di Andrea Ermano
Ci dicono dall’Unesco che oggi si celebra la Giornata mondiale della poesia. Sul sito dell’ONU (vai al sito) si legge una lirica di César Vallejo (1892-1938) che inizia così:
Tutte le mie ossa sono d'altri;
io forse le ho rubate!
Sul sito Le parole e le cose Vallejo viene descritto come “il poeta della povertà fino alla miseria… il poeta del poco e del nulla, che non basta, ma che deve essere fatto bastare, perché non c’è altro”. Un poeta chiaramente “di sinistra”.
A proposito di poesia, Alberto Asor Rosa ricorda che nel suo libro Scrittori e popolo (1964) aveva “stroncato” i romanzi di Pier Paolo Pasolini. E Pasolini una volta a un convegno gli disse: «Sei quello che nella mia vita mi ha fatto più male». E figuriamoci se poteva essere quello il più grande dolore di un grande poeta. Sublime ironia chiaramente “di sinistra”.
L’ultimo libro di Asor Rosa è dedicato a Machiavelli che tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento scrive pagine di ghiaccio bollente affinché gli “staterelli” si uniscano di fronte alla nuova costellazione geopolitica, che poi altro non è se non l’inizio della globalizzazione inaugurata con la scoperta dell’America.
«L’Italia soggiace alla superiorità politica e militare delle grandi potenze europee. Le famiglie di Roma e Firenze, a cui Machiavelli si rivolge, potrebbero costituire embrionalmente lo Stato nazione», dice Asor Rosa in un’intervista a Luca Telese.
Ovviamente, nessuno ascolta il Segretario fiorentino, sicché “i principi italiani vengono schiacciati dall’impero”, nota Asor Rosa ricordando che la sconfitta subita dal Bel Paese in quei trent’anni a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento è una “grande catastrofe”, una catastrofe politica “di lunga durata”, come scrive Machiavelli.
«La storia italiana ha questo di bello: quando uno prende un qualsiasi avvenimento del passato, scopre che qualcosa di incredibilmente attuale emerge sempre», osserva Asor Rosa con un’allusione abbastanza trasparente alla situazione degli “staterelli” europei che si presentano divisi e frammentati all’alba di una nuova era.
Oggi è giunto a Roma Xi Jinping, l’erede di Mao. E ieri in un ampio articolo apparso sul Corriere il leader cinese ha illustrato il punto di vista della grande potenza imperiale asiatica in tema di rapporti con l’Italia.
«La Cina è disponibile per consolidare la comunicazione e la sinergia con l’Italia in seno alle Nazioni Unite, al G20, all’Asem e all’Organizzazione Mondiale del Commercio su tematiche come la governance globale, il mutamento climatico, la riforma dell’Onu e del Wto e altre questioni rilevanti, al fine di tutelare gli interessi comuni, promuovere il libero scambio e il multilateralismo e proteggere la pace e la stabilità mondiale e consentire uno sviluppo fiorente», scrive tra l’altro il Presidente della Repubblica popolare cinese.
L’illustre ospite venuto da Pechino ribadisce più volte concetti come cooperazione, amicizia e progresso, accanto a un leitmotiv: la lunga esperienza storica delle nostre due civiltà cosmopolitiche. L’Italia è stata per ben tre volte una potenza mondiale, e sempre sotto il segno del pluralismo culturale. Xi Jinping ricorda due epoche egemoniche italiane: i tempi dell’Impero romano e quelli rinascimentali delle Repubbliche marinare. Sia detto quasi tra parentesi e con grande, laica pacatezza che ci sarebbe però anche un terzo impero mondiale storicamente domiciliato nel Bel Paese, quello che la rivista Limes ha definito “l’impero del papa”.
Per parte sua la Cina è stata la maggiore potenza globale per la maggior parte dei secoli di cui si compone la storia umana, fino circa al Settecento. E oggi non fa molto per nascondere l’aspirazione a riprendersi quel ruolo.
Che detta aspirazione egemonica rischi di condurre a una guerra fredda 2.0 con gli Stati Uniti è evidente. La Casa Bianca ha definito il protocollo d’intesa Roma-Pechino un «approccio da predatori, senza vantaggi per il popolo italiano». Già Obama aveva individuato nella nuova strategia cinese «una chiara sfida all’architettura nata nel 1944 a Bretton Woods per volere di Franklin Roosevelt», rimarca Federico Rampini sulla Repubblica di ieri. E si sa che quando gli americani si appellano ai valori rooseveltiani questo accade perché devono coalizzare gli alleati occidentali in clima appunto di guerra fredda.
Dopodiché Rampini fa bene a ricordare che l’Italia quanto a cautela sulle tecnologie sensibili sembra dare ascolto ai moniti provenienti dagli USA, mentre altri paesi europei si mostrano ben più filo-cinesi di noi. D’altronde, la «disgregazione di ogni solidarietà occidentale è stata accelerata dallo stesso Trump, che con il suo approccio bilaterale al contenzioso commerciale Usa-Cina non ha mai tentato di cementare una coalizione d’interessi con gli alleati», ma è onesto riconoscere che «il fuggi fuggi in direzione di Pechino era già iniziato sotto Obama, quando i quattro maggiori paesi UE (Italia inclusa) decisero di aderire all’Aiib, la banca della Via della Seta».
È ovvio che siamo alle prime mosse di una partita decisiva in quest’epoca storicamente interessante.
Un po’ di competizione va bene, tanto all’interno dell’Europa quanto nei riguardi degli alleati americani, ma anche ovviamente nei confronti degli interlocutori cinesi.
I conflitti, invece, non sono nell’interesse di nessuno e soprattutto non nell’interesse dell’umanità, dato che occorre preservare tutti un alto grado di cooperazione sulla crisi ambientale e sulle altre emergenze globali di cui si sostanzia il tempo in cui viviamo, l’Antropocene, l’era geologica nella quale è alla stessa attività umana che si riconducono le cause delle grandi trasformazioni climatiche e tecno-scientifiche dalle quali dipenderà la nostra esistenza sul pianeta. E questa è la cosa “di sinistra” che volevamo dire nel contesto attuale.
Per concludere tra il serio e il faceto cercheremo ora di capire se la Cina venga a trovarci con intenzioni più “di destra” o più “di sinistra”.
Qui occorre il “sapere indiziario” di Carlo Ginzburg. E bisogna allora fare attenzione non alle dichiarazioni magniloquenti, ma a dettagli che possono parere insignificanti, occorre badare bene agli “indizi” appunto, come quando Xi Jinping, elogia il Made in Italy “sinonimo di prodotti di alta qualità” e poi aggiunge cripticamente che: «La pizza e il tiramisù piacciono ai giovani cinesi».
Sembra niente. E anzi, dopo le tante belle parole su Virgilio e Pomponio e Marco Polo e Moravia, un esegeta superficiale potrebbe trovarsi un po’ spiazzato. Invece è proprio qui, nel rinvio alla “cultura materiale” della Pizza e del Tiramisù che a nostro parere si cela un messaggio in codice molto importante.
La Pizza è facile.
È napoletana. Napoli è amministrata da De Magistris. E De Magistris è uomo “di sinistra” (noi lo sappiamo bene perché quando è venuto a tenere una conferenza stampa nella nostra sede, il Coopi di Zurigo, ha voluto farsi un selfie di fronte allo storico ritratto di Carlo Marx).
Ergo, nel riferimento alla Pizza non possiamo non leggere una chiara implicazione “di sinistra”.
Più complessa l’esegesi del Tiramisù, a causa della paternità contesa di questo fantastico dolce fatto di mascarpone, savoiardi, amaretto, cacao e caffè.
Con la massima imparzialità possibile noi dobbiamo domandarci se Xi Jinping si riferisca al Tiramisù quale fu legittimamente creato all’Albergo Roma di Tolmezzo, ridente città alpina guidata da un sindaco di centrosinistra, o non intenda accidentalmente quella sorta di maionese impazzita spacciata per Tiramisù a Treviso (città per altro assai cara a chi scrive benché attualmente governata da un sindaco di destra).
Il dilemma potrebbe apparire insolubile. Ma… Ma nei giorni scorsi il leader della destra italiana Salvini non ha forse mostrato, costui, di gradire pochissimo la visita di Xi Jinping? Ed è sulla base di questo indizio che noi in fin dei conti propendiamo a favore della tesi secondo la quale il Tiramisù vada considerato un dessert di centrosinistra, anzi decisamente “di sinistra”.
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