domenica 3 marzo 2019

Élites e popolo: l’età dell’odio

FONDAZIONE NENNI 

 


È fin troppo chiaro a tutti che a scompaginare gli assetti politici e democratici nazionali e internazionali, diremo pure mondiali, siano stati, innanzitutto…

 

di Maurizio Fantoni Minnella 

 

È fin troppo chiaro a tutti che a scompaginare gli assetti politici e democratici nazionali e internazionali, diremo pure mondiali, siano stati, innanzitutto, la fine del comunismo e la "lunga marcia" della globalizzazione. Un terzo elemento di non minor importanza è certamente costituito dall'esplosione del mondo digitale e dei cosiddetti social network intesi quali tribune popolari o, se si preferisce, casse di risonanza della rabbia, della frustrazione e dell'odio di massa. L'asse economico, politico e culturale su cui poggiano i tre elementi può definirsi a pieno titolo l'esatta rappresentazione di un presente che talora fatichiamo a comprendere per una serie di ragioni che andremo a chiarire. Partiamo dal primo elemento: con la caduta del Muro di Berlino e il tramonto del comunismo, si è creduto legittimo teorizzare una presunta fine della storia e dei suoi conflitti (essendo venuto meno quello rappresentato dalle due opposte concezioni del mondo, il comunismo e il capitalismo) quando, invece, ne sarebbero di li a poco riesplosi altri ben più cruenti voluti dalle grandi potenze e dalle lobbies del petrolio. Dunque, la prospettata fine delle ideologie si era rivelata subito come un inganno. In realtà, alla vecchia ideologia marxista leninista protagonista di gran parte della storia novecentesca, verrà prontamente sostituita (un primo, tragico segnale ci viene dato dall'esplodere del conflitto nei Balcani) da un ritorno regressivo alle logiche dei nazionalismi, alla difesa dei confini nazionali, al sovranismo come diretta risposta al modello economico globale. E qui entra in gioco il secondo elemento: quel sistema di mercato globale basato sulla liberalizzazione delle merci e al tempo stesso sulla dislocazione e la precarizzazione del lavoro, ha disatteso le speranze di milioni di persone, dimostrando la propria incapacità di affrontare le contraddizioni della sfera sociale ed economica. Così, mentre una sinistra liberaldemocratica, sempre più sbiadita e in crisi di identità, si allea con le politiche del mercato globale, mostrandosi dunque sostanzialmente incapace di interpretare i reali bisogni dei cittadini, nel mentre le destre sovraniste, nazionaliste e xenofobe di tutta Europa resuscitano un'ideologia che, forse, troppo ingenuamente si era creduto davvero fosse stata definitivamente sconfitta. E invece eccola dunque riapparire tra le pieghe di una democrazia sempre più fragile e indecisa nel non comprendere l'urgenza di ipotizzare una terza via che dovrà necessariamente tener conto dei reali bisogni e dei diritti delle persone. L'involuzione che abbiamo sotto gli occhi non si può certamente spiegare senza il fenomeno recente delle migrazioni dal continente africano, la cui massiccia presenza ha letteralmente diviso l'opinione pubblica e i partiti politici nei termini che ci sono ben noti.
    Da un simile brodo di coltura viene progressivamente formandosi l'odio verso le élites. Ma qui il discorso si complica. Di quali élites, infatti, stiamo parlando? Di quelle economiche e finanziarie, di quelle politiche o di quelle culturali?. Va detto, innanzitutto, che nell'immaginario collettivo del nostro paese si suole spesso identificare la figura dell'intellettuale con quella del comunista, anche in virtù dell'egemonia che la sinistra comunista esercitò per decenni nella cultura, venendo così a saldare l'insofferenza se non perfino l'odio per le elites culturali con l'anticomunismo come pratica e ideologia.
    Durante il XX° secolo erano il proletariato urbano e i suoi partiti di riferimento a identificare nella borghesia capitalista il proprio nemico di classe. Mentre oggi in una società senza più classi ma con una massa indifferenziata che preme contro tutto ciò che le si oppone, perfino la stessa democrazia, viene sempre più naturale immaginare il più tetro degli scenari. Ma attenzione, la cosiddetta "ribellione delle masse", di cui parlava il filosofo spagnolo Josè Ortega Y Gasset in un celebre saggio del 1930, oggi ha uno strumento inedito, liquido, tra le mani, la Rete, il "Game" evocato da Alessandro Baricco in un suo recentissimo volume edito nel 2017, capace di creare vite irreali, virtuali, pratiche illusorie entro una sorta di ossimoro: l'individualismo di massa. Dove ciascun utente, più che individuo o cittadino è una monade autolegittimatasi e autoalimentatasi a dare contro tutto e tutti, politici e intellettuali compresi. Si è davvero smarrito l'obiettivo della lotta, anzi, lo si è voluto invece orientare verso tutto ciò che è diverso, o che si stacca dal pensiero comune, anziché individuare i veri nemici in quei poteri, talvolta invisibili, ossia senza volto, che decidono delle nostre vite, oppure in coloro che hanno abbattuto i vecchi muri per crearne di nuovi e più insidiosi o, infine, coloro che, credendo di migliorare la condizione economica del pianeta, hanno invece spalancato una voragine tra la povertà e la ricchezza (nelle mani di una sempre più ristretta minoranza). Non ha quindi alcun senso parlare di "dittatura del proletariato" mediatica, come ha fatto di recente sulle pagine di un grande quotidiano il filosofo Maurizio Ferraris, secondo il quale, con la rete e i social network saremmo finalmente in grado, e senza colpo ferire, a suo dire, di influenzare il potere politico semplicemente premendo un pulsante e dicendo mi piace o non mi piace. Si riprodurrebbe al suo interno il medesimo rapporto tra capitale e lavoro che vi era nel secolo passato con la differenza che qui il lavoro (la somma dei milioni di dati e informazioni prodotti dagli utenti), di fatto non ottengono alcun compenso mentre le società come Facebook, Amazon e altre, su quegli stessi dati moltiplicano i propri profitti. Quanto alle odiate élites culturali, è piuttosto in atto una destabilizzazione del pensiero critico, dell'arte come principio di libertà creativa, da parte delle stesse, fraintendendo il concetto gramsciano di cultura nazional popolare, con il preciso intento di operare una semplificazione assecondando il gusto di massa e facendolo coincidere con quello del mercato. Del resto è assai più concreto e redditizio il successo di un best-seller del più autorevole giudizio critico. E' molto più comodo, infatti, alimentare il culto dei classici, di cui, peraltro, non si intende discutere la lezione di umanità, piuttosto che il confronto diretto con la contemporaneità. Dunque, è la cultura a modellarsi sul gusto di massa e non il contrario come invece avrebbe inteso Antonio Gramsci nei suoi scritti. In altre parole viene così realizzandosi quell' "infinito intrattenimento" che equipara una merce o un'opera ad un'altra. Una vera e propria fabbrica del consenso o, se si preferisce, una dittatura del gusto che elimina o sottostima tutto ciò che interferisce nel patto di ferro tra produttore e consumatore, ossia ciò che chiamiamo ricerca stilistica, spirito critico e complessità intellettuale (solamente consentita in ambito accademico dove il mercato riduce la propria influenza e dove si preparano le future classi dirigenti, funzionali al mercato stesso!…). Si tratta dell'ultimo atto di una mutazione antropologica del gusto che l'industria culturale, per effetto del globalismo, non fa che alimentare con la complicità di quelle élites liberaldemocratiche verso le quali prevarrebbe un ostinato quanto risentito rancore di massa.