giovedì 23 maggio 2013

Il PD e il nodo dell´identità

Da MondOperaio

 

 Rileggere Bad Godesberg può aiutare il Partito Democratico

 

di Nicola Cacace

 

Un nodo irrisolto del Pd è quello dell´identità. Nato come somma di due componenti dai valori diversi, i cattolici democratici ed i social comunisti, non si è mai fatto lo sforzo di definire l´identità del nuovo partito. Come si vede dal panorama politico europeo e mondiale, dovunque si contrastano due blocchi, uno conservatore e liberista ed uno progressista di tipo social democratico, che accetta il libero mercato nel quadro di uno Stato forte che garantisce diritti universali ed equa distribuzione della ricchezza.

    In Europa il documento di identità più noto di un partito democratico di sinistra è quello della tedesca Spd, Bad Godesberg 1959, che comincia così: “Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell´etica cristiana e nell´umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell´individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi il diritto di decidere né un partito politico né lo Stato. La Spd è un partito composto da uomini provenienti da diversi indirizzi religiosi ed ideologici, che condividono precisi obiettivi, libertà, giustizia, solidarietà”.

    E più avanti: “Ordinamento economico e sociale. La politica socialdemocratica in campo economico persegue il raggiungimento di un benessere crescente, una equa partecipazione di tutti al prodotto nazionale, una vita nella libertà senza inique dipendenze e sfruttamento. La politica economica, sulla base di una moneta stabile, deve assicurare la piena occupazione, accrescere la produttività ed aumentare il benessere collettivo. La libera scelta dei consumatori e del posto di lavoro, così come la libera concorrenza e la libera iniziativa, sono fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica.

    Nel caso in cui taluni mercati siano monopoli naturali o dominati da singoli o da gruppi, si rendono necessarie misure per ristabilire la libertà economica: concorrenza nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario. La proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere difesa ed incoraggiata nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza mediante imprese pubbliche è un mezzo da usare per prevenire un dominio privato di importanti settori del mercato o laddove, per motivi naturali o tecnici, prestazioni indispensabili alla comunità possono essere fornite in modo razionale ed economico solo con mezzi pubblici. Poiché l´economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione di redditi e patrimoni, sarà necessaria una politica nazionale dei redditi e del patrimonio. Ciò presuppone due condizioni, la crescita del prodotto nazionale ed una sua equa ripartizione.

    Il sistema di sicurezza sociale deve essere commisurato alla dignità dell´uomo, consapevole della propria responsabilità. Ogni cittadino ha diritto a percepire dallo Stato un minimo di pensione per vecchiaia, disabilità al lavoro, morte di colui che gli assicura il sostentamento. Tutte le prestazioni sociali in danaro dovranno essere adeguate agli aumenti dei redditi da lavoro.

    Poiché il singolo non può difendersi da tutti i rischi inerenti la salute, un sistema pubblico di protezione sanitaria è indispensabile, garantendo nel contempo la libertà professionale dei medici. La durata del lavoro, a reddito invariato, deve essere gradualmente ridotta nella misura assicurata dal progresso tecnico e dalle libere scelte contrattuali. Ciascuno ha diritto ad una abitazione decorosa, vietando anche le speculazioni sulle aree e sottoponendo a prelievo fiscale i profitti derivanti dalla vendita dei terreni. La parità dei diritti della donna deve essere attuata realmente in senso giuridico, economico e sociale. Stato e società devono proteggere, favorire e rafforzare la famiglia e la gioventù”.

    La conclusione del documento verte sulla nuova concezione di classe, molto più larga di quella originaria del socialismo marxista: “Il movimento socialista, iniziato come protesta dei lavoratori salariati contro il sistema capitalistico, ha adempiuto ad un compito storico. Nonostante errori e sconfitte il movimento dei lavoratori è riuscito ad ottenere nel XIX e XX secolo, il riconoscimento di molte sue rivendicazioni, tra cui, la giornata lavorativa di 8 ore, la pensione per invalidità e vecchiaia, il diritto di organizzazione sindacale, i diritti di maternità, il divieto del lavoro minorile, le ferie, etc… Questi successi sono pietra miliare di un cammino ricco di sacrifici, soprattutto dei lavoratori salariati, che ha servito la causa della libertà di tutti gli uomini.

    Oggi tutte le forze vive scaturite dalla rivoluzione industriale e dal progresso tecnico devono essere messe al servizio della libertà e della giustizia. Da partito della classe lavoratrice il partito socialdemocratico è diventato partito del popolo. Perciò la speranza del mondo è un ordine fondato sui valori del socialismo democratico, che intende creare una società civile nel rispetto della dignità umana, una società libera dalle disuguaglianze, dall´indigenza e dalle paure, da guerre ed oppressioni, in unità di intenti con tutti gli uomini di buona volontà”.

  Credo che, ci sia da imparare molto dal documento di Bad Godesberg, naturalmente aggiornandolo a 50 anni dopo, in termini di definizione dell´identità di un moderno partito democratico di sinistra. Tanto più che gli 8 paesi europei più a lungo governati nel dopoguerra da partiti socialdemocratici, i 4 paesi scandinavi più Germania, Olanda, Austria e Francia, sono non solo quelli a più alta eguaglianza sociale (indice di Gini inferiore a 0,3) ma anche quelli a più alto sviluppo.

 

Questione socialista, 3.0 - Un volgo disperso

 Sul fermento nel campo vasto del socialismo italiano

 di Paolo Bagnoli

 Non è poco il fermento nel campo vasto del socialismo italiano; la diaspora dopo la fine del Psi, cui fa seguito il travaglio seguito alla vicenda complessiva della sinistra italiana, fatta naturalmente eccezione per coloro che hanno scelto di stare a destra, non ha significato dispersione e nemmeno negazione della possibilità di un reincontro in una qualche maniera strutturato anche se ciò non significa pensare di far rinascere il Psi finito nel naufragio del craxismo.

    Non è finito il socialismo; né i suoi valori, né, tantomeno, il portato di una presenza storica fondamentale e incancellabile nella storia italiana: culturalmente, civilmente, socialmente, politicamente. Da tempo tale spazio, vitale per la democrazia e la sinistra italiana, non è adeguatamente interpretato, soggettivizzato e politicamente interlocutore della vicenda italiana. I socialisti che non sono andati a destra – e non ci riferiamo solo a coloro a suo tempo militanti nel Psi ma anche a quelli che, nel post Psi, hanno maturato una scelta socialista – da tempo oramai si vanno, in varie forme e modi, incontrando, discutendo, interrogandosi su un futuro che non riguarda le loro possibili nascoste intenzioni di personalismo politico, ma il modo in cui restituire quella dignità di ruolo, organizzazione e interlocuzione politica che spetta al socialismo nel contesto della crisi aspra della democrazia italiana. È alla rinascita del socialismo che si collega l’opzione possibile di rinascita della sinistra italiana; di un soggetto concretamente ancorato a valori di ragione e funzione storica.

    Esiste una vitalità che fa molta fatica a emergere e comporre un canone di intenzione politica comune. Essa, in più, non è sicuramente favorita dal fatto che non pochi compagni militino in diversi partiti del centro-sinistra, svincolati da una comune appartenenza partitica. E’ una constatazione che non vuole essere critica di libere scelte; il problema è se si considera la questione di cui sopra nell’ottica del proprio pensarsi autonomamente oppure in quella di far sì che si ritenga che essa possa essere avviata a soluzione, basti che questo o quel partito marci, come qualche autorevole compagno ha auspicato, verso un “orientamento” socialista. E’ quasi banale controbattere che il socialismo non è un “orientamento”, ma una scelta identitaria piantata nella storia e nelle lotte del Paese e se l’orientamento può essere assolto dallo stringere rapporti con sigle socialiste sovranazionali, per esempio il Pse, ciò è certo rilevante, ma non dirimente poiché il tutto continua a rimanere aperto.

    Bisogna anche dire che, tra le tante drammatiche irrisolutezze e difficoltà della nostra democrazia, ve ne è una che può apparire tutta concettuale mentre è genuinamente politica. Essa consiste nel considerare come sinistra quella parte che si oppone alla destra. Non è così. Chi si oppone alla destra è, o dovrebbe essere, un “progressista”. Chi è progressista oggi in Italia? Sul partito di Monti avremmo qualche riserva e sul movimento di Grillo qualcosa di più. Dopodiché, certo, chi si oppone alla destra è, in quanto tale, un alleato possibile per la sinistra. Ma definire “di sinistra” il Pd tutto quanto è cosa che nemmeno i democrat sostengono. Mentre Sel è senza dubbio una forza di sinistra, pur se talora pare modularsi più in funzione delle dinamiche interne al Pd che non di una ricomposizione della sinistra italiana.

    Parimenti, scommettere sui giochi di ruolo interni al Pd affinché si sposti un po’ più a sinistra, ci sembra inutile e non certo perché gradiremmo un Pd più a sinistra, ma in quanto la logica di quel partito non gli permette di andare oltre la frontiera del “progressismo”.

    Siamo, insomma, dentro una fase che è non solo di transizione, ma di sbandamento, e però anche di ricerca. E siamo convinti che dai socialisti, “volgo disperso” che partito non ha, ci si aspetta che un colpo venga battuto.

    Ora, affinché tale colpo si senta, occorre che qualcuno ritenga di avere la soluzione in tasca e, quindi, cerchi di imporre la propria idea; e occorre che si ricompongano le basi culturali della ragione socialista in un’ottica non solo “culturale”, bensì politica e, quindi, nelle condizioni di cercare di interloquire pensandosi autonomamente rispetto al quadro complessivo del centro-sinistra, della stessa Sel e pure del Psi, oggi ovattato nelle pieghe del Pd.

    Ciò detto, che fare? Come sappiamo bene non esistono soluzioni tecniche che risolvano quelle politiche. Per cui non sarebbe possibile pensare di procedere con un passo di nuovo partitismo e non per la logica frusta del nuovo “partitino” – anche Sel è un partitino e del Psi non se ne parla.

    Un soggetto politico, grande o piccolo che sia, è tale se vi sono ragioni identitarie che lo rendono non uno strumento politicista di un dato momento della vicenda politica, ma espressione di un disegno che coinvolge la storia, le idee, la concezione del mondo e dello Stato in rapporto a un blocco sociale che vuole rappresentanza. Inoltre, per incidere nel presente e sperare nella costruzione di un futuro più giusto e migliore, occorre non avere la scarlattina del “governismo”, rifuggendo dalla logica, fortemente insediatasi nell’Italia del bipolarismo, che riduce la politica al governo.

    E’ evidente che ogni operazione tesa a ricompattare, in qualche modo, il disperso mondo socialista richiede chiarezza e serietà d’intenti. Chi scrive ritiene che sui debba compiere ogni sforzo in siffatta direzione pur non nascondendoci la complessità dell’impostazione e del procedere. Certo è che, stare in attesa di iniziative altrui è sicuramente legittimo, ma altro rispetto a ciò di cui parliamo; infatti, una cosa è se si determina una “interlocuzione” socialista interna al Pd o a Sel – cosa finora non avvenuta e non crediamo per dimenticanza di qualcuno – altro è disporre di una forma soggettiva che, cosciente di se stessa, pone al Pd il perché non riesce a essere il pilastro vincente dell’Italia che non è di destra e a Sel quello della ricostruzione della sinistra; di una sinistra, beninteso, non a “orientamento” socialista, ma socialista punto e basta. Questo è l’unico modo nel quale essa possa essere. E questo è dunque anche l’unico modo nel quale essa possa reggere all’urto a venire, tenendo il campo della democrazia contro ogni tentazione tecnicistica, qualunquistica o addirittura sfascista. E, visto che ci siamo, chiediamo anche al Psi le ragioni di una totale afonia sulle questioni inerenti lo stato e le vicende del socialismo in Italia.

    Le forze interessate, prescindendo dalle analisi del presente che ognuna può fare, debbono chiarire, a se stesse innanzi tutto, se esiste una convergenza possibile sul futuro – quello più prossimo, intendiamo – e se i fattori di convergenza prevalgono. Occorre focalizzare i punti di valore e di cultura che fissano l’insieme – e trattandosi di socialismo non dovrebbe essere impresa ardua. Occorrono ipotesi pratiche sul presente, nonché quel minimo organizzativo che responsabilizzi l’operazione.

    Su tutto, comunque, prevale l’intenzione che è il dato sul quale si determina la politica; se l’intenzione non è comune, tanto vale nemmeno provarcisi; se lo è, rispetto a quelle che abbiamo accennato, e ve ne possono essere pure altre, è questione della discussione.

    Sarà possibile? C’è chi ci sta lavorando e ci auguriamo che l’esito sia positivo. Perché non possiamo assistere a un insieme di monadi alcune delle quali confidano nella proposta del “governo di cambiamento” avanzata da Bersani – e si è visto che era un pensiero ipotetico dell’irrealtà, ma non c’era bisogno di essere indovini per capirne l’esito. Né possiamo solo attendere che l’annunciata adesione di Sel al Pse, se avviene, chiuda il problema. Tutto questo è un po’ poco; anzi più poco che un po’. Naturalmente, poi, nessuno è obbligato a stare dietro a ciò in cui non crede, come non è vietato continuare a credere in ciò di cui si è convinti.

 

Parliamo di socialismo - Sarà la Corte Costituzionale a eliminare la “Porcata”?

di Cesare Salvi

Tra qualche mese la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sugli aspetti della legge elettorale sui quali la Corte di cassazione ha sollevato la questione di legittimità. Essi riguardano, com'è noto, da un lato le modalità per l'attribuzione del premio di maggioranza (considerato eccessivo per la Camera, irrazionale per il Senato) e dall'altro le liste bloccate che, secondo la Cassazione, impediscono agli elettori un effettivo potere di scelta dei parlamentari. La Corte costituzionale aveva in precedenza, in due ordinanze in tema di referendum elettorali, già sollevato dubbi sulla legittimità di tali norme, dubbi ribaditi dal suo Presidente Franco Gallo in una recente conferenza stampa.

    Se il parlamento non interverrà prima, è quindi probabile che il giudizio della Consulta sarà di accoglimento. Ma con quali effetti? Il problema si pone perché la Corte costituzionale ha in passato affermato, in sede di esame dei quesiti referendari, che non è ammissibile una fase nella quale vi sia assenza di una legge elettorale operativa. A questo punto è possibile quindi prevedere che la Corte avrà due opzioni: la prima è quella di dichiarare interamente incostituzionale la legge vigente, affermando nel contempo la reviviscenza della legge Mattarella. Secondo alcuni giuristi, infatti, questo risultato, che non potrebbe essere realizzato per via referendaria, sarebbe invece possibile con una sentenza della Corte. La seconda opzione è quella di una sentenza che dichiari incostituzionale solo una parte della legge, lasciandola vivere per il resto. Ciò probabilmente dovrebbe riguardare l'attribuzione dei premi e le correlate soglie di sbarramento (che oggi sono differenziate perché legate al premio). Se fosse seguita questa strada, la nostra legge elettorale diventerebbe simile a quella tedesca: proporzionale con sbarramento.

    Nel frattempo, la non più strana maggioranza sta discutendo di una legge che elimini i principali difetti di quella attuale, in attesa della più o meno probabile conclusione dell'iter dell'ipotizzata "grande riforma" costituzionale.

    Si tratterebbe di una legge provvisoria, "di salvaguardia", com'è stato detto.

    Ma anche se si vuole seguire questa strada, occorre avere anzitutto chiaro l'obiettivo che si intende perseguire. Se si ritiene che si debba rivitalizzare il bipolarismo, occorre innestare sulla legge attuale il doppio turno. In altri termini, se al primo turno nessuna coalizione ha avuto la maggioranza assoluta, si procederebbe a un secondo turno fra le due coalizioni più votate. A questo punto, la coalizione vincente al ballottaggio avrebbe ovviamente una percentuale di voti superiore al 50%, e quindi l'attribuzione del premio non sarebbe più ingiustificata. L'altra soluzione è di eliminare il premio di maggioranza o assegnarlo solo sulla base di un consenso molto elevato. Si avrebbe un sistema di tipo tedesco, che comporterebbe, nell'attuale configurazione del sistema politico italiano, l'elevata probabilità di un governo di coalizione dopo il voto.

    Restano aperte due questioni. La prima è quella dell'eliminazione dei listoni bloccati, con la preferenza o con liste più corte e il divieto di pluricandidature. Il secondo problema è più complesso, e riguarda il bicameralismo. Se si adotta un impianto proporzionale, la possibilità di esiti differenti nei due rami del Parlamento permane (se non altro per la differenza di età nell'elettorato attivo), ma certamente sarebbe meno rilevante.

    Per l'altro sistema ipotizzato (il doppio turno di coalizione) è invece difficile e forse impossibile, a Costituzione invariata, assicurare un esito conforme per Camera e Senato.

    Queste considerazioni inducono a una riflessione conclusiva. Invece di perseguire il macchinoso meccanismo ventilato per le riforme costituzionali, e che ha già sollevato serie critiche, non sarebbe preferibile concentrarsi subito su una "buona" legge elettorale, e limitarsi per la Costituzione a un intervento secondo le ordinarie procedure dell'art. 138 sui due punti (la riforma del Senato e la riduzione del numero dei parlamentari) sui quali consente ogni persona di buon senso, e rinviare a tempi auspicabilmente migliori, e quindi alla prossima legislatura, più ambiziosi progetti di riforma?

 

Chi è il “nemico principale” per una svolta di sinistra in Europa?

Lettera da Santiago del Cile a margine del dibattito per una sinistra europea

Hollande ha preso una posizione importantissima nel perorare un rilancio il progetto europeo che prenda le mosse dalla solidarietà. L'Europa deve mettere in comune i debiti pubblici nazionali, facendosene carico, al di là di sterili tecnicismi.

 di Felice Besostri

 Pensiamo, ad esempio, al redemption fund, progetto molto caro a Peer Steinbrueck, ma certo non altrettanto ai suoi potenziali elettori, visti i sondaggi.

    La SPD non ha ancora capito che non si va avanti con tecnicismi da compromesso, mirati a non spaventare l'elettorato moderato, che può recuperare voti, ma solo con il coraggio di presentare un progetto realmente alternativo per l'Europa. Giudico l'intenzione di procedere anche senza la Germania una provocazione culturale, mirata proprio a indurre la SPD a prendere una posizione più coraggiosa di quella di Steinbrueck sull'Europa.

    Hollande sa bene quali siano i pericoli insiti in un isolamento della Germania, che farebbe percepire il progetto europeo come antagonista agli interessi tedeschi. Conosce le conseguenze del nazionalismo e del germano-centrismo sviluppatesi nella storia. Ad ogni modo, oggi, l'elaborazione politica del socialismo francese è decisamente più avanzata e fertile di quella della SPD, che, da Schroeder in poi, sembra essersi smarrita.

    Allora una delle richieste della DGB era il salario minimo. Nei Laender ex orientali c'erano e ci sono lavori sottopagati. Un aumento salariale avrebbe avuto e avrebbe effetti positivi sul consumo con effetto benefico su tutto il continente e sul surplus del commercio estero. Questa misura oggi rafforzerebbe il consenso elettorale. Qui le difficoltà discendono da un condizionamento culturale e da vera e propria intossicazione demagogica da parte della stampa popolare, tipo Bild Zeitung.

    Ma parliamo chiaramente: in Spagna, Italia e Grecia l'evasione fiscale è molto, ma molto, superiore a quella tedesca. E il costo della corruzione? Occorre un segnale chiaro: l'aiuto comunitario non deve servire a coprire le inefficienze strutturali dei paesi in difficoltà.

    Quando sento economisti appartenenti alla sinistra italiana affermare che un deficit di bilancio è comunque buono come stimolo alla crescita, quasi che non ne importasse la destinazione (cultura e ricerca o falsi invalidi e clientele?), penso che difficilmente il ceto medio tedesco, che è quello che fa vincere le elezioni, cambierà idea.

    Altro punto: la politica industriale in Italia. Se il ceto medio italiano preferisce le Volkswagen, le Opel e, sul segmento alto, le BMW e le Mercedes, invece che Fiat, Lancia o Alfa, non c'entra la SPD. Per fortuna, i ricconi tedeschi non hanno alternative alle Ferrari.

    Qualcuno mi sa raccontare iniziative comuni tra i sindacati italiani e quelli tedeschi sia confederali sia di categoria? La Funzione Pubblica della CGIL promuove seminari insieme all'organizzazione omologa del pubblico impiego tedesco, che si chiama ver.di ed è il più grande sindacato europeo oltre che uno dei più combattivi, tanto che nel 2009 non appoggiò, come nel passato, la SPD alle elezioni? Quando parlo di "iniziative", non intendo gruppi di lavoro tra super-esperti, ma qualcosa che arrivi almeno agli attivisti.

    La Fondazione ItalianiEuropei, che fa Parte della FEPS, di cui D'Alema è presidente, prevede programmi di ricerca congiunti con la Ebert-Stiftung della SPD o con la Boeckler-Stiftung  e le altre fondazioni dei sindacati tedeschi? Se sì, su quali temi? Politica internazionale? Privatizzazioni e liberalizzazioni?

    Qui in Cile, da dove scrivo queste righe, ho appreso non senza stupore che il processo di privatizzazione del rame, della scuola, della sanità e della previdenza si è accentuato con i governi democratici post-dittatura, anche se è stata la Costituzione di Pinochet a fornirne il quadro legale. Mi vengono in mente pensieri che non condivido sul primo governo dell'Ulivo.

Sono d'accordo con Turci quando dice che nelle nostre scelte dobbiamo tenere conto dei nostri interessi. Smettiamola di aspettare che gli altri facciano i nostri interessi. Ma dobbiamo salvaguardare i nostri obiettivi di fondo, come l'Unità politica dell'Europa.

    Dietro al Manifesto di Ventotene c'erano personaggi frutto delle migliori tradizioni della sinistra italiana: Spinelli al confino perché comunista, Colorni perché socialista e Rossi liberal-democratico di filone azionista.

    Altro punto: se trovassimo una via comune, sarebbe meglio per tutti. Perciò dobbiamo tentarla. E allora va benissimo denunciare i ritardi del PSE e della Confederazione Europea dei Sindacati come pure dei soggetti italiani che ne fanno parte. Vogliamo fare esempio concreto? La vertenza FIAT. La giusta opposizione ai piani di Marchionne sarebbe stata rafforzata da un'iniziativa che avesse messo insieme anche gli interessi dei lavoratori polacchi, serbi e brasiliani della multinazionale torinese.

           

IPSE DIXIT

Equità sociale condivisa - «Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l'Europa. I punti deboli economici portano animosità invece che rafforzare i motivi per stare assieme. Hanno un effetto-rottura invece che di legame. Le tensioni che si sono create sono l'ultima cosa di cui ha bisogno l'Europa. Chi scrisse il Manifesto di Ventotene combatteva per l'unità dell'Europa, con alla base un'equità sociale condivisa, non una moneta unica». – Amartya Sen

Le riforme si fanno meglio senza austerità. - «L'Europa ha bisogno di riforme: pensioni, tempo di lavoro, eccetera. E quelle vanno fatte, soprattutto in Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. Ma non hanno niente a che fare con l'austerità, con tagli indiscriminati. È come se avessi bisogno di aspirina ma il medico decide di darmela solo abbinata a una dose di veleno: o quella o niente. No, le riforme si fanno meglio senza austerità, le due cose vanno separate». – Amartya Sen

Ricordate l'austerità per la riunificazione tedesca? - «Allora l'austerità fu necessaria. Ma attenzione, fu un'austerità fatta pagare a chi stava meglio, alla Germania occidentale. Oggi, al contrario, la si applica ai Paesi messi peggio». – Amartya Sen

Non rischia una fuga in avanti? - «No, se si riconosce che l'Europa sia in una situazione insostenibile. Prendiamo l'esempio dell'Unione bancaria, decisa più di un anno fa. Ancora non ci siamo, perché la governance non funziona e quindi non possono funzionarne le politiche. Il tempo non è elemento marginale: una cosa che va bene ora, non funzionerà tra cinque anni quando il mondo sarà andato da un'altra parte. La tesi secondo cui austerità e tagli da soli avrebbero portato alla crescita, a trattati vigenti viene smentita da tutte le parti... I costi economici sono alti (per tutti, compresa prossimamente la Germania) e a questi si aggiungono quelli politici, perché assistiamo allo sviluppo di populismi ed euroscetticismi che assumono dimensioni preoccupanti, trasformandosi poi in nazionalismo e razzismo, da cui la nostra Storia ci mette in guardia.» – Emma Bonino

 

giovedì 16 maggio 2013

Le idee - Di riffa o di raffa questo è e resterà un governicchissimo

 di Felice Besostri

 

Nelle mie analisi parto sempre dalla ferita grave inferta alla nostra Costituzione dall'approvazione della legge 270/2005 di riforma della legge elettorale: una legge di fatto concordata tra i due poli apparentemente alternativi. E' sufficiente ripercorrere l'iter parlamentare per scoprire il gioco delle parti: quando si esce dalla sede deliberante per protesta tutti  capiscono, che si vuole l'approvazione della legge. D'altra parte il suo modello era la legge elettorale toscana. Si è introdotta una specie di elezione /designazione diretta del Primo Ministro in una Costituzione con forma di governo parlamentare. Un sistema maggioritario travestito da proporzionale, così da sommare i difetti dei due sistemi.

    Con quella legge e con il suo abnorme premio di maggioranza  era inevitabile la creazione di un bipolarismo artificiale, un sistema diviso in due campi necessariamente alternativi: bastava un voto un più del blocco avversario per prendersi il premio di maggioranza. Non solo si era costretti a dar vita a coalizioni altrettanto posticce, incapaci di governare. Coalizioni che non reggevano ad una legislatura come le vicende del 2006 e del 2008 e infine del 2013 hanno dimostrato. Le liste bloccate hanno dato il colpo finale alla democrazia rappresentativa: un centinaio di persone ( ad essere larghi ) che nominano 945 parlamentari invece di farli eleggere da 44 milioni di cittadini. Uno spropositato ed incontrollato potere  in mano ad oligarchie, nel migliore dei casi, quando non, a destra e sinistra, nelle mani di un capo o padrone di una lista. In nessun paese c'è un tale potere in capo a partiti in assenza di ogni legge regolatrice degli stessi: una regolamentazione tra l'altro richiesta dall'inattuato art. 49 della Costituzione.

    In tale contesto la delegittimazione del capo dello schieramento avversario non era un espediente ma una necessità. Quando si sono invocate le Grandi Coalizioni tedesche ci si dimentica che quello è un sistema proporzionale con soglie di accesso e che i partiti hanno una chiara identità politico-programmatica: mentre in Italia la vocazione maggioritaria ha comportato partiti, con unico vincolo quello del successo elettorale: PD e PdL ne sono l'esempio. Si sono intaccate le prerogative presidenziali nella scelta del Presidente del Consiglio dei Ministri( chiamiamolo con il suo nome) e di fronte al fallimento delle coalizioni indicate dagli elettori (2006 e 2008) o alla mancanza di un'univoca indicazione(2013) era naturale l'espansione dell'unico potere costituzionale legittimo e in grado di decidere: il Presidente della Repubblica.

    L'altro potere, quello legislativo, teoricamente il più importante in una democrazia rappresentativa con forma di governo parlamentare era ed è fuori gioco: si tratta di nominati che non rispondono ai loro elettori, ma a chi li ha collocati, d'autorità o in seguito a trattative tra gruppi di potere, in posizione eleggibile. Nelle vicende dell'elezione del Presidente della Repubblica è stato chiaro che nelle scelte dei parlamentari a voto segreto non c'è l'esclusivo interesse della Nazione( art. 67 Cost.) o la disciplina di partito, ma la dinamica dei gruppi federati momentaneamente in un partito.

    Chi vede gli effetti e non le cause si è messo a gridare al tradimento della Costituzione, di inammissibile interventismo presidenziale, addirittura di degenerazione presidenzialista. In Italia, a differenza della Germania dove il Cancelliere è eletto a scrutinio segreto dal Bundestag, tutti i governi sono governi del Presidente, perché è il Presidente che li nomina ed entrano in carica con pieni poteri con il giuramento nelle sue mani. La fiducia parlamentare è una ratifica, che presuppone parlamentari senza vincolo di mandato.

    Da qui, da uno stato di necessità, cui per insipienza politica tutti i soggetti parlamentari e partitici hanno concorso, passare ad un'esaltazione di un accordo il passo è più lungo delle gambe. Questo è e resta un governicchissimo. Per dimostrare il contrario dovrebbe dare quello che non può assolutamente fare: una nuova legge elettorale. Non lo farà perché teme per la sua durata, se ci fosse una legge elettorale più potabile e meno incostituzionale, alle prime difficoltà andrebbe in pezzi. Quindi prende tempo e lega la riforma elettorale alla diminuzione del numero dei parlamentari  e alla riduzione di costi della politica ( abolizione del finanziamento pubblico ai partiti) tanto per dare qualcosa in pasto ad un'opinione pubblica intossicata), cioè a scelte contro il pluralismo della rappresentanza invece di riformare la politica e i partiti.

    Che duri o no il governo è irrilevante, se non per le emergenze finanziarie, ma i problemi del nostro sistema politico di assetto non europeo resteranno tutti irrisolti

 

Dibattito a sinistra - Caro Vendola

 Il nostro più convinto apprezzamento per la vostra decisione di richiedere la iscrizione al PSE. L’anno prossimo si terranno le europee. La sinistra italiana deve presentarsi con una lista unitaria che condivida il comune programma e il comune candidato dei socialisti europei.

 di Lanfranco Turci

Network per il Socialismo Europeo 

 Il Network per il Socialismo Europeo desidera anzitutto esprimere a te e alla Direzione di SEL il più convinto apprezzamento per la vostra decisione di richiedere la iscrizione al PSE. Tu sai come fin dalla nostra costituzione, due anni fa, noi abbiamo sollecitato questa decisione, convinti che essa rappresentasse e rappresenti un passo avanti importante per contribuire, nel nostro paese, a una riorganizzazione unitaria della sinistra. Riorganizzazione che non può a nostro avviso realizzarsi se non nell’ambito di un comune riconoscimento nella famiglia del Socialismo Europeo. Solo da questa base è possibile dare efficacia alla ricerca e alle lotte contro la globalizzazione neoliberista e contro la crisi che di essa è espressione, per costruire un’Europa democratica, capace di difendere il lavoro e il welfare, e per costruire un nuovo modello di sviluppo.

    L’anno prossimo si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Il PSE si è impegnato a presentarsi al voto con un proprio candidato alla guida della Commissione. La sinistra italiana non potrà mancare la occasione di presentarsi con una sua lista unitaria che condivida il comune programma e il comune candidato dei socialisti europei. L’obiettivo della riorganizzazione della sinistra sembrava, se non a portata di mano, comunque avviata solo poche settimane fa. Dopo il deludente risultato elettorale della coalizione di centrosinistra si era infatti aperta nel PD e in SEL una riflessione autocritica molto importante, che si era poi tradotta nel tentativo del “governo del cambiamento” di Bersani. Sembrava appunto che lo sviluppo di questo progetto avrebbe potuto prendere corpo in un congresso del PD che segnasse una svolta di tipo socialista, cui anche SEL guardava come l’occasione attesa per la costruzione di una casa comune della sinistra. Questo processo avrebbe inevitabilmente coinvolto anche il PSI e soprattutto le vaste aree diffuse di circoli e associazioni di sinistra e socialiste di cui anche il nostro Network è espressione.

 Purtroppo la sconfitta del tentativo di Bersani, le confuse vicende della elezione del Presidente della Repubblica e la nascita del governissimo sembrano aver riportato questo processo in alto mare, anche nel dibattito interno al PD. Noi restiamo tuttavia convinti che senza la costruzione di un grande partito di sinistra, popolare, unitario e di orientamento socialista non sarà possibile avviare a soluzione la crisi del nostro paese e soprattutto ridare speranza e motivazione alle grandi masse di lavoratori, di disoccupati e di giovani e donne che più soffrono questa crisi.

    Voi avete rilanciato con l’incontro dell’11 maggio la costruzione di un progetto comune, “una nuova soggettività politica di sinistra in Italia”. Apprezziamo questo intendimento e apprezziamo il fatto che vogliate farlo con spirito aperto, non dando per scontate e irreparabili le divisioni che si sono aperte con le ultime vicende politiche. Con lo stesso spirito unitario il nostro Network per il Socialismo Europeo è interessato, insieme ad altre associazioni e circoli di cultura di sinistra e socialista, a riprendere insieme a voi questa ricerca, mantenendo nel contempo aperta una iniziativa di sollecitazione e confronto con il PD e le altre forze della sinistra.

 

giovedì 9 maggio 2013

Per il Partito della Sinistra Italiana

La situazione è grave. È grave per la sinistra italiana, per il centro-sinistra italiano, per la Repubblica. Una crisi di sistema e che viene da lontano, ma che oggi sta vivendo la sua fase più acuta.

di Fabio Vander


La vicenda della rielezione del Presidente della Repubblica ha evidenziato in modo preoccupante l'incapacità del Parlamento, dei partiti, della classe dirigente, dell'intero sistema democratico di funzionare in modo adeguato. Questo mentre la situazione economica si aggrava diffondendo povertà, disoccupazione, ingiustizie e allarme sociale.

Per reagire a questa situazione di fatto occorre una risposta politica alta, strutturata, consapevole delle proprie responsabilità.

E invece il panorama offerto dalla cronaca è tutt'altro.

Quello di una destra come mero comitato d'affari personali, concentrato di pulsioni anti-democratiche, anti-costituzionali, reazionarie, corriva con il peggio della società italiana. Tutti gli altri tentativi di proporne un profilo più moderno, democratico ed europeo sono falliti: da Casini, a Fini, ai vari "Terzi Poli", da ultimo Monti.

Anche il PD, che doveva essere l'altra gamba del "bipolarismo" italiano si è mostrato invece un potente fattore di crisi di sistema. È un progetto fallito, non solo per insipienza tattica, ma per vizio strategico. Il fallimento era scritto nel suo codice genetico, frutto dell'equivoco di fondo di tenere insieme ciò che in una condizione di normalità andrebbe distinto: sinistra e centro, moderati e riformatori, ex-democristiani ed ex-comunisti. Nati per rappresentare l'alternativa a Berlusconi, ne hanno invece garantito la perpetuazione, l'inamovibilità dal centro della scena politica nazionale. Confermatasi clamorosamente con la nascita del governo Letta, nonostante la sconfitta elettorale e la perdita di milioni di voti.

Il PD ha perso con Veltroni e con Bersani, in versione moderata e in versione laburista, come "partito a vocazione maggioritaria" e come partito "coalizionale". Le stesse "primarie", presentate come il nuovo strumento democratico del XXI secolo, si sono rivelate solo vettore di disastro politico ed elettorale per Prodi nel 2006, per Veltroni nel 2008, per Bersani nel 2013.

Questi i risultati del 'nuovismo', di una cultura della democrazia improvvisata e tralatizia.

A questo si aggiunga che dopo il fallimento di Bersani il partito è rimasto schiacciato a destra sull'asse Letta-Renzi e legato ad un'esperienza di governo succube a Berlusconi.

Per non dire della sinistra. Il Paese delle "due sinistre" si trova da anni senza nessuna sinistra. Né radicale, né riformista, né parlamentare, né dei movimenti.

La verità è che anche qui dopo la scomparsa dei grandi soggetti storici della democrazia italiana: dal Partito comunista, al Partito socialista, alla tradizione laico-repubblicana, nulla è rimasto di serio ed adeguato.

La parabola di Rifondazione è stata mesta e senza sbocco, come dimostrato da ultimo dallo svanire del progetto di "Federazione della Sinistra".

La proposta di Ingroia è finita, come inevitabile, nel nulla.

Quanto a Sinistra ecologia e libertà è un altro dei fattori gravi della crisi attuale. Quello di Vendola è stato sin dagli inizi un progetto politico asfittico e miope, lo sciagurato slogan "non voglio un partito ma riaprire la partita" ha portato a non avere né un partito di sinistra, né la riapertura della partita politica. La tardiva riscoperta della necessità di un "nuovo partito della sinistra di governo", per non apparire opportunistica, dovrà vedere SEL collocarsi al servizio di un più ampio processo costituente della sinistra italiana; un processo partecipato, democratico e chiaro nelle sue premesse e nei suoi fini: rifondare la sinistra per rifondare l'Italia.

La domanda urgente è allora: data la sconfitta elettorale di "Italia Bene Comune" ovvero l'ennesimo fallimento dei gruppi dirigenti del centro-sinistra italiano, che fare?

Occorre un nuovo partito della sinistra. Un nuovo centro-sinistra. Una nuova democrazia dell'alternanza.

La sinistra ha bisogno, per tornare ad essere, di un nuovo partito. Che sia radicato nei luoghi di lavoro, nella società, nel territorio. Chi dice che il partito politico è una forma di organizzazione novecentesca e dunque superata, è un ignorante in fatto di politica e teoria politica ovvero è in malafede. In democrazia i partiti sono una componente indispensabile del sistema, un modo di raccogliere istanze e bisogni della società e portarli, "con metodo democratico", a determinare la politica nazionale. Come recita la nostra Costituzione. E noi restiamo fermi al dettato costituzionale. Certo "con metodo democratico". Il nuovo partito dovrà rinunciare a leaderismi e personalismi, a forme di investitura plebiscitaria, garantendo modalità di partecipazione, decisione e controllo da parte degli iscritti. In questo quadro il riequilibrio di genere è un valore, una risorsa costituita dalla capacità delle donne di portare nel discorso politico nuove istanze di qualità e di cittadinanza.

Ma dovrà trattarsi soprattutto di un partito di sinistra, democratico e socialista. Nazionale e internazionalista. Di sinistra perché indispensabile superare la logica stessa di un centrismo anonimo e asfittico; democratico sia nel senso che la democrazia è amputata se non c'è la sinistra, sia quanto alla vita politica interna; socialista poi perché irrinunciabile è una critica radicale e al tempo stesso democratica del capitalismo. Non basta essere anti-liberisti. La centralità del lavoro, non è istanza laburista o sindacalista, ma architrave sociale e valoriale di una prospettiva di giustizia ed eguaglianza per i lavoratori, le persone, la società.

Un nuovo centro-sinistra è poi indispensabile. La sinistra è disponibile ad un accordo con le forze riformiste e democratiche nella prospettiva di dare al Paese un governo autorevole, di cambiamento e di progresso. Idee, programmi, uomini e donne della sinistra sapranno contribuire, in forma autonoma ed originale, alla definizione appunto di un progetto e di un programma adatto all'Italia e all'Europa del XXI secolo.

Ma la soluzione di continuità con le esperienze degli ultimi decenni dovrà essere tangibile. Se infatti l'orizzonte europeo è imprescindibile, imprescindibile è anche rompere con le politiche liberiste e dell'austerità, che sono state i veri fattori di crisi e di instabilità. L'Europa negli ultimi venti anni è peggiorata. Peggiorato lo stato dell'economia complessiva, peggiorata la condizione dei lavoratori e dei loro diritti, come quella dei disoccupati, dei precari, dei giovani, degli anziani.

L'Europa che vogliamo è quella della giustizia, della eguaglianza, di una effettiva democratizzazione delle sue istituzioni.

Alternativa per noi è portare un progetto di rinnovamento e di giustizia al governo del Paese. Un progetto alternativo appunto a quello della destra. Al grumo di interessi, modi pensare e stili di vita che essa rappresenta. Siamo anzi convinti che tanto più il centro-sinistra sarà capace di accreditarsi come forza di autentico rinnovamento, quanto più la destra sarà costretta a riqualificarsi in senso democratico ed europeo. Ponendo finalmente termine al ventennio berlusconiano.

La democrazia nel suo complesso trarrà giovamento da una nuova sinistra e da un nuovo centro-sinistra. Andando oltre la stagione della cosiddetta Seconda Repubblica nell'unico modo progressivo possibile: superando gli attuali soggetti politici e contribuendo ad una democrazia articolata secondo la netta distinzione fra una sinistra e una destra, entrambe rinnovate, credibili, europee.

sabato 4 maggio 2013

La qualità della crisi

Siamo giunti all'antivigilia della Questione democratica? La sinistra deve riorganizzarsi su basi più solide e in tempi ragionevoli. La rinascita è legata a quella di un socialismo autonomo e di sinistra, antagonista alla barbarie del capitalismo finanziario e capace di essere un movimento che governa lo Stato e le masse popolari, ma dall'interno della cultura politica occidentale.

di Paolo Bagnoli

Confessiamo che tra le tante analisi lette sulla vicenda politica italiana dalle elezioni in poi non abbiamo trovato nessun commento nel quale, al di là della disamina delle condizioni di questo o quel partito, non si sia posto attenzione alla qualità della crisi italiana, ovvero alla sua drammaticità. Il nostro sistema democratico è al limite del crollo e di ciò lo sciagurato governo Monti altro non è stato che un segnale premonitore. Le elezioni hanno prodotto tre minoranze tra cui un assai consistente partito antisistema "a prescindere", per usare un'espressione cara a Totò.
Delle tre minoranze, il Pd ha tragicamente dimostrato sul campo quanto da tempo veniamo sostenendo, ossia l'incapacità di essere un partito. Di ciò hanno fatto le spese per primo Bersani, assurdamente incistatosi in un tentativo senza bussola reale e, poi, Marini e Prodi tanto da aver perso, a sinistra, l'unico alleato che aveva – Sel di Vendola – e aver riposto al centro della scena Berlusconi, facendone di fatto l'arbitro determinante per ogni passaggio politico. Il Pd ha finito per accettare la proposta, da questi avanzata, di un governo di grandi intese; una scelta ingoiata a forza e che sarà motivo di ulteriori sorde ulcerazioni difficilmente guaribili da chiunque succederà a Bersani: non si tratta di uomini, ma di linee politiche che, appunto, non si vedono.
Le grandi intese si sono avverate nel Governo Letta; una compagine dal profilo grigio ed equivoco e, più che dell'emergenza, essa sembra, al di là delle persone che la compongono, alcune delle quali di sicuro valore, il gabinetto della resistenza del Sistema alla non-politica, la malattia da cui è investita la democrazia italiana.
Il nuovo parlamento, dopo una lunga vacanza di decantazione per vedere se poteva stare in piedi o aspettare che un nuovo capo dello Stato lo sciogliesse appena insediatosi, durante l'elezione del presidente ha dimostrato la propria impotenza rappresentando, per molti aspetti ingiustamente, un paniere castale asserragliato nell'incapacità di produrre scelte e, per di più, assediato da una piazza che Grillo ha invocato a ritrovarsi; fascista forse no – anche se le dichiarazioni sul 25 aprile ricordano molto Storace – ma sfascista certamente sì.
I parlamentari che senza colpa alcuna, se non quella di essere tali, preferiscono uscire dalle porte secondarie segnano già un'abdicazione alla loro funzione e a come si interpretano. Se poi si aggiunge che a qualcuno, come è toccato al neoministro Franceschini, ma non solo a lui, di essere oggetto di squadrismo verbale, la preoccupazione non può che salire per il clima di intolleranza antidemocratica che si sta creando e non tutto può essere ridotto ai grillini. Occorre non dare troppa importanza a certe chiassate.
In un quadro generale caratterizzato dallo smarrimento della ragione politica; con un parlamento depositario dell'impotenza delle forze politiche maggiori, si è chiesto a Napolitano, lo si è supplicato, di rimanere per evitare avventurose incognite e dare respiro, almeno un po', al sistema accettando la proposta di Berlusconi per un governo di grandi intese. Questo, nei fatti, permetterà il decorso della crisi democratica e la riorganizzazione della destra. Cioè la sua prossima vittoria, visto che Letta più di tanto non potrà durare. Forse non c'era altra scelta ed è fuori discussione la figura di Napolitano il quale ha dettato le sue condizioni e non poteva fare diversamente.
Il problema è un altro e non è stato rilevato da commentatore alcuno. Quando una democrazia constata che vi è solo una scelta possibile per non tracollare (vedi supplica a Napolitano) essa è già in parte già tracollata. Una delle caratteristiche del sistema democratico, infatti, è quella di poter annoverare più di una scelta possibile; quando questa si riduce a una allora il problema è serio, molto serio. Tale serietà vive oggi di tre partiti che, in effetti, partiti non sono: del Pd abbiamo detto, quello di Grillo si commenta da solo e per di più sostiene una "democrazia senza partiti" mentre il Pdl, che è una proprietà privata di Berlusconi, rappresenta una delle cause dell'aggravarsi della crisi italiana. A contorno una sinistra che non c'è – e non perché Vendola non sia di sinistra, ma in quanto non è che si può far conto sulla esclusività di Sel per dare il senso storico di cosa vuol dire "sinistra".
La rinascita è legata a quella di un socialismo autonomo e di sinistra, antagonista alla barbarie del capitalismo finanziario, concepito dentro la cultura politica occidentale e capace di essere un movimento che governa lo Stato e le masse
popolari.
Ma in Italia un po' tutto è anomalo, anche la Grosse Koalition lo è pur nell'interpretazione che ne ha dato Napolitano. Le grandi intese non sono scandalose in sé; in momenti particolari sono state fatte in molti altri Paesi democratici; la differenza è che in quei Paesi il motivo identitario democratico era saldo e proprio questo permetteva la transitoria anomalia considerandola un passaggio dentro la normalità. Così non è per l'Italia dal momento che il vuoto partitico – quello su cui, in linea generale, si è soffermato a lungo di recente Fabrizio Barca nel suo paper – ha portato con sé il vuoto identitario della democrazia repubblicana, oggi riempito esclusivamente da Giorgio Napolitano.
Non sappiamo cosa potranno produrre le grandi intese; auguriamoci una legge elettorale decente e costituzionale; sicuramente, finito il suo tempo che non sarà brevissimo, ma nemmeno molto lungo, si tornerà alle urne. E allora la questione della riforma costituzionale diventerà praticamente ineludibile e con l'aria di destra che tira, peraltro annunciata dal governo Monti, e a quanto ne è seguito, la Questione democratica diventerà prioritaria e richiederà grande, ma grande attenzione considerata la fragilità che oramai registra il tanto sbandierato "patriottismo costituzionale".
Il "patriottismo costituzionale" è un qualcosa di più complesso che non la semplice aderenza allo spirito e alla lettera della Costituzione. Il rischio è che si arrivi a un cambio del profilo costituzionale senza partiti, ossia senza i soggetti che sono titolari del "mandato politico" e, quindi, trasformando la democrazia repubblicana in qualcosa di altro; in uno Stato regolato da meno diritti e forme democratiche.