lunedì 21 dicembre 2009

Il dibattito nel Partito del Socialismo Europeo


Nuovi interventi nella Good Society Debate
http://www.goodsociety.social-europe.eu

Can The State Still Be Saved?
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"The state is crucial for the promotion of social justice,
and must be defended from its many detractors.…"
by Karin Roth

The Future of Social Democracy: A Spanish Vision
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"To solve our current problems realist and practical policies are required,
but they must also always retain a social-democratic ethos.…"
by Jesus Caldera Sanchez Capitan

Fair taxes are part of the Good Society
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"Fiscal deficits can be managed and are less dangerous than cuts.…" by Will Straw

The Next Left: Lessons from the Past, Challenges for the Future
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"New thinking is needed to enable social democrats
to overcome their divisions and begin to work together.…"
by Ernst Stetter

Overcoming the Economic Recession with Green Policies:
An Opportunity we cannot afford to miss!
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"There is no need to choose between environmental protection,
economic development and social justice.…"
by Margot Wallstrom

A new public-private Mix for Market Economies
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"The finance sector should not be shielded by tax-payers
from Schumpeterian creative destruction.…"
by Tapio Bergholm and Jaakko Kiander

The Social Democracy of Fear
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"We need to be bolder in attacking the ideology of the right.…" by Stephanie Blankenburg

For a European Left open to the World
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"It is time for the EU to move away from its
inegalitarian policies towards the countries of the South.…"
by Lorenzo Marsili

Politics before Economy and Ideology before Reality?
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"Grand visions can run the of risk of overlooking important facts on the ground.…" by Cristian Ghinea

Poverty and Social Exclusion: A Question of Democracy
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"We must make the most of the opportunities that are presented
by the European Year of Combating Poverty and Social Exclusion.…"
by Niccolo Milanese

Facing Up To Our Mistakes 
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"Social democrats must be promoters of progressive change, not technocrats.…"
by Niels Annen 

venerdì 11 dicembre 2009

CEFISI (PSI) RAPPRESENTANTE ITALIANO NELL'UFFICIO DI PRESIDENZA DEL PSE

Il congresso del PSE ha ratificato il ritorno dei socialisti italiani al loro nome storico, PSI. I superstiti della diaspora socialista puntano a costruire nel Pse un'unità dei riformisti insieme al Pd, ma anche alla Sinistra di Fava e a quella di Vendola.

(PRAGA, 8-12-09) - Il congresso del PSE a Praga ha confermato la nuova presidenza, che affiancherà il presidente Poul Rasmussen. Rispetto al congresso di Porto nel 2006, e per la prima volta dal 1992, anno di fondazione del Pse, ne farà parte soltanto un rappresentante italiano, il responsabile internazionale del PSI, Luca Cefisi. Il posto dei Ds, confluiti nel PD, rimarrà vacante finchè il partito di Bersani non scioglierà le riserve.

    Secondo Cefisi -- consapevole della necessità di realizzare una presenza italiana nel PSE più vasta di quella che egli attualmente può garantire -- "è utile che il PD decida di partecipare pienamente alla vita del PSE, e non solo come invitato ai congressi. Non sono più i tempi di una concorrenza a sinistra negli organi europei, ma di costruire nel Pse un'unità dei riformisti".

    Il responsabile esteri del PSI di Nencini auspica "di essere al più presto affiancato da un esponente del Pd nell'organo di governo del PSE, perchè il PSE deve diventare il punto di riferimento in Europa dei riformisti italiani, e penso al PD, ma anche alla Sinistra di Fava e a quella di Vendola".

    Il congresso del PSE ha anche ratificato il "ritorno" dei compagni italiani al loro nome storico, Partito Spcialista Italiano. Si tratta di un tributo della solidarietà internazionale alla speranza che la classe dirigente del SI-SDI-PS-PSI si mostri degna della storia alla quale essa ora esplicitamente si richiama, dopo la soluzione di continuità avvenuta nel 1994.

    Pia Locatelli, Presidente dell’Internazionale socialista donne, intervenendo al congresso del Pse a Praga, nella sessione sulla crisi finanziaria internazionale ha parlato della crisi in corso. "La finanza è uno strumento, non un fine in sé e la crisi in corso non è frutto di casualità, ma il risultato di ben precise scelte politiche”,ha detto.

    “Troppe sono le vittime della crisi, - ha continuato l’esponente socialista - occorre compiere scelte politiche di governo dell'economia, regolando il segreto bancario, favorendo la trasparenza e l'affidabilità dei sistemi finanziari. I fallimenti dei vertici di grande banche e istituzioni finanziarie, un mondo molto maschile e maschilista, suggeriscono anche che l'apertura alle donne anche in questi ambiti sarebbe un progresso, e del resto è provato – conclude Locatelli - che le donne al vertice degli istituti finanziari mostrano di solito una performance più prudente e equlibrata”.

       
Elzeviro

A proposito di modernità

di Gerardo Milani 
 
La modernità (concetto unilaterale e riduttivo) non coincide necessariamente con la contemporaneità. Essa è una forma particolare della contemporaneità, affermatasi con l’emergere di un senso storico e di una coscienza individuale in epoca umanistica e con il manifestarsi di un processo dinamico di superamento dello stadio di civiltà feudale e gentilizia a fondamento agricolo. I presupposti scientifici (l’indagine sul mondo della natura) risalgono al Rinascimento, mentre la sua fase di pieno sviluppo coincide con le grandi rivoluzioni di fine Settecento (la costituzione degli Stati Uniti d’America e la Rivoluzione francese) e la dominanza della cultura tecnico-scientifica. Nella coscienza individuale la modernità, così radicata nella finitezza della storia, si è costituita come percezione del presente, del nostro essere qui ed ora, e del suo costruirsi con un carattere, transitorio e fuggevole, di assoluta singolarità. Roland Barthes ha voluto intenderla come un’avventura proiettata verso la periferia, oltre gli ambiti di verità fondati su concezioni razionalistiche, in contrasto con il movimento centripeto proprio del culto dell’antico. Essa ha assunto, come suo tratto distintivo, una qualità trascendentale interna al soggetto e indipendente dall’esperienza storica. Ci è apparsa e appare tuttora ciò che non è, ossia una condizione umana essenziale e perenne legata alla concezione di un tempo lineare e fondata sull’idea della capacità dell’uomo di autodeterminarsi e progettare il futuro. Forte del suo cammino secolare, nella sua presunzione di superiorità si arroga illegittimamente il diritto di essere eterna.

    Nel corso del Novecento tramonta la fase propulsiva e ottimistica, mentre insorgono scadenze ultimative che investono le sorti del nostro pianeta spazzato dal “vento globale” e soggetto a mutazioni climatiche e antropologiche. Nello stesso tempo la definitiva rottura con il passato operata dalle avanguardie ha consacrato il trionfo di una contemporaneità “absoluta” e avvolgente, simile a una sorta di bunker inaccessibile, uno spazio/tempo chiuso e insonorizzato, sorvegliato da sentinelle tecnologiche ad alta specializzazione. Conseguenza inevitabile: l’uscita, dalla scena, del futuro, tra le determinazioni temporali quella con funzione primaria. Alla fine degli anni Settanta Jean-François Lyotard (sostenitore della fine delle “grandi narrazioni”) ha parlato di condizione umana “postmoderna”. Zygmunt Bauman ne analizza oggi i risvolti “liquidi”, contraddittori e sfuggenti.

    In relazione alle drammatiche contingenze del nostro Paese, interessa constatare il fallimento del progetto etico sotteso all’Illuminismo, cuore della modernità. Venuta meno la fiducia nella positiva moralità della ragione (insieme con l’idea di armonia e ordine delle relazioni umane), la coscienza individuale ha dimostrato la sua inconsistenza, la sua incapacità “ontologica” di mediare una coscienza collettiva, un Noi in grado di dispiegarsi e operare per il bene comune. Alla coscienza intenzionale, motivata da impulsi morali, si è sostituita, come surrogato, una coscienza empirica, opportunistica, totalmente immersa nel commercio delle cose. La fine del “viaggio” conoscitivo dell’Illuminismo ha coinvolto il destino della sinistra (e della sua versione socialista) nata dalla Rivoluzione francese nei giorni convulsi della Convenzione. Essa è e rimane oggi quello che fu all’origine: una somma di opinioni individuali. Devastata da un processo incontrollabile di frammentazione (fenomeno intrinseco e costitutivo della realtà postmoderna, governato da Eris, nume della discordia), per dirla con Besostri, appare animata da “spinte irrazionali in direzione mortale”. Vittima, aggiungo, di una patologia maligna, un’ipertrofia dell’io che chiamerei “singolarismo”.

      Milan Kundera in un suo romanzo (L’identità ) fa dire a un personaggio: “L’invenzione di una locomotiva contiene in germe il progetto di un aereo, che a sua volta conduce inevitabilmente al missile interplanetario. Questa logica è insita nelle cose stesse – in altre parole, fa parte del progetto divino”.

    Può essere. Che il nostro mondo sia assoggettato ai voleri di una divinità malvagia?       

C'era papà 

Ipse dixit

C’era papà  - «Era metà pomeriggio, stavo tornando a casa e mi sono fermato a far benzina. In effetti l’ho saputo da lui, dal benzinaio: "Ha sentito? Hanno messo una bomba alla Bna di Piazza Fontana". E come un lampo mi è venuto in mente che mio padre era là. Trattava lubrificanti per macchine agricole, quel giorno c’era il mercato. Ho girato la macchina e sono corso. Al cordone di polizia ho spiegato, mi hanno fatto passare. E così ho visto i primi morti. Ma lui non c’era. Neanche tra i vivi lì attorno però. A casa neppure. Ho pensato: disperso in giro? In ospedale? Ma quale? Allora sono andato in questura, per chiedere. E ci ho trovato mio fratello Giorgio, arrivato lì per lo stesso motivo. Ci hanno mostrato un elenco di nomi: niente. Stavo quasi per tirare il fiato. Finché invece un funzionario ci ha detto che "in realtà abbiamo un morto non ancora identificato". Ci ha accompagnato in obitorio. Hanno sollevato un lenzuolo. Sotto c’era papà».- Paolo Silva, figlio di Carlo Silva, vittima della Strage di Piazza Fontana     
       

IL DIBATTITO POLITICO NEL  PARTITO DEL SOCIALISMO EUROPEO
 
Good Society Debate
sulla rivista "Social Europe"
Policies for the Future that Social Democracy in Europe deserves
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"Some critical responses to the Good Society document.…"
by Yusuf Isik
In Pursuit Of Utopia
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"In these conservative times we must look to the past for our utopian values.…"
by Wojciech Przybylski
All Served In A Bucket – With Eggs On Top
"Can social democracy be a goal in itself, and not just a means to some other end?…"
by Remi Nilsen
The Good Old Days Should Come Back
"We need to engage with the world as it is, and use the language of ordinary people.…"
by Artur Celinski
Desperately seeking Social Democracy
"Social democracy needs to redefine itself, and in particular it needs to separate itself from right-wing ideas.…"
by Lucile Schmid
Green Pathways
"National decisions remain the essential building blocks
of effective ecological internationalism.…"
by David Ritter
Why Not Socialism?
"‘Building the Good Society’ contains no mention of ‘socialism’.…"
by Mike Cole
What now for Social Democracy in Europe?
"The reality is more complex than a simple story of social democracy in inevitable decline.…"
by Keith Grech
There Is No Third Way: Why Social Democrats Must Be Anti-Capitalists
"If social democracy has a future, then it can only lie in fully accepting the lessons of its own past, both distant and recent.…"

by Jeremy Gilbert
A Good Society Not Only For Academic Professionals!
"Social democrats must reaffirm their commitment to people whose security is threatened by modernisation.…"
by Rene Cuperus        

L'Europa e i privilegi neo-clericali

Laicità

Nell’indifferenza pressoché generale, il 1° dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona. Dire che è stata un’operazione di vertice è dire poco . . .  Per Papa Benedetto l’articolo 17 garantisce i “diritti istituzionali” delle chiese. Che cosa ne pensano – se ne pensano – i nostri rappresentanti, che hanno votato a favore del Trattato, non è dato sapere.

di Vera Pegna

Nell’indifferenza pressoché generale, il 1° dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona. Dire che è stata un’operazione di vertice è dire poco. Che la si sia voluta tale, lo ha confermato Giuliano Amato secondo il quale i capi dell’UE avevano “deciso” di rendere il nuovo trattato “illeggibile” per evitare che le riforme chiave fossero riconosciute ad una prima lettura e magari seguite da proposte di referendum nei singoli stati membri.

    C’è chi invece indifferente non è stato ma anzi ha aspettato con una certa trepidazione l’ultima firma necessaria al completamento della ratifica del trattato apposta dal ceco Vaclav Klaus. Senza quella firma, senza l’entrata in vigore del trattato, l’attività tenace svolta dalla Santa Sede per assurgere a un riconoscimento istituzionale da parte dell’UE avrebbe potuto essere annullata da futuri dirigenti dell’UE, meno propensi a cedere alle pressioni vaticane.

    Nel 1996 il Consiglio europeo di Torino aveva respinto la richiesta della COMECE (la Commissione dei vescovi europei) di riconoscere un ruolo pubblico alle chiese con la motivazione che la Santa Sede non era uno stato membro dell’Unione. Né poteva diventarlo dato che – unico stato in Europa – la Santa Sede non è firmataria della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

    Ciò nonostante, negli ultimi otto anni , da quando fu messa mano alla elaborazione del trattato costituzionale europeo, la richiesta delle gerarchie vaticane ha fatto grandi passi in avanti. Insistendo sulla “morale naturale” e sui “valori universali” della dottrina cattolica e, soprattutto, mettendo i suoi servitori più fedeli nei posti chiave all’interno della Commissione, la Chiesa cattolica ha ottenuto ciò che le era stato rifiutato nel 1996, ovvero la menzione delle chiese in un documento legislativo europeo. Nel trattato di Amsterdam, nonostante le insistenze affinché lo status delle chiese fosse accolto nel corpo del testo,  il Vaticano ottenne solamente una   dichiarazione aggiuntiva annessa al trattato. Invece ecco che qualche anno dopo, nella bozza del trattato costituzionale europeo, appare un articolo sullo status delle chiese, questa volta all’interno del trattato stesso, nonostante un folto gruppo di parlamentari, fra cui gli italiani Lamberto Dini e Elena Paciotti, ne avessero chiesto la soppressione per i seguenti motivi:  Non si capisce perché ciò che è stato inserito in una Dichiarazione non vincolante nel Trattato di Amsterdam debba oggi essere innestato nella Costituzione… L'Unione non ha, e la Convenzione non ricerca, una competenza nel settore della teologia o della filosofia… 

    La tattica seguita dalle gerarchie cattoliche per arrivare a tanto è stata duplice: chiedere due cose per ottenerne almeno una e alzare un gran polverone su quella rinunciabile - la menzione delle radici cristiane - in modo da far passare quatton quattoni quella irrinunciabile contenuta nell’articolo 52 (diventato 17 nel nuovo trattato) difficile da far ingoiare ad una popolazione secolarizzata come quella europea.

    L’articolo 17 rassicura il Vaticano circa tre obiettivi prioritari. Primo: il riconoscimento della dimensione istituzionale della libertà religiosa. Secondo il Vaticano, la dimensione religiosa si estende a tutto ciò che riguarda l’essere umano e siccome la chiesa si proclama “esperta in umanità” è giusto che le sia riconosciuto uno status specifico, diverso da quello attribuito alle associazioni della società civile.

    Secondo: la facoltà per le chiese di intervenire su quei progetti di legge europei da esse considerati di loro competenza prima che tali progetti arrivino in aula. Con ciò la chiesa cattolica, ente privato i cui rappresentanti non sono eletti dai propri fedeli, entra a far parte del processo legislativo europeo provocando un duplice danno: la delegittimazione del parlamento poiché i membri eletti non bastano più a rappresentare le istanze degli elettori e l’inquinamento del sistema di democrazia rappresentativa, pilastro dello stato di diritto.

    Terzo: l’esenzione da quelle leggi e normative europee che sono in contrasto con la dottrina morale cattolica. Ciò riguarda in particolare la facoltà per le organizzazioni cattoliche che gestiscono servizi pubblici quali scuole, ospedali, ecc. di discriminare i propri dipendenti in base sia alla loro religione sia alle loro scelte di vita. È ciò che accade già in Italia per gli insegnanti di religione la cui assunzione o permanenza in servizio possono essere bocciate dalla diocesi di appartenenza qualora questa consideri che non si attengono alla morale cattolica.

    Per Papa Benedetto l’articolo 17 garantisce i “diritti istituzionali” delle chiese. Che cosa ne pensano – se ne pensano – i nostri rappresentanti che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona non ci è dato sapere.

       
Lotta alla xenofobia 

SEL (Milano)
su Lega e Minareti

Sinistra Ecologia e Libertà di fronte alle deliranti grida di giubilo di esponenti della Lega sul risultato del referendum tenutosi in Svizzera circa il divieto di erigere minareti nelle città elvetiche ricorda che diritti e libertà (compresa quella religiosa) sanciti dalla Costituzione, sono indisponibili alla volontà di maggioranze e referendum, tanto più locali.

    Castelli ha chiesto di inserire nel tricolore una croce, Borghezio pretende a gran voce che si svolga urgentemente un referendum sui minareti anche in Italia. Ora aspettiamo un commento illuminato anche da parte di Salvini, che a suo tempo propose carrozze speciali sui convogli della metropolitana riservate agli immigrati. 

    Boutade, provocazioni. Sulle dichiarazioni dei leghisti si sorvola sempre. Le compagne e i compagni milanesi di Sinistra Ecologia e Libertà ritengono invece che questo continuo tentativo di erodere i diritti e le libertà fondamentali, sia pure di minoranza, mini il basamento su cui poggia da oltre 60 anni la Repubblica.

    Ricordiamo alla Lega Nord che anche il suo consenso rappresenta nel Paese una minoranza i cui diritti sono garantiti proprio da quei principi di cui si intende fare carta straccia.       

È morto un politico

La Catena di san Libero 
 
di Riccardo Orioles 

Roma. E' morto un politico, di freddo, sul marciapiede. Si chiamava Sher Khan e aveva cominciato la sua carriera politica lottando contro il regime militare del suo Paese, il Pakistan. Esule politico, era fuggito in Italia e qui aveva organizzato le prime le prime associazioni degli immigrati (come l'United Asian Workers Association). Con padre Luigi Di Liegro, il fondatore della Caritas, e Dino Frisullo aveva partecipato all'occupazione della Pantanella, nei primi anni '90. Anche dopo la scomparsa di Frisullo e padre Di LIegro aveva continuato il suo impegno politico a favore degli immigrati, senza maio chiedere nulla per sè, vivendo anzi in estrema miseria.

    Ultimamente viveva in una casa occupata, in via Salaria; "sgomberato" di forza,con tutti gli altri, per ordine del Comune negli ultimi mesi dormiva in mezzo alla strada. Aveva ottenuto lo status di rifugiato politico ma questo, essendo stato abolito l'articolo 10 della Costituzione ("Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà demoratiche, ha diritto d'asilo...), non l'ha salvato da Ponte Galeria nè dal marciapiede. Il freddo delle ultime notti, e il basso livello di civiltà di questo Paese, l'hanno ucciso. Fra le molte cose di cui noi italiani dovremo vergognarci per questi anni, la fine del politico Sher Khan è fra le peggiori.    

lunedì 7 dicembre 2009

Trattato di Lisbona, per un'Europa più efficiente

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
 
Un’Unione europea piu’ efficiente e piu’ partecipata dai cittadini nelle sue decisioni  e piu’ forte sulla scena mondiale: e’ questa la visione della nuova Europa contenuta nel trattato di Lisbona entrto in vigore dal primo dicembre.

di Roberta Angelilli e Gianni Pittella
Vicepresidenti del Parlamento europeo

L’iter lungo e travagliato dell’adesione al trattato, per la comprensibile resistenza di molti Stati a cedere sovranita’ e a rinunciare a diritti di veto a favore delle istituzioni europee, e’ probabilmente la migliore testimonianza a favore della profondita’ dei cambiamenti che il nuovo patto porta con se’. Avvicinare la Ue ai cittadini e i cittadini alla Ue rafforzando, accanto all’intermediazione dei governi nazionali che sono stati finora i veri ‘’signori’’ dell’Unione politica, il ruolo dei parlamenti, e’ il primo obiettivo della riforma istituzionale che sta ridisegnando la governance di Bruxelles.

    L’adozione di tutta la normativa europea, da cui deriva, e’ bene ricordarlo, il 75% del nostro corpus legislativo, sara’ soggetta d’ora in poi a un livello di controllo parlamentare che non ha riscontri in nessun’altra struttura sovranazionale o internazionale. Infatti tutta la legislazione europea richiedera’, con poche eccezioni, la duplice approvazione del Consiglio e del Parlamento europeo. Inoltre scatta un importante coinvolgimento dei parlamentari nazionali nel processo decisionale. Ciascuno di essi infatti ricevera’ infatti tutte le proposte legislative dell’Unione, in tempo utile per discuterle con i suoi ministri prima che il Consiglio europeo adotti una posizione e avra’ anche il diritto di proporre un nuovo esame se ritiene che non sia rispettato il principio di sussidiarieta’, per il quale ogni decisione va presa al livello di governo piu’ vicino possibile al territorio.

    Ma i cittadini stessi conteranno di piu’, perche’ avranno la possibilita’ di presentare direttamente iniziative legislative alle istituzioni europee. Secondo questa nuova disposizione di democrazia partecipativa, un milione di cittadini appartenenti a un numero significativo di Stati membri, puo’ invitare la Commissione a presentare una proposta su questioni per le quali ritiene necessario un atto giuridico ai fini dell’attuazione del trattato di Lisbona.

    Anche la voce dell’Europa sulla scena mondiale potra’ essere piu’ forte se sara’ politicamente colta una delle principali novita’ del trattato. A rappresentare l’unicita’ della politica ‘’estera’’ dell’Ue sara’ una nuova carica istituzionale, nominata per la prima volta nei giorni scorsi dal Consiglio. La carta di Lisbona stabilisce principi e obiettivi comuni per l’azione esterna dell’Unione: democrazia, Stato di diritto, universalita’ ed inscindibilita’ dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, rispetto della dignita’ umana e dei principi di uguaglianza e solidarieta’.

    Un’importante novita’ riguarda anche l’organismo di rappresentanza dei governi: la durata del mandato del presidente del Consiglio e’ stata prolungata, in modo da rafforzarne il suo potere di coordinamento. Inoltre il trattato estende il voto a maggioranza qualificata a nuovi ambiti politici per arrivare a processi decisionali piu’ snelli su questioni cruciali come il clima, la sicurezza energetica, gli aiuti umanitari, ambiti per i quali la carta prevede per la prima volta apposite sezioni. L’unanimita’ e’ stata mantenuta solo per la politica fiscale, estera, la difesa e la sicurezza sociale. Si chiude davvero un’epoca, spetta a tutti noi europei pretendere che se ne apra una nuova, forti del trattato di Lisbona.        
       

BASTA IMMOBILISMO POLITICO, BISOGNA AGIRE

Ipse dixit

Occhi chiusi  - "Vivere senza filosofare è davvero come tenere gli occhi chiusi, senza cercare mai di aprirli." - René Descartes 

       
VISTI DAGLI ALTRI

A cura di Internazionale - Prima Pagina

Il giorno di Spatuzza In questo momento l'agenda politica italiana ruota intorno a Gaspare Spatuzza, il collaboratore di giustizia che oggi dovrà testimoniare di fronte ai giudici della corte d'appello di Palermo, riuniti a Torino per ragioni di sicurezza, nell'ambito del processo d'appello al senatore Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado a nove anni di prigione per concorso esterno in associazione mafiosa. Le parole di Spatuzza potrebbero gettare nuove ombre sul presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Secondo il collaboratore di giustizia, infatti, Berlusconi e Dell'Utri sono stati, fin dagli anni ottanta, interlocutori politici ed economici dei fratelli Graviano, noti boss di Cosa Nostra.
Le Monde, Francia
http://www.lemonde.fr/europe/article/2009/12/03/les-accusations-d-un-mafieux-repenti-fragilisent-silvio-berlusconi_1275526_3214.html#ens_id=1259809


Diecimila donne contro la violenza e il velinismo
Mentre Veronica Lario e Patrizia D'Addario denunciavano il sistema politico-sessuale orchestrato da Silvio Berlusconi, perché le altre donne non protestavano? Questa domanda se la sono fatta in molti, dentro e fuori l'Italia, di fronte al machismo impudente del presidente del consiglio del "paese di Casanova". Le prime reazioni sono arrivate a ottobre, quando Berlusconi ha insultato Rosy Bindi. Il 28 novembre migliaia di donne - diecimila secondo gli organizzatori - hanno finalmente manifestato a Roma contro la violenza machista e lo sfruttamento del corpo delle donne a fini politici ed economici.

El País, Spagna
http://www.elpais.com/articulo/internacional/10000/mujeres/dicen/basta/Roma/violencia/velinismo/elpepuint/20091128elpepuint_11/Tes.    


Riceviamo e volentieri pubblichiamo

ATTENTATO IN SOMALIA, IL COSV ESPRIME RABBIA E CORDOGLIO

Una reazione di dolore e cordoglio ma anche una protesta contro l’immobilismo della politica. Sono le ong italiane presenti in Somalia che esprimono rabbia e sgomento dopo l’attentato suicida di oggi a Mogadiscio all’Hotel Shamo dove hanno perso la vita 4 ministri del Governo transitorio somalo, due giornalisti e oltre 15 studenti dell’università laica del Benadir.
“Un attacco senza precedenti” commenta da Nairobi Novella Maifredi, responsabile dei progetti in Somalia del COSV “dopo anni di crisi politica e umanitaria oggi ci troviamo di fronte a un punto di non ritorno, mai avevamo visto la Somalia in queste condizioni. Questa e la dimostrazione della forza e del potere sul territorio di Al Shabab, la componente fondamentalista che ha in mano gran parte del paese”. Attentato oggi grave in quanto colpisce direttamente continua Maifredi “le forze vive di un paese e di una citta come Mogadiscio ormai alla deriva, dove noi cooperanti da almeno due anni non possiamo entrare perche bersagli di attacchi e dove anche la popolazione e ostaggio della violenza e della poverta”. Cosa fare allora? “Non si può restare immobili, siamo stanchi di registrare solo parole di indignazione e nessun atto concreto da parte della politica, italiana e internazionale, e il momento di dire apertamente che cosa si vuole fare per non far implodere la Somalia” sottolinea la cooperante COSV.
Un appello alla politica dunque, all'Italia, all'Europa, perchè non si continui a dare per scontato che la Somalia è persa, abbandonata a un destino ineluttabile.
Per informazioni:  cosvngo@tin.it 

       

domenica 6 dicembre 2009

IL DIBATTITO POLITICO NEL PARTITO DEL SOCIALISMO EUROPEO

 
 
 
Andrea Nahles
segretaria centrale della SPD
interviene sul tema
La buona società

 
Intervento video in lingua inglese

venerdì 27 novembre 2009

NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA

       
Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Per il Congresso della Cgil
 
Parte terza

Per una coesione sociale e repubblicana, per la democrazia sindacale
 
A fronte di quanto detto necessita, non solo una mobilitazione sindacale, ma pure un impegno della Cgil e del movimento sindacale per la coesione sociale .

    Per ricomporre il lavoro, oggi, è obbligatorio affrontare l’argomento che riguarda sia una nuova confederalità sia la democrazia sindacale, da perseguire, questa, anche attraverso una campagna per una legge sulla rappresentanza democratica sindacale.

    Se un sindacato vero si qualifica per la sua autonomia e la sua capacità ed autorità salariale e contrattuale, si deve capire fino in fondo che questa autorevolezza sindacale non può prescindere da un mandato e da una verifica dei lavoratori. La ricomposizione del lavoro abbisogna di questa nuova rappresentanza democratica per non andare, come vorrebbero in molti, verso una pratica ossificata di sindacato neocorporativo, gestore delle ricadute sociali delle scelte delle imprese e dei governi. Ed al contempo, non si può evitare una autoriforma, su tali basi democratiche, della pratica confederale.

    Pensiamo, infatti, che sia giusto accorpare contratti nazionali e categorie, ma riteniamo pure che in tale processo di accorpamento non possa e non debba venire meno la prassi ed il ruolo della confederalità. Anzi, la necessità di dare un quadro unitario e generale all’azione sindacale, così ricomposta nelle categorie, corrisponde, secondo noi, anche ad un complementare ruolo di orientamento, mobilitazione ed unificazione, a livello nazionale e locale, della Confederazione.

    Una Confederazione, tra l’altro, che rafforzi il rinnovamento ed il pluralismo dei propri gruppi dirigenti, delle proprie strutture e delle forme di azione ed intervento sindacale. Dando così rilievo ad un lavoro sindacale collettivo autonomo da padroni, governo e partiti, e arricchito dal libero e proficuo confronto interno delle idee.

    E’ proprio con questa libera impronta confederale che intendiamo contribuire all’obiettivo di una società democratica che comprenda il lavoro, dandogli cittadinanza e dignità. Ma per dare dignità e cittadinanza occorre anche che i lavoratori possano eleggere democraticamente i loro rappresentanti nelle Rappresentanze Sindacali Unitarie e svolgere referendum vincolanti di mandato e di verifica degli accordi.

    Se la democrazia oltrepassa realmente i cancelli dei luoghi di lavoro, allora, si può e si potrà affrontare anche quei nodi da tempo irrisolti che si riferiscono alla partecipazione dei lavoratori alle scelte di sviluppo aziendali, dando così finalmente attuazione all’art. 46 della costituzione.

    Ma partecipazione alle scelte, significa innanzitutto, rafforzare la contrattazione e la democrazia sindacale, a partire dalle piccole imprese, iniziando ad agire per una griglia di diritti universali, che stimolino gli stessi piccoli imprenditori contoterzisti a innovare l’ organizzazione del loro lavoro.

    Per questo occorre una estensione pure graduale dei diritti, a partire dal reintegro, nel caso di licenziamento senza giusta causa, anche nelle aziende sotto i 15 dipendenti, tanto per citare un esempio, prevedendo se necessario anche delle agevolazioni. Ed occorre una estensione della democrazia, creando anche nelle piccole imprese una nuova ed estesa filiera di rappresentanza democratica sindacale. Una estensione che può contribuire, tra l’altro, ad un rapporto fecondo con quella parte del lavoro che non rappresentiamo e che è comunque fondamentale, pensiamo alle varie figure dei collaboratori ed a tanti altri.

La Confederazione Generale Italiana del Lavoro
 
E’ evidente che per tutte queste ragioni cercare di trovare una piena sintonia con i soggetti presenti oggi nel mondo del lavoro significa per la Cgil connettersi realmente con le loro nuove esigenze e domande, pensiamo ai giovani lavoratori, precari e non, del Nord e del Sud, alle donne, agli immigrati.

    Vogliamo, anzitutto, soffermarci sul fenomeno dell’immigrazione, per dire di come siano molte le variabili che minano l’efficacia delle politiche pubbliche in materia.

    Quel che è certo, è che un fenomeno di queste dimensioni non si affronta, come oggi in Italia, concentrandosi solo sugli effetti, anziché sulle cause e sulle necessità del paese investito dai flussi migratori.  Infatti, dal reato di immigrazione clandestina, alla denuncia in ospedale degli irregolari; dalla immersione delle rimesse a nuove tasse sui rinnovi: il rischio è quello di una frattura insanabile nella società.

    Non ce ne stiamo, forse, accorgendo, ma il pacchetto di misure proposto e approvato dal Governo ha cambiato lo status dei 4 milioni di immigrati regolari che lavorano e vivono nel nostro Paese, senza contare la situazione degli irregolari. Non più cittadini con diritti formalmente alla pari degli italiani, ma una società di serie B con norme e regolamenti a parte.

    La sanatoria effettuata a settembre non ha risolto tutti i problemi, essendo stata selettiva e parziale: una sorta di regolarizzazione, cioè, che non ha saputo - o meglio non ha voluto - comprendere tutti i lavoratori che avrebbero potuto accedervi.
             Oggi questi quattro milioni di cittadini immigrati, cittadini stranieri che risiedono in Italia, chiedono di essere integrati nelle nostre comunità provinciali, di avere pari opportunità di accesso ai servizi sociali, reali diritti di cittadinanza, sociale e sindacale. Dalle/gli immigrati/e proviene una domanda di tutela individuale e collettiva, e di una rappresentanza sempre più complessa e articolata.

    E’ un fatto incontrovertibile che il lavoro svolto dai cittadini migranti soddisfi i forti bisogni di manodopera del nostro paese, nondimeno le condizioni di quei lavoratori sono spesso precarie, caratterizzate da consuete situazioni di sfruttamento e da un’alta incidenza di infortuni gravi o mortali. Per tali ragioni, in Italia la situazione è grave: questo governo di chiara impronta di destra sta imponendo politiche sociali segnate dall’intolleranza e dal sospetto per ogni diversità, con l’intento di orientare il senso comune verso posizioni di vero e proprio razzismo.

    Perciò la CGIL deve continuare, semmai con più forza, a svolgere quel ruolo di rappresentanza effettiva per dare uno sbocco di impegno e mobilitazione democratica e civile adeguata alle domande dei lavoratori immigrati ed alle loro rivendicazioni, per far sì che ci sia una inversione di tendenza, per non cadere in un oblio e in un rifiuto culturale che impediscano processi di inclusione. E contrastare ogni azione di esclusione, convinti come siamo che questo possa essere l’antidoto migliore contro un futuro di frammentazione sociale e di conflitti.

    La CGIL, insomma, crediamo debba e possa essere ancor più veicolo di dialogo ed integrazione tra tutti i lavoratori e i cittadini. Un veicolo che assuma con coerenza l’obiettivo di un nuovo senso comune, di un nuovo spirito del tempo, in cui l’insicurezza si sconfigga con il rafforzamento dello stato sociale, con il superamento della precarietà del lavoro, con la negazione delle forme di competitività che esasperano l’individualismo, con città e paesi che favoriscano la possibilità di relazioni sociali fra persone e tra realtà diverse.

    E’ infatti proprio in situazioni di incontro, di conoscenza e di convivenza che tutti possiamo sentirci più sicuri.
    Pensiamo, perciò, ai tanti che ancora non rappresentiamo o con cui abbiamo difficoltà ad avere rapporti, che non conoscono diritti e contrattazione, buste paga regolari ed orari contrattuali. Sono molti. E’ quel mondo del lavoro frammentato, disseminato, senza referenti sindacali ed esposto ad abusi, arbitrii e ricatti che non conosce la prassi del soccorso, della solidarietà e della esigibilità dei diritti.

    Questa azione sindacale, oggi, può e deve avere caratteristiche adeguate e dunque non solo di autorità vertenziale ma pure, come agli albori del movimento operaio, di mutua assistenza e solidarietà.  

    Stiamo, infatti, assistendo al florilegio di contenziosi nelle aziende, che spesso rifiutano di applicare le stesse norme contrattuali; contenziosi su lavoro,  diritti, scuola, casa, servizi.

    Non a caso, allora, affiora nella quotidianità un bisogno di assistenza legale e di consulenza giuridica sui vari aspetti della vita dei lavoratori. Una necessità che si può riassumere in una prassi solidale di “avvocatura sociale”, cui la nostra Organizzazione deve e può dare ricerca e vigore, rimodulando e rafforzando confederalmente strutture già presenti e collegate alla Cgil.

    Dentro questo percorso generale che abbiamo cercato di illustrare, davvero complesso ed articolato, deve trovare anche spazio una nuova idea di pluralismo politico dell’organizzazione. Un pluralismo che muova dal riconoscimento della diversità di idee e di punti di vista capaci di relazionarsi e ascoltarsi realmente ed unitariamente, di costruire mediazione rompendo ogni ipotesi di steccati precostituiti, figli di una idea di testimonianza che questa CGIL, di fronte alle sfide che ha davanti, non può più permettersi.

    Ci pare, dunque, ormai chiaro che per riaprire una strada di rinnovato impegno sindacale occorre superare una idea di pura testimonianza e costruire una salto di qualità anche per la Cgil.

    Queste sono le ragioni fondamentali che spingono a chiedere che si creino le condizioni per un congresso unitario, senza mozioni contrapposte, e che si verifichino le possibilità di trovare più i punti in comune che le divergenze, spesso dovute a logiche organizzative.

    La drammaticità della crisi, il degrado della politica, anche a sinistra, i tentativi di isolamento della nostra Confederazione sono tali che esigono sia un reale dibattito sia una unità consistente sia una assunzione di responsabilità dei militanti e dei gruppi dirigenti.

    Non vogliamo essere né ipocriti né ingenui. Non abbiamo velleità “terziste” e sappiamo che gli appelli unitari spesso cadono nel vuoto. Ciononostante pensiamo che i nostri iscritti, i nostri militanti, coloro che guardano alla Cgil come ad un punto di riferimento costante abbiano la urgente necessità di avere una organizzazione non dilaniata da scontri la cui essenza si riduce agli organigrammi ed alla politica organizzativa.

    A questo, infatti, nonostante le enunciazioni, rischia di arrivare il nostro Congresso. Proprio nel momento in cui percepiamo che niente sarà più come prima.

    Dalla crisi, infatti, nessuno uscirà come prima.
    Ciò vale anche per noi. Non è e non sarà possibile riproporre la logica concertativa del 1993, poiché ciò vorrebbe significare comprimere ancor più i salari, gli stipendi e le pensioni. Di altro segno dovrà invece essere la nostra strategia. Una strategia che rimetta al centro la redistribuzione sociale, la democrazia sindacale, nuove norme e nuovi diritti universali, quali ad esempio il salario sociale.

    L’obiettivo di una avanzata griglia di diritti non può, infine, prescindere dalla ricerca di elementi di un nuovo modello sociale ed economico compatibile con l’ambiente. Questa ricerca non può che essere complementare ad un’idea ed un obiettivo di un nuovo mondo multipolare che condanni l’uso della guerra come strumento di offesa.

    Per tali ragioni, pensiamo utile, in un tempo ancor presente di guerre e distruzioni,  porre al centro del nostro dibattito una proposta di strategia di uscita  delle truppe italiane dalla guerra in Afghanistan. E di trasformare la presenza italiana in una presenza di pace e di assistenza, seguendo le orme di grandi costruttori di pace quali Tom Benettollo, Teresa Sarti Strada, lo stesso Gino Strada.

    Sono temi, questi, propri del movimento operaio e sindacale sin dalle origini, appunto. Sono i temi della emancipazione e liberazione del lavoro, della libertà e della pace, ch’è sempre foriera di pane, lavoro e benessere per tutti.

Alessio Ammannati, Presidenza Direttivo CdLM CGIL Firenze
Bruno Carrà, Resp. Centro Lavoratori Stranieri Direttivo CdL CGIL Piacenza
Gianni Leoni, Direttivo Regionale Filt CGIL Toscana
Paolo Niccoli, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Rossana Sebastiani, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Walter Tacchinardi, Direttivo CdL CGIL Piacenza

3/3 - Fine - Le prime due parti del documento sono apparse sull'ADL del 4.11.09 e del 18.11.09.        

La svolta deve arrivare velocemente 

Ipse dixit

La svolta deve arrivare velocemente  - "Qualora il surriscaldamento globale vada contenuto entro un limite massimo di +2°C rispetto ai valori pre-industriali, sarebbe necessario che le emissioni globali raggiungano l'apice tra il 2015 e il 2020 per poi ridiscendere con rapidità. Per stabilizzare il clima occorre comunque, e già in questo secolo, l'affermarsi di una società decarbonizzata, cioè a emissioni di biossido di carbonio tendenti a zero. Più precisamente, sarebbe necessario che l'emissione media annua pro capite di CO2 si attesti entro il 2050 nettamente al di sotto di una tonnellata metrica; questo significa l'80-95% in meno rispetto all'emissione pro capite del 2000 nei paesi avanzati." - The Copenhagen Diagnosis


D'Alema non aveva chances  - "Nell’ambito delle indicazioni delle due famiglie politiche, era abbastanza evidente da diversi giorni che molti capi di governo - innanzitutto il Cancelliere Merkel - volevano una soluzione consensuale, evitare una contrapposizione fra nominativi che sarebbe stata drammatica per l’Europa, premunirsi contro le novità negative di una vittoria del partito conservatore di David Cameron sull’impegno britannico in Europa. Se questo era lo scenario di partenza, la candidatura D’Alema non aveva possibilità sin dall’inizio." - Antonio Puri Purini

       
VISTI DAGLI ALTRI
A cura di Internazionale - Prima Pagina

Fini prepara il dopo Berlusconi
Sarebbe in atto un complotto di palazzo in seno alla destra italiana? Da qualche settimana si moltiplicano gli attacchi del presidente della camera Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi. Fini, 57 anni, ha capito che, con il tramonto del berlusconismo, potrebbe presto arrivare la sua ora. Ma prima di realizzare le sue ambizioni Fini dovrà superare alcuni ostacoli, tra cui quelli interni al suo partito.

Le Temps, Svizzera
http://www.letemps.ch/Page/Uuid/e66106be-d7ae-11de-a5a2-539eee1162dc/Gianfranco_Fini_pr%C3%A9pare_lapr%C3%A8s-Berlusconi

Il vero volto del Duce
"Questi schifosi ebrei, bisogna che li distrugga tutti". Un frase di Adolf Hitler? No, è uno dei tanti deliri antisemiti attribuiti a Benito Mussolini dalla sua amante Claretta Petacci. I diari di Claretta, pubblicati il 18 novembre dopo essere rimasti per cinquant'anni negli archivi di stato, mostrano un Mussolini diverso dall'immagine che ne hanno molti italiani, cioè di un leader che si è fatto
portare sulla cattiva strada da Hitler. La figura dal Duce è ancora molto importante nell'Italia di oggi, dove il governo è composto anche da eredi del postfascismo.

The Economist, Gran Bretagna
http://www.economist.com/world/europe/displaystory.cfm?story_id=14921375       

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

LUMIA (PD), CASO ORLANDI: PARTIRE DA DE PEDIS

"Sul caso Orlandi bisogna far luce, a partire dalla figura di De Pedis e sciogliendo i tanti nodi sugli  intrecci tra malavita organizzata, settori della finanza, personaggi del Vaticano, apparati deviati dello Stato, colletti bianchi, ed esponenti della politica". Lo dichiara il senatore del PD Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia. "Inquietante  soprattutto - aggiunge Lumia - resta la tumulazione della salma di un criminale del calibro di De Pedis in una sfarzosa cripta della basilica vaticana di Sant'Apollinare, a Roma, per la qual cosa nel 2008 presentai un'interrogazione parlamentare, chiedendo spiegazioni al governo. Torno a chiedere, a chi ne ha il dovere, di fare chiarezza e andare fino in fondo. Solo così si potrà dare un contributo alle indagini per giungere alla verità, senza ambiguità e silenzi compiacenti, sulla sorte di Emanuela Orlandi". 

venerdì 20 novembre 2009

SANTA MAFIA

IL LIBRO DI PETRA RESKI SU "SANGUE, AFFARI, POLITICA E DEVOZIONE  DA PALERMO A DUISBURG"

La mafia non è un problema esclusivamente italiano né un affare di coppole e di realtà meridionali arretrate, ma un problema europeo, con molteplici addentellati e risvolti.

"Se andiamo avanti così in pochi anni la 'ndrangheta si mangia la Germania". Petra Reski ha i titoli per dirlo- La giornalista e scritrice tedesca scrive da vent'anni sulle cosche. Ora però il suo ultimo libro è diventato un caso. Scomodo anche per lei.
    Petra descrive gli affari dei mammasantissima della 'ndrangheta, in Italia e in Europa: alberghi, pizzerie, strutture di lusso ma anche finanziarie, conti correnti e investimenti. Fa nomi e cognomi dei boss e dei loro referenti e protettori politici, descrive i raffinati meccanismi del riciclaggio raccogliendo inchieste fatte in Italia e il parere di magistrati che da anni sono impegnati sul difficile fronte della lotta alla mafia finanziaria.
    Duisburg, agosto 2007. Davanti al ristorante "Da Bruno" vengono ritrovati i cadaveri di sei uomini, tutti calabresi, crivellati da 70 proiettili. Sarà chiamata la Strage di Ferragosto: il primo segno evidente della penetrazione delle mafie italiane nel mondo, della lenta ma inarrestabile colonizzazione portata avanti dai "cafoni" in Francia, Spagna e Germania. Ed è proprio qui, nel cuore produttivo d'Europa, che la mafia ha da tempo indirizzato i propri traffici, non solo per farli fruttare ma soprattutto per "ripulirli": alberghi, pizzerie, ristoranti di lusso ma anche conti correnti e finanziarie.
    Il libro di Petra Reski, da vent'anni corrispondente in Italia per la stampa tedesca, è un lungo viaggio di ritorno da Palermo a Duisburg. La ricostruzione di un mosaico di luoghi, persone e vicende che parte dalla Sicilia e sale seguendo le rotte della criminalità: Calabria, Campania, su fino al ricco nord-est. E poi ancora oltralpe, nella sua Germania, terra di elezione della mafia, dove non esiste il reato di associazione mafiosa e non sono ammessi l'uso intensivo delle intercettazioni e la confisca dei beni.
    Nell'edizione originale il libro è uscito censurato per volontà dell'autorità giudiziaria tedesca, intervenuta su richiesta di alcuni personaggi i cui nomi sono ben noti perché figurano nelle informative di polizia (sia italiane che tedesche), nei documenti giudiziari, in numerosi resoconti giornalistici. Tuttavia, di loro non si può parlare in un libro; la gente deve continuare a ignorare il problema. L'edizione italiana poteva scegliere di eliminare semplicemente queste parti del testo; invece ha deciso di riportare le medesime righe nere sulle parole che sono costate a Petra Reski intimidazioni e minacce. Perché il lettore abbia una chiara immagine del bavaglio con cui il potere cerca costantemente di ridurre al silenzio il giornalismo più coraggioso.
    Petra Reski è nata in Germania, nella regione della Ruhr, ha studiato a Treviri, Münster e Parigi. Si è laureata in letteratura francese, scienze politiche e sociologia. Ha vinto il concorso della scuola di giornalismo di Amburgo, la prestigiosa Henri-Nannen-Schule, e ha iniziato la sua carriera come reporter per il settimanale Stern. Attualmente è corrispondente culturale per Die Zeit e altre testate tedesche, mensili e settimanali, tra cui Geo, Focus, Merian, e ha pubblicato svariati libri. Arrivata in Italia nel 1989 per scrivere un reportage sulla primavera a Palermo, decide di rimanervi "per comprendere quelle che sono le contraddizioni di questa terra anche attraverso la mafia". Da allora non ha mai più smesso di occuparsene.
    In Germania è stata eletta "Miglior Giornalista del 2008" nella categoria "reporter" proprio a seguito della pubblicazione di "Santa Mafia".
    In Italia, per il suo impegno "al servizio dei grandi valori del giornalismo", ha ricevuto a il Premio Civitas 2009 con cui l'associazione ANDE insignisce donne particolarmente distintesi per il loro impegno nella lotta alla criminalità organizzata. Petra nReski ha anche vinto il premio internazionale di giornalismo Amalfi Coast Media Award.

Vai al sito www.petrareski.com
 
 
 
 
 
 

Per il Congresso della Cgil


Ipse dixit

Vademecum per un apprendista torero
"Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena."

- Robert M. Pirsig

       
La causa che divide gli Agnelli.

A quasi sette anni dalla morte di Gianni Agnelli, una disputa sull'eredità dell'ex patron della Fiat continua a provocare tensioni e a dividere un paese che un tempo lo considerava il suo re non ufficiale. La settimana scorsa si è tenuta una nuova udienza del processo civile che vede la figlia di Agnelli, Margherita Agnelli de Pahlen, contro tre dei più stretti collaboratori del padre. Il processo, in corso dall'inizio del 2008, si è svolto a porte chiuse. Ma la causa ha esposto la famiglia a una pubblicità che fino a poco tempo fa sarebbe stata impensabile.

The Wall Street Journal, Stati Uniti
http://online.wsj.com/article/SB10001424052748703811604574533721016931970.html 



Per il Congresso della Cgil

NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA

Parte seconda

Questione salariale, difesa del CCNL, piena e buona
occupazione, nuova struttura del salario
 
Vanno precisate ancor più oggi, nel tempo dell’accordo confederale separato sul modello contrattuale e nel settore metalmeccanico, alcune idee da focalizzare per superare questo duro impasse, anzitutto voluto da Confindustria e Governo Berlusconi, a partire dal fatto che nel paese esiste da almeno quindici anni una questione salariale pesante, attribuibile, sostanzialmente, a fenomeni, tra loro correlati: deregolazione del mercato del lavoro, da noi particolarmente decisa; eccessiva moderazione salariale, praticata con l’accordo del 23 luglio del 1993; la scomparsa di meccanismi anche minimi di indicizzazione automatica degli stipendi e dei salari; una bassissima produttività per ora lavorata, ormai strutturale al sistema paese.

    Tra le cause di tali condizioni si possono annoverare la prevalenza di settori a basso contenuto tecnologico, la scarsa innovazione inserita nel ciclo lavorativo nel suo complesso, la particolare arretratezza del nostro sistema formativo ed anche lo sbriciolamento delle unità produttive nel paese. La nostra recessione, quindi, ha motivi lontani, che risalgono al ventennio precedente, nel trend negativo dell’andamento della produttività del lavoro. Ed infatti dal 2000 in poi il Pil è aumentato grazie all’aumento delle ore lavorate, ed all’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro. Insomma, all’incremento della precarietà e non certo grazie alle innovazioni di prodotto e del ciclo produttivo.

    A fronte di questo, come ormai tutti denunciano, vi è stato un aumento dei profitti e delle rendite, ed anche un aumento esponenziale dei redditi dei manager aziendali. Allora, basterebbe citare l’articolo 23 della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 (ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente; ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto a eguale retribuzione per eguale lavoro) per riferirsi ad un obiettivo che può stare realmente in questa fase sociale e politica. Anche per queste ragioni, siamo sempre più convinti del bisogno di una forma di statuto mondiale del lavoro e di un salario europeo, su cui muovere l’azione unitaria dei sindacati europei e della CES rimettendo anche in moto una azione generale  per la riduzione dell’orario settimanale.

    Su queste ragioni si può ritrovare un proficuo intreccio tra azione sindacale e politica, perché pensiamo che solo così si possa affrontare una modifica dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

    Il mercato del lavoro italiano  vede gli operai dell’industria  mantenersi ancora su livelli quantitativi elevati, se poi si aggiungono quindici milioni di lavoratori dei servizi ed un milione di lavoratori agricoli, la massa dei lavoratori dipendenti rimane, anche nella crisi, notevolmente consistente.

    Lavoro e salario appaiono così in tutta la loro forma moderna e per questo si rende ancora utile un sistema universale di contrattazione collettiva nazionale, poiché simboleggia uno degli essenziali strumenti di difesa e sviluppo, generale e solidale, delle condizioni dei lavoratori. E perciò, valutiamo importante sottolineare un insieme di proposte a difesa del contratto nazionale e di estensione di una effettiva contrattazione sindacale di secondo livello.

    Va detto anzitutto che ricomporre l’unità del lavoro subalterno e frammentato e rispondere ad una domanda di giustizia salariale, sono capitoli fondamentali e per molte ragioni, quindi, si pone la necessità, alla luce dei processi economici in corso, di ricomporre la filiera produttiva, riunificare il lavoro e i CCNL.

    Il ricondurre ad unità i lavoratori di una filiera produttiva, non solo si delinea come il fondamento necessario di ogni politica di stabilizzazione del lavoro, ma è pure in simmetria con l’esigenza della fine dei doppi regimi salariali e normativi.

    Riunificare il lavoro, perciò, significa anche dotarsi di CCNL che sviluppino una stabilizzazione del lavoro, che accorpino le attuali filiere del sistema produttivo, oggi frantumate usando  il dumping contrattuale.

    Appare, insomma, sempre più evidente il diritto-dovere di aggregare i lavoratori, allo scopo di evitare il dumping sociale, con una politica salariale e normativa unitaria delle moderne filiere produttive, riducendo così le quantità dei CCNL.

    Ebbene, la difesa dei due livelli di contrattazione può avere efficacia, secondo noi, se la CGIL ed il movimento sindacale rilanciano un nuovo contrattualismo e una proposta per una nuova struttura del salario. Perciò proponiamo un obiettivo che si fondi su criteri di eguaglianza, capacità e professionalità e cioè una struttura del salario costruita su tre voci tra loro vincolanti e connesse: un salario di base (salario minimo nazionale intercategoriale o RSU, Reddito Sociale Unitario) contrattato a livello confederale, riferito alla soddisfazione dei cosiddetti bisogni primari e con annuali adeguamenti  al reale aumento della vita; un salario contrattuale-nazionale e un salario di produttività, legato alla efficacia ed alla innovazione produttiva delle imprese ed agli andamenti positivi dei bilanci aziendali, contrattati a livello categoriale.

      A tale scopo diventa altresì dirimente la rivendicazione del sindacato sul controllo democratico delle politiche di gestione produttive dell’azienda, in capo alle RSU e/o ai sindacati territoriali come previsto dall’at. 46 della Costituzione. Il quale più che alla distribuzione dei dividendi, come sembra prevalere nel dibattito odierno, fa riferimento al controllo dei lavoratori sulle  politiche dell’azienda.

    Tale struttura del salario dovrebbe avere carattere vincolante. Queste tre voci, cioè, dovrebbero comporre la struttura organica del salario per un nuovo schema di contrattazione.

    Con un salario minimo intercategoriale ed una tale struttura del salario crediamo che possa così essere pure più fattibile, per il sindacato, contrattare l’organizzazione del lavoro, da tempo immemore abbandonata, che come il salario attiene alla qualità della vita e del lavoro delle persone. Oggi tutto è misurato in termini numerici, econometrici. Anche il sindacato ha risentito di queste influenze e tornare dunque alla contrattazione dell’organizzazione del lavoro sarebbe già di per sé un bell’augurio per una moderna fisionomia sindacale.

    Una simile struttura del salario, infine, potrebbe permettere la tangibilità di reali aumenti salariali. E’ indubbio, infatti, che stiamo oggi subendo un attacco, anche negli attuali rinnovi contrattuali che faticosamente si concludono senza applicare l’accordo separato confederale. Ed è chiaro che, a fronte di tale attacco di Cisl, Uil, associazioni datoriali e governo, vi è il bisogno di una nostra proposta concreta di un modello contrattuale e di una struttura del salario di carattere redistributivo, che permettano di raggiungere consistenti aumenti salariali.

La crisi, le CIGO, un piano del lavoro
 
Un'altra questione riguarda un aspetto drammatico di questi mesi: le richieste di cassa integrazione guadagni. Molte aziende ricorrono a questa forma di sospensione dal lavoro, come molte altre chiudono i battenti, ricorrono alla mobilità o direttamente ai licenziamenti tout court.

    Certo, stiamo parlando di vertenze che sovente hanno le dimensioni della grande e media impresa e rischiamo di tralasciare quelle piccole imprese, dove si ricorre reiteratamente alla Cig e dove il potere contrattuale dei lavoratori è quasi nullo. Oppure rischiamo di tralasciare quelle situazioni di piccole imprese, dove le ditte chiudono e basta.

    Però, anche in questi casi è giusto pensare a nuove modalità di mobilitazione e di confronto tra le parti, che coinvolgano una dimensione di sito produttivo o territoriale, affinché le parti sociali possano discutere circa il rilancio ed un piano industriale territoriale o di distretto, anche assieme alle istituzioni locali.

    Insomma, occorre, a nostro avviso, che si rimettano al centro del confronto tra le parti sociali alcune idee fondamentali di rilancio dei piani industriali. Ma sempre nell’ambito di una prospettiva di rilancio delle aziende e di stabilità del lavoro. Al riguardo, ci pare molto attuale riprendere in mano alcuni strumenti dell’agire sindacale, quali, ad esempio, il piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio.

    Comincia, inoltre, ad emergere tra gli studiosi della materia la consapevolezza che la crisi non possa essere affrontata con gli ammortizzatori sociali tradizionali, sia pur riformati, e che questi non siano la risposta adeguata  alla durezza della crisi.

    La CGIL non può lasciare ad altri il confronto di merito, ha l’obbligo di aprirsi ad una riflessione seria ed a una elaborazione vera su questi temi e oggi la risposta non può che muoversi su due assi essenziali, individuando strumenti efficaci per il loro raggiungimento: occupazione e difesa del reddito.

    Per ricomporre il lavoro, insomma, occorre agire attraverso gli strumenti del sindacato ed anche con quelli delle scelte politiche per una nuova ed avanzata legislazione del lavoro, che abbia quale asse centrale l’obiettivo di un lavoro a tempo indeterminato per tutti e il sostegno al lavoro previa una determinazione ed un confronto sui piani aziendali di sviluppo, sostenuti da precise scelte della stessa sfera politica ed istituzionale nazionale e locale.

    Divengono, dunque, per noi significativi gli obiettivi di un nuovo piano per il lavoro, anche nei settori della tutela dell’ambiente e dei servizi essenziali, e un salario sociale costruito sulla base del salario minimo contrattato, più un pacchetto di servizi e relativa copertura contributiva dei periodi di inattività. Questi due obiettivi strategici sono per noi una reale risposta alla difesa del reddito delle classi più deboli del Paese, sulla scia delle leggi recentemente approvate da alcune regioni (Piemonte, Lazio, Puglia etc).

    La CGIL, a fronte delle spinte disgregative della stessa unità politica repubblicana che riportano alla ribalta vecchi e sconfitti strumenti come le gabbie salariali,  non può che lanciare una campagna  nazionale che unifichi la condizione dei lavoratori e lavoratrici, pensionati e giovani in cerca di lavoro e questo significa  anche riflettere  sui temi da mettere al centro della contrattazione regionale, che senza indirizzi chiari sui principi indisponibili, rischia, di per sé, di creare disuguaglianze e frammentazione del mondo del lavoro.

Alessio Ammannati, Presidenza Direttivo CdLM CGIL Firenze
Bruno Carrà, Resp. Centro Lavoratori Stranieri Direttivo CdL CGIL Piacenza
Gianni Leoni, Direttivo Regionale Filt CGIL Toscana
Paolo Niccoli, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Rossana Sebastiani, Direttivo CdLM CGIL Firenze
Walter Tacchinardi, Direttivo CdL CGIL Piacenza

2/3 - La prima parte del documento è apparsa sull'ADL del 4.11.09      

giovedì 12 novembre 2009

Social democrats need to work more closely together in Europe

       
From London 

Down, but (definitely) not out

Social democrats need to work more closely together in Europe to reassert a policy agenda reflective of their values.

Social-democratic parties are not dominating decision-making in Europe. The recent gain in Greece was matched with losses in Germany and Bulgaria, and in Portugal we retained control but lost absolute majority. This decline was reflected in June’s European elections, when the Socialists and Democrats Group in the European Parliament dropped from 200 to 184 seats. There are challenges to face, and we need to set aside time to properly reflect upon these losses – but we should not dwell upon them. More importantly, we, as social democrats, need to reassert ourselves with a policy agenda that reflects our values, reminds people what we stand for and reignites their trust in us.

    At European level, social democrats need to organise themselves as a party of opposition. This will require greater co-ordination of social-democratic politicians throughout the three main institutions: the Council, Commission and Parliament. Structural changes to the workings of the PES (Party of European Socialists) to foster networks between the three will be necessary to encourage a united effort to deliver on policies that will improve people’s lives.

    The policies we prioritise need to reflect our core values. We are the underdog and will face battles at every stage of the legislative procedure, from European Parliament committees to final drafts from the European Commission. But being the underdog does not mean that we need to roll over: it means we need to show some teeth. We must continue to use our networks of trade unions and NGOs, and remind activists within them why social-democratic ideals are the principles we want to resonate throughout Europe. It will be a struggle, but if the fight is for a just cause this will help to reawaken the passion for our beliefs, and trust that we are working towards them.

    Reform of the financial markets is a fight worth having, and one that we should be dominating. Our values are rooted in solidarity, equality and democracy, and these transfer directly to the reforms that social democrats are calling for on this issue. Our priorities should be reform of the market so that it serves the real economy; the enhancement of accountability and transparency throughout the system; the shutting down of tax havens and introduction of a financial transaction tax; and an end to a bonus culture that encourages recklessness and imprudence.

    The political message is simple and effective: we are on the side of the people. We are making sure that the current economic crisis cannot happen again and we are united in achieving these aims.

    But there is a problem: our message is unclear. The necessary co-ordination between the national parties, European institutions and European party is yet to be demonstrated.

    Not only are we struggling to get to grips with the issue, but those on the right are impinging upon our ideals and claiming them as their own. That is a victory for our ideology – but it won’t help us at election time, or with the range of other policy priorities. Sarkozy and Merkel have both been seen as more progressive and willing to allow a supervisory body to regulate the financial sector than some social-democrat parties. They have come across as being on the side of the people, and hijacked our traditional territory.

    Financial reform is key for people living in the European Union and in the rest of the world. But there are more policy areas that we need to consider, including Social Europe and delivering on the Climate Change Package promised during the last parliamentary mandate. We need to re-engage with our networks, co-ordinate a bold message and reflect our values in our political priorities. By doing this we will rebuild trust and the belief that we are on the side of the people.

Katy Dillon, Social Europe Journal     

Dieci domande a Di Pietro e ai parlamentari dell'IdV

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Cari amici,  MicroMega ha chiesto a due suoi collaboratori, Salvatore Borsellino e Andrea Scanzi, tra loro diversissimi per storie politiche ma che hanno manifestato entrambi grande interesse e speranza per il contributo che l’Italia dei valori può  dare a un radicale rinnovamento dell’attuale opposizione, di formulare le domande che considerano più urgenti e sulle quali ritengono che dai vertici del partito fin qui risposte sufficientemente chiare non siano arrivate.

Spero proprio che ciascun parlamentare dell'IdV, alla Camera, al Senato e a Strasburgo, voglia rispondere. Non però con un unico testo, ma puntualmente: bastano poche righe per ogni domanda, ma importante, per la chiarezza del  dibattito, è che siano davvero risposte a tutte le domande, nessuna esclusa.

A nome dei lettori, e dei tanti cittadini democratici che non si rassegnano,  un grazie anticipato.
Paolo Flores d'Arcais

Le domande di Salvatore Borsellino

     1) Di Pietro ha detto in una intervista che nelle liste di IDV non c'è un solo caso di incandidabilità, di immoralità e che tutti gli eletti e i candidati hanno il certificato penale al seguito, precisando che si intende per "immoralità" l'essere condannato con sentenza definitiva. Si rende conto l’Idv che, secondo questa lettura, un personaggio come Marcello Dell'Utri, non ancora condannato in via definitiva, sarebbe da ritenersi candidabile?

     2) Nella stessa intervista Di Pietro ha affermato che Orazio Schiavone non è "neanche più condannato" perché il suo reato, secondo la "normativa successiva non è più neanche reato". Lei ritiene che l’Idv possa candidare persone che hanno commesso reati che tuttavia, grazie alle depenalizzazioni del governo Berlusconi – ad esempio il falso in bilancio – "non sono più neanche reati"? Per quanto riguarda Porfidia, Di Pietro dice che non è vero che è indagato per il 426 bis, ma per un "banalissimo abuso d'ufficio" di quando era sindaco. Non pensa che la base di IDV, soprattutto i giovani, vogliano essere rappresentati da persone che non abbiano commesso neanche dei "banalissimi abusi"?

    3) Di Pietro ha affermato che su 2500 eletti nell'IDV ci sono appena 32 persone che provengono da esperienze politiche precedenti. La cifra sembra molto bassa, ma se anche fosse, non pensa che sia un problema che queste persone abbiano in parecchi casi una storia caratterizzata da disinvolti salti da uno schieramento all'altro che dimostrano, se non altro, una spiccata tendenza all'opportunismo e al trasformismo?

    4) Nel raduno di Vasto sono intervenuto dicendo che per la prima volta avevo accettato di partecipare ad un raduno nazionale di un partito perché in quel partito mi sentivo a casa mia e con me si sentivano "a casa" i tanti giovani che si riconoscono nel movimento delle "Agende Rosse". Dissi anche che mi sarei sentito a casa mia fino a quando anche quei giovani si fossero sentiti a casa loro. Possiamo sperare, sia io che questi giovani, che il processo in atto per fare veramente diventare IDV il partito della Giustizia, della Legalità, della Società Civile prosegua ed arrivi a compimento in maniera da farci sentire "definitivamente" a casa nostra?

   
     5) Non pensa che sarebbe necessario dare una ulteriore spinta alla "democratizzazione" interna arrivando a pensare ad un segretario eletto dalla base attraverso delle "primarie"? Negli incontri che faccio in tutte le regioni d'Italia, per la maggior parte organizzati da giovani, raccolgo un diffuso senso di disagio: molti sono entrati con entusiasmo in IDV ma oggi si sentono scoraggiati perchè non hanno la possibilità, a causa degli ostacoli posti dai dirigenti locali del partito, di tradurre in attività concreta la loro adesione. Non crede che questa situazione possa portare questi giovani ad un passo indietro rispetto alla loro militanza in IDV, e a frenare l’ingresso di tanti altri giovani che potrebbero essere una iniezione di forze nuove, attive e spesso entusiaste?

Le domande di Andrea Scanzi

     6) L’Italia dei Valori è diventato il privilegiato approdo di molti delusi da sinistra, più per demeriti altrui che per meriti propri. E’ un partito che usufruisce di voti fluttuanti, radicalizzati ma non radicati. Un voto "in assenza di": non un’adesione pienamente convinta. Quando scatterà – se scatterà – l’appartenenza?

    7) L’immagine attuale dell’Italia dei Valori è quella di un partito in cui le personalità maggiori coincidono con Di Pietro e De Magistris: due ex magistrati. E’ normale o piuttosto il segnale che il "giustizialismo" può diventare un assillo, quasi una devianza patologica?

    8) La questione morale è centrale nell’Italia dei Valori. L’inchiesta di MicroMega sembra però avere infastidito la nomenklatura. Per chi fa politica come l’Idv, sempre sull’orlo del populismo, è costante il rischio che a furia di fare i Robespierre prima o poi spunti un Saint-Just a rubarti scena (e testa). Non è per questo particolarmente sbagliato minimizzare i problemi interni (per quanto inferiori alla media)? Non avvertite l’esigenza di dimostrare che le Sonia Alfano e i Gianni Vattimo non erano specchietti per le allodole?

    9) Il momento più basso dell’Idv è stato il voto contrario alla Commissione d’Inchiesta sulle mattanze a Bolzaneto e Scuola Diaz, quando il vostro partito era al governo. E’ di queste settimane il calvario di Stefano Cucchi. L’impostazione "poliziottesca" dei quadri dirigenziali dell’Idv (emblematico il caso Giovanni Palladini) può portare a una sottovalutazione di vicende analoghe? La vostra attenzione alla legalità contempla anche il garantismo e il coraggio di non reputare intoccabili magistrati e forze dell’ordine?

    10) L’Italia dei Valori prospera per la risibile debolezza del Pd e perché il bipolarismo italiano è drammaticamente atipico: non centrosinistra e centrodestra, ma berlusconiani e antiberlusconiani. Questa radicalizzazione avvantaggia un partito di lotta come l’Idv: di lotta, ma non di governo. Cosa farà l’Italia dei Valori quando Berlusconi non ci sarà più? Non è un partito che, paradossalmente, per prosperare ha bisogno anzitutto del Nemico?