quella della prima persona . Questa  rivoluzione consiste nel riferire il pensiero a se stesso: Io penso, dunque  sono . Ma resta aperto un grosso problema: come potrò io, solus ipse,  distinguere il mondo dal sogno? Il cogito moderno sembra destinato a  rimanere prigioniero di un'autoreferenzialità senz'evasione. 
     Né dalla prima persona cartesiana, ombra di un sogno, né dalla terza persona  parmenidea, coacervo di contraddizioni che non significano nulla, sembrano  poterci venire molti ragguagli sul nostro mondo. 
 
 
  
 Seconda  persona come  substantia  prima  
 
  
 Per  compiere una rivoluzione mondiale dell'essere occorre volgersi alla  seconda persona. 
     Tu sei, tu esisti. Voi siete, esistete per davvero.  
     Nella seconda persona la sostanzialità dell'essere si manifesta secondo la  dignità , valore assoluto che appartiene a te, a voi e a ciascun singolo  'tu'. 
     L'essere si declina originariamente alla seconda persona per via della sua  innegabilità nella "relazione sociale". La curvatura buberiana-levinassiana  dello spazio intersoggettivo illumina l'esteriorità del mondo come orizzonte  generale in cui anche il riferimento oggettivo trova un suo contesto, necessario  a "salvare i fenomeni". L'esistenza dell'altro, ossia in ultima analisi il "tu  sei, tu esisti", è garante dell'esteriorità, cioè del nostro mondo umano  d'azione, di parola e di pensiero. 
     La differenza dell'approccio consiste nel pensare l'essere a partire dalla  sostanzialità dell'altro, ossia dalla sua propria personalità, la cui  caratteristica è il possedere dei diritti. Il primo presupposto dei diritti  (inalienabili) della persona consiste nel suo, e dunque nel tuo, existere  . 
     La dignità  intesa come "valore assoluto"  si manifesta nell'essere del "tu  sei", assolutamente riconosciuto. L'essere nella seconda persona possiede lo  statuto ontologico di chi esiste a buon diritto, per diritto suo proprio,  indipendentemente dai sogni, dalle fantasie, dalle ideologie dell'io che  inesorabilmente tendono a cosificare il ciò-che-è in una totalità di  funzionalizzazioni economiche, politiche e religiose. 
     In altre parole, se il Tu dell'Io significa un Esso, cioè un Ente apparente e  dunque un Niente, tutt'altrimenti dentro la curvatura dello spazio dialogico  ogni parola e ogni pensiero significano qualcosa, perché intendono sempre anche  e soprattutto qualcuno , un 'tu' a cui ogni parola è detta.  L'intenzionalità nella sua datività significa qualcuno : è, per così  dire, il nome proprio all'infinito.  
     Questa datività dell'essere, essere che da Aristotele a Heidegger declinava le  categorie dell'esistenza all'accusativo, indizia ora nel 'tu' la sostanza come  persona e con essa la dabilità del nostro mondo. 
     La rivoluzione mondiale dell'essere è personale . 
     È personale in quanto, storicamente, ha inizio come passaggio dalla  neutralità impersonale del ciò-che-è (l'orribile il y a di cui  parla Emmanuel Levinas) alla personificazione dell'"io penso, dunque  sono". 
     Ma è soprattutto nel passaggio dalla prima alla seconda persona, dall'"io sono"  al "tu sei", che la rivoluzione mondiale dell'essere trova compimento.  
 
 
  
 Transizione  bio-etica  
 
  
 Se  dunque l'essere sostanziale si svela nel "tu sei" mostrando l'etica come  prima philosophia, è nell'esistenza personale che la substantia  prima s'invera, fin dalle sue origini storico-concettuali che gettano  radici profonde nella crisi della dottrina delle idee, tra la redazione  platonica del Parmenide e quella aristotelica delle Categorie.  
     L'ousiologia  fin qui tratteggiata, che schematizza l'idea di persona, è icasticamente  riassunta dal  l' annotazione del  vecchio Kant: 
 
  
 Ein  Ding res; eine Substanz die so sich ihrer Freyheit bewußt ist ist Person  , hat auch Rechte . 
 
  
 «Una  res , Ding  una sostanza che sia in tal guisa consapevole della  sua libertà, è persona , ha anche diritti ». Oggi, nei termini  della Dichiarazione universale, si potrebbe dire: «Ogni individuo ha  diritto, in ogni luogo , al riconoscimento della sua personalità  giuridica» (art. 2.2) e ciò in quanto «tutti gli esseri umani nascono liberi ed  eguali in dignità e diritti» (art. 1). 
     Proviamo ora a torcere l'angolatura visuale. Cerchiamo di focalizzare la  questione bio-etica che si pone nel discrimine tra 'persona' e  'non-persona'. Si tratta di un problema che c'interpella in modo bruciante  nell'odierna costellazione globale caratterizzata da massicci moti migratori e  da massicce violazioni dei diritti umani. 
     Per cogliere il senso di questo discrimine è utile riflettere sulla distinzione  tra la vita umana e la vita nuda. Esemplare, proprio in questi giorni di  violente polemiche bio-etiche  [il discorso di cui qui si riporta il testo è  stato tenuto il 23 novenbre del 2008, ndr] , è il caso di Eluana Englaro, la donna in coma  irreversibile dal 1992 per la quale il padre chiede si cessi l'accanimento  terapeutico che viene perpetrato sul corpo di lei, corpo privo di vita cosciente  e coperto da piaghe di decubito. 
     In merito al Caso Eluana si asserisce da parte "pro life" che la  dichiarazione di morte cerebrale non basta a sancire la fine della vita.  
     Sul piano pratico i trapianti andrebbero allora vietati. Questo quanto meno  consegue al criterio della nuda vita. Perché ovviamente c'è 'vita' anche  in assenza di vita cosciente, cioè al di fuori della cinta concettuale della  "vita umana". Ma, se gli organi di una persona considerata 'morta' per assenza  di attività cerebrale debbono essere trapiantati 'vivi' mentre di contro non è  lecito considerare veramente 'morta' una persona in stato d'inattività  cerebrale, se cioè bastassero i meri segni di vita presenti nei suoi organi a  dichiarare 'viva' una persona, allora non si comprendebbe più in qual senso mai  si possa parlare di "fine della vita umana ", e questo certo non soltanto  in rapporto alla pur delicata problematica dei trapianti. 
     L'aporia, inedita nella sua virulenza, mette in luce l'importanza della  distinzione che riteniamo intercorrere tra la nozione di vita umana e  quella di nuda vita. 
     Domanda ai difensori della nuda vita: volete voi assimilare la vita umana  a quella, per esempio, di un'ape? 
     All'ape che succhia del miele può essere staccato di netto l'intero addome senza  che essa mostri di accorgersene: continuerà a succhiare il miele, che  fuoriuscirà ora dal tronco del suo corpo mozzato. 
     L'inquetudine che proviamo dinanzi alla crudeltà comunque insita in questo  genere di osservazioni si mescola all'inquietudine che proviamo per l'assenza di  umanità che la nuda vita segnala. 
 
 
  
 La  minaccia sovrana  
 
  
 L'inquietante  paesaggio s'inasprisce ulteriormente nel transito dalla bio-etica alla  bio-politica, intesa come il luogo delle decisioni dotate di vigore  normativo.  
     E qui va detto che  se consentiremo ai benintenzionati di sancire  un'equivalenza tra l'espressione "nuda vita" e l'espressione "vita umana"  noi  allora nel nome delle buone intenzioni dell'oggi spalanchiamo le porte ai  malintenzionati di domani, i quali non tuteleranno la vita nuda, ma denuderanno  la vita umana. Questo la storia insegna. 
     Nella storia umana è orribilmente normale che i diritti vengano revocati a  intere categorie di persone e financo a interi popoli, per esempio a quelli  sconfitti in guerra. La guerra, genitore di tutte le cose, rende gli uni liberi,  gli altri schiavi, sentenziava già Eraclito. E si tende a dimenticare che il  primo Comandamento della tradizione giudaico-cristiana racconta in realtà la  storia di una liberazione: 
 
  
 Io  sono il Signore, tuo Dio, che ti fece uscire dal paese d'Egitto, dalla casa  degli schiavi.  
 
  
 Così,  il Comandamento è memoria di Liberazione   di fuori uscita  dalla schiavitù. Ma proprio perciò presuppone la vicenda di un asservimento  precedente, il quale (detto nei termini protofilosofici da cui abbiamo preso le  mosse) avviene in forma di riduzione del 'tu' a un 'esso'.  
     C'è la cosificazione. Cui, nel dramma della schiavitù, la seconda persona  è stata assoggettata, senza che ciò potesse per altro incontrare un  insormontabile ostacolo nella coscienza di un 'io' aduso a reificare ogni suo  oggetto, come se tutto fosse una semplice 'cosa'. 
     Nel 322 a.C. il luogotenente imperiale macedone, Antipatro, espulse i lavoratori  ateniesi dal novero della cittadinanza perché dediti alla fatica delle braccia,  considerata degna degli schiavi e non di uomini liberi, ricorda Mario Vegetti.  
     La storia del pensiero è ricca di teorie tassonomiche alquanto efficienti nel  sussumere certi gruppi di persone alla categoria dello schiavo e nell'attribuire  poi loro una biologia sub-umana cui giustapporre la natura super-umana riservata  ai lor signori.  Nelle tassonomie signorili la natura biologica dello schiavo include che sia bene per  lui obbedire al suo padrone e servirlo. 
     Nel 71 a. C., lungo la via Appia, il proconsole Mario Licinio Crasso fece  denudare per spregio e poi crocifiggere seimila persone: Spartaco e i suoi  seguaci, ribellatisi alla condizione servile. 
     La logica sovrana, appartenente a chi assume la potestà di classificare  "schiavi" certe persone, è la stessa che può poi riqualificarle "api",  "formiche" o al limite "scarafaggi", reperendo se del caso i mezzi atti a un  trattamento in linea con la tassonomia prescelta. Questo è stato. La  riduzione della vita umana a nuda vita, e la cosificazione della medesima, è il  "ciò che era ad essere" della discriminazione, della persecuzione e dello  sterminio. Questo è stato. 
     Rimeditando queste gravi tematiche, Giorgio Agamben riprende la categoria dell'  homo sacer, risalente al diritto romano arcaico. 
     Homo sacer  uomo "sacro" secondo un'accezione secondaria che il termine  possedeva in latino e che significava: "detestabile", "esecrabile", "maledetto"   era una persona non esplicitamente condannata a morte, ma che poteva essere  ammazzata da chiunque, senza che tale uccisione venisse considerata un omicidio  dall'autorità. 
     Ecco la figura giuridica di una "vita umana" dichiarata uccidibile ,  spogliata di ogni sacralità, cioè della sua dignità personale, cioè dei suoi  diritti, quindi ridotta a "vita nuda" ed esposta come tale all'arbitrio sovrano.  
     Ecco l'archetipo della pubblica maledizione, che sottende all'antropologia del  barbaro, della donna e dello schiavo, che il potere classificatorio può  ridesignare 'nemico', 'strega', 'traditore', eccetera. 
     L'apice abissale del disastro immane  che un Walter Benjamin insorto contro il  Patto Molotov-Ribbentrop iniettò nella pupilla atterrita dell' Angelus  novus e che Agamben ripercorre "da Aristotele ad Auschwitz"  culmina nel  lager nazista. 
     Il luogo della Shoah non si presenta soltanto come trionfo di morte  assoluta per l'umano, ma anche come laboratorio di un esperimento impensato «in  cui i confini fra l'umano e l'inumano si cancellano». 
     Nel campo di sterminio l'arbitrio sovrano reclama la sua potestà sul discrimine  tra Persona e Non-persona. 
 
 
  
 Cosmopolis  
 
  
 Tanto  più drammatico è lo scenario che ci si apre in prospettiva  cosmopolitica.  
     L'ideale cosmopolita, vetusta utopia dei Lumi, attiene per noi oggi all'  urgenza di governare dinamiche globali che non possiamo in alcun modo  abbandonare a se stesse. 
     Ma il mondo umano non è governabile senza il consenso delle persone.  
     Ergo, la governabilità del nostro mondo vitale non può fondarsi che sulla mente  e sul cuore di ciascun singolo 'tu' in una rivoluzione sociale mondiale  improntata all'estensione di quel "sentimento di fratellanza" nel cui spirito ho  esposto le presenti considerazioni. 
     Per concludere vorrei ribadire tre convincimenti, in modo necessariamente  negativo. 
     Non sappiamo se il nostro sconfittissimo "socialismo umanista" sia anche solo  lontanamente possibile. 
     Non vediamo alcuna seria ragione per smettere di crederlo necessario.  
     Non sarà il potere sovrano a salvarci. 
 
 
 
  
 Dieci  piccole epsilon 
 
  
 Postilla  del 5 marzo 2011  
   
 Tutti  sanno che i politici romani portano su di sé responsabilità storiche. Lo afferma  anche Joseph Ratzinger che, nella seconda parte del suo libro su Gesù,  s'interroga sulla celebre domanda pronunciata dal "pragmatico Pilato" un tragico  venerdì di circa duemila anni fa. 
     Il predicatore, un nazareno barbatus, sta in piedi nel pretorio davanti  al governatore. È imputato di vilipendio all'autorità civile e religiosa, reato  grave ove non sacrilego. Potrebbe costargli la vita. 
     Il giovane intellettuale della Galilea si mette a parlare di verità. Dichiara di  essere venuto al mondo per testimoniare la "Verità". Un fanatico? 
      «Che cos'è la verità?»  gli domanda a bruciapelo il prefetto, per vedere  quale definizione abbia in mente quell'uomo. Sarà facile poi chiedergli perché  mai la sua verità debba coincidere con la Verità con la "V" maiuscola.  
     L'imputato tace. Dopo qualche istante l'intero quadro accusatorio appare a  Pilato del tutto inconsistente e lo dice anche: «Non trovo nessuna colpa in  lui». 
     Poi, però, invece di proscioglierlo, lo spedisce sul patibolo. È per via di un  mezzo plebiscito, inscenato sotto il balcone da una mezza tifoseria ululante.  
     Che importa se l'innocente non è colpevole? 
     Che significa innocente? 
     Che cos'è la verità? 
     In politica i rapporti di forza contano. E per lo più discendono da semplici  quantificazioni: tanti i sostenitori, tanti gli indifferenti, tanti gli  oppositori, tante le munizioni. Qui  s'inserisce la domanda ratzingeriana: 
 
  
 Può  la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? 
 
  
 Bell'interrogativo,  perché o la politica è totalmente incapace di verità (e l'unica sua  legittimazione sta allora nella violenza, nella corruzione e nella frode),  oppure bisognerà pur poterlo sciogliere, questo paradosso di Ponzio Pilato, cioè  'mostrare' finalmente un grano di verità in politica. 
     Uno  schema di soluzione, si può forse provare a tratteggiarlo partendo da quella  "curvatura" dello spazio interpersonale che chiamiamo Linguaggio. 
     Sull'isola di Delfi  patria del Linguaggio ( Conosci te stesso! Nulla di  troppo! )  antichi scultori inscrissero la lettera greca "E", una grande  Epsilon , la inscrissero nel frontone del tempio di Apollo. Questa grande  Epsilon , ad ascoltare Plutarco, indicava la seconda persona del verbo  essere: Tu sei. Tu esisti. 
     Analogamente, in ogni parola umana è inscritto un piccolo indizio cui di solito  non badiamo, ma che intende sempre e comunque l'esistenza reale di un "tu"  capace di ascoltare quella parola. Ciò che vale anche per la parola "verità", e  per essa anzi vale a ben maggior ragione. 
     La verità della verità si svela essere un "tu" che emerge come significato  sostanziale dal linguaggio umano, comunque, dovunque. 
     La verità della verità s'incarna nella sostanza prima dell'altro essere umano.  Fin dall'inizio della riflessione sulle categorie, già in Aristotele, la  categoria di sostanza prima è regolarmente associata a un essere umano. Né  questi ammette un maggiore o minor grado di sostanzialità, afferma il Filosofo.  Tutti gli esseri umani sono pari in sostanzialità e umanità, cioè pari in  dignità. 
     Ecco, a partire da questa categoria sostanziale della dignità umana , la  politica  ma non solo essa  può e deve farsi carico della verità a lei  propria, una verità faticosa, priva di sfarzo. Inesauribile  nella sua capacità critica. Inservibile in funzione dogmatica. 
 
 
 
  
 Nel  suo Dizionario delle sentenze latine e greche  , Renzo Tosi menziona un "curioso aneddoto", secondo cui alla domanda circa la  definizione della verità, 
 
  
 Quid  est veritas?  
 
  
 qui  formulata nella traduzione latina dell'enunciato originario, Gesù di Nazareth  avrebbe risposto con un arguto anagramma:  
 
  
 Est  vir qui adest.  
 
  
 Che  cos'è la verità? È l'uomo che ti sta davanti.  Pare  strano, storicamente, che i due possano aver conversato in latino, ma se non è  vera è ben trovata  .