di Stefano Cappellini
«Da oggi inizia una nuova storia», ha detto Walter Veltroni. Che si riferisse al governo tecnico? Istituzionale? No, Veltroni parlava di uno stadio a Roma tutto per il rugby. Questa è l’unica dichiarazione epocale che il leader del Pd si è concesso ieri. Anche perché, per Veltroni, la storia che si apre dopo la caduta del governo Prodi non solo non appare nuova, ma rischia di rivelarsi un remake dei mesi trascorsi inutilmente a cercare una quadra sulla legge elettorale.
La prudenza di Veltroni in questo frangente nasconde varie paure: timore di uno scontro aperto con Prodi, di un precipizio elettorale che lo costringerebbe a una campagna in salita, lasciando il Campidoglio aperto alle scorrerie del centrodestra e buttandosi in una sfida senza rete. Il leader democratico ha seguito la diretta del voto di fiducia in Senato chiuso nel Lotf con il vicesegretario Dario Franceschini e il capogruppo alla Camera Antonello Soro. Un’immagine simbolo di ciò che Veltroni può fare in questa fase: stare a guardare.
Il sindaco di Roma è convinto che Prodi non miri a ottenere un reincarico, sebbene la vera novità del discorso del Professore ieri in Senato sia stata l’ammissione che il paese non può tornare alle urne senza la riforma della legge elettorale. Fino a ieri Prodi aveva sempre parlato di voto anticipato in caso di sua caduta, senza se e senza ma. Veltroni non gradirebbe certo questa soluzione, devastante in termini di immagine se fosse costretto alla corsa alla premiership in primavera. Nel Pd, però, non tutti la pensano come lui. D’altra parte, e non è problema da meno, il Pd è al momento un’etichetta dietro la quale ciascuna fazione porta avanti un progetto diverso. Massimo D’Alema, per esempio, non si sposta da Prodi: «Se è disponibile, il nostro candidato per un governo a tempo resta lui», ripete in queste ore il ministro degli Esteri. Conferma Nicola Latorre: «Il Pd è fortemente determinato a raccogliere le indicazioni del discorso di Prodi al Senato per proseguire sulla strada da lui indicata per il paese».
Veltroni non ci crede, ma non potrebbe certo opporsi a un eventuale Prodi bis. Può però auspicare, e con fondata speranza di essere soddisfatto, che sia il Colle a stoppare sul nascere l’operazione, anche sulla scia dell’irritazione per l’insistenza con cui il Prof ha cercato la conta in Senato. Ma un conto è tenere Prodi lontano da palazzo Chigi, un altro è immaginare un suo ritiro dalle cose della politica. Prodi avrà su Veltroni, da qui al giorno delle elezioni, un potere di interdizione fortissimo: difficilmente potrà dare corso alla minaccia di ricandidarsi, ma certo può cospargere di mine la road map veltroniana, fino al punto di ritirare la sua benedizione al Pd.
Non finisce qui. Veltroni ha avuto negli ultimi mesi due soli alleati: Fausto Bertinotti e Silvio Berlusconi. Il primo deve fare i conti con un partito in fibrillazione, che non è disposto a imbarcarsi in un esecutivo tecnico quale che sia.
Ieri il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena ragionava così sulle prossime mosse: «Mi pare difficile che tocchi a Prodi il reincarico, un po’ perché non sembrano volerlo né il Pd né il Quirinale e poi perché l’Udc ha già chiesto come condizione che non sia lui a guidare un esecutivo a tempo». E per Russo Spena - così come per il ministro Paolo Ferrero - l’Udc è l’unica sponda realistica per una soluzione istituzionale: «Vedo Marini premier, ma a quel punto io sono totalmente d’accordo con Casini: per la riforma si vota l’ultima bozza Bianco, modello tedesco».
Per Veltroni sdoganare questo scenario potrebbe essere una necessità, se vuole evitare le urne, ma significa anche stracciare i vecchi piani di riforma bipolare e acconciarsi a subire la vittoria della linea D’Alema-Rutelli. Perché in questo caso il Colle non è alleato, ma avversario dichiarato: Napolitano, che ha bocciato il modello presidenziale francese, ritiene il fronte “tedesco” l’unica base trasversale per una maggioranza istituzionale. Quanto a Berlusconi, seppur tentato da soluzioni di unità nazionale, per ora ha dettato ai suoi una linea chiara: cercare di arrivare al voto in primavera col governo Prodi in carica e sfiduciato. È vero che c’è una diplomazia forzista al lavoro per studiare sbocchi bipartisan, ma si tratta di mandati esplorativi.
Gianni Letta è al centro di numerose trame, e si è sentito più volte con Veltroni, ma anche con Rutelli. E Beppe Pisanu, altro canale aperto, non chiude la porta a un’intesa con Veltroni: «Se dal Pd arrivasse un’offerta seria, con un premier super partes e un’agenda chiara, ci ragioneremmo, ma non possiamo essere noi a togliere le castagne dal fuoco a Veltroni». Ma il segretario del Pd questa proposta non può avanzarla. Può sperare che lo faccia il Colle, dato che il nome di Mario Draghi è tra quelli in cima al taccuino di Napolitano sulla crisi. Ma l’incarico a Draghi significherebbe spostare in avanti l’orologio delle elezioni almeno fino al 2009. Ammesso che Berlusconi voglia accettare questo timing, Veltroni perderebbe Rifondazione («Noi un governo Draghi non possiamo sostenerlo», giura Russo Spena) e l’operazione diventerebbe altro, una Grossa coalizione che troverebbe proprio dentro il Pd - e probabilmente in Prodi - il primo grande ostacolo.
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