Quando un così grande numero di cittadini rimane a casa deve essere dichiarato lo stato di crisi della democrazia rappresentativa.
di Paolo Bagnoli
Se ci è permesso aprire con una battuta, vorremmo dire che le recenti elezioni amministrative sono state le elezioni del non voto. Infatti, rispetto alle precedenti comunali, il calo dei votanti è stato del 19,2%; se si esclude Roma, ove si è votato meno che in altri comuni, la percentuale si riduce al 14,4%. Le cifre fanno riflettere ed è doveroso farlo perché l'astensione alle elezioni comunali in un Paese quale l'Italia ove i Comuni sono, storicamente, la centralità della vita pubblica, suona come un qualcosa di più rispetto al solito campanello di allarme. Per cercare di capire il giudizio esso deve essere politico, globale e non, come talvolta avviene, sociologico o statistico.
Vediamo un po'. Intanto, quando un così grande numero di cittadini rimane a casa, la prima considerazione è che lo stato di crisi della democrazia rappresentativa deve essere obbligatoriamente dichiarato. Ciò rende tutto più relativo e carico di responsabilità collettive. Tale situazione, per esempio ci dice, che pur essendo incontrovertibile la buona riuscita del Pd dovuta anche al fatto che tutti gli altri sono andati peggio, a cominciare dal principale partner di governo, il Pdl, essa non può sbrigativamente essere considerata come un'inversione di tendenza rispetto alla crisi di credibilità della politica. Né, oggettivamente, ricondotta alle performances del governo se pur Enrico Letta, che onora bene l'incarico di presidente del consiglio, ha giocato a favore del suo governo improbabile il risultato del proprio partito. Di sicuro, per uno di quei paradossi veloci che talora la politica ci riserva, a meno di problemi che gli provengano dal suo stesso partito, da quanto ieri poteva temere di più, ossia il Pdl ora, invece, il governo trae forza, considerate le panie giudiziarie di Silvio Berlusconi che di esso ha bisogno per giocare la propria personalissima partita.
Se il Pdl perderà, come sembra negli atti, anche la guida del comune di Roma, esso non esprimerà più il sindaco di alcuna delle grandi città italiana. Un fatto significativo di un altro avvio di processo, considerato che, data un'occhiata ai risultati della Lega, non basta più l'asse verde-azzurro per guidare non solo il Paese, ma neppure suoi segmenti rilevanti. Ciò aumenta le responsabilità del Pd anche perché Marino, da tempo più sulla scia di Sel che del suo partito, sembra essere un corpo centrifugo in una massa cui la segreteria Epifani dovrebbe rimettere ordine: vasto programma!
Il terzo rilevante fattore è lo sgonfiamento del movimento di Grillo. Con la facilità con la quale era emerso, e in che misura, così si è reimmerso, potremmo dire in virtù della più elementare delle leggi della politica: che per starvi dentro, se pur contestandola oppure sfasciarla come loro si propongono di fare, non si può rinunciare ad averne una. Non solo, ma occorre un personale che può benissimo esservi catapultato da altro, ma che, al pari di ogni qualsiasi attività umana, una volta che si trova lì, deve sapere il da farsi; imparare, insomma, il mestiere. Si può dire che i grillini se la sono suonata e cantata. Se volessimo essere scientifici dovremmo aggiungere che il disegno non politico di Grillo, di cui pure egli stesso ha fatto le spese, è riuscito in pieno in quanto, essendo molto attendibile che le astensioni provengano proprio da chi li aveva in precedenza votati, niente è più non politica che lo stare a casa il giorno delle elezioni disertando le urne. Beppe Grillo quindi, se pur paradossalmente, potrebbe vantare – pardon – urlare vittoria.
La parabola del movimento grillino consumatasi tra le elezioni politiche e quelle amministrative, tuttavia, ci consegna un ulteriore campo di riflessione; ossia, i danni della raffigurazione della politica quale casta; il castismo come la causa della crisi democratica. La casta, non l'assenza di politica. Ci siamo spesso domandati perché, relativamente ai costi della politica, il saggio di diversi anni orsono redatto da Cesare Salvi e Massimo Villone non abbia prodotto un effetto pari a quello di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Per dirla in breve, crediamo perché il primo si poneva una questione politica e della politica; l'altro certo si occupava della politica, ma solo in senso accusatorio e inquisitorio. La categoria del castismo – nata con Stella e Rizzo non certo con Salvi e Villone – ha finito per riassumere tutta la politica e il suo operare nel problema dei costi, quale questione riassorbente alla fine tutte le altre questioni, ma in modo agitatorio, non curandosi di correggere le abnormità – il finanziamento ai partiti così concepito è il più grande di tutti – né di garantire l'esemplare punizione della malversazione del pubblico denaro.
E il bello è che, usciti Salvi e Villone dal Parlamento, quasi tutti hanno alzato le mani e non c'è stata carica istituzionale che, appena insediatasi, non abbia subito preso le forbici per tagliare qualcosa; lo stesso governo ha abolito ora l'indennità di carica per i ministri che siano anche parlamentari, ma un decreto per bloccare subito un finanziamento indebito, e le conseguenti rate, non è stato fatto. E poiché tutti hanno tagliato, tutti vogliono ancora tagliare, se si raffronta ciò con l'astensione dalle elezioni e la sua portata, i loro gesti non hanno riavvicinato i cittadini alla politica e Grillo ha, paradossalmente, avuto estrema ragione.
Tra il fare politica e il fare notizia non sempre vi è coincidenza e allora se è giusto riconsiderare stipendi e spese complessive, ciò non può basarsi né sul moralismo né sulla demagogia, ma su una ricomposizione della statualità e della politica democratica che, come diceva Sturzo, porti la politica "ad inginocchiarsi alla morale" e la democrazia a sviluppare non "riformismi" che non si sa cosa sono, ma riforme: di struttura, di lotta, d'intervento e consistenza sociale vera.
L'Italia non si salva nella strettoia di un'Europa assurda e pericolosa anche a se stessa, ma reinventando una politica democratica per la quale i cittadini non sono il "popolo delle primarie" o coloro ai quali appioppare listini e liste bloccate, bensì i soggetti della sovranità. E i partiti, dal canto loro, non sono centri mobili di raccolta a capienza variabile, ma soggetti identitari di cultura politica e fautori di chiarezza programmatica sulla base dell'idea di Paese che hanno e degli interessi di cui si sentono portatori. In altri termini, né "novisti" né "rottamatori", ma ideologicamente e identitariamente conformati, vale a dire dotati di una precisa nozione razionale di realtà e su come la rappresentano e, quindi, la vogliono cambiare.