Riceviamo e volentieri pubblichiamo
La lezione di Rosarno
di Massimo Aquilante
Federazione delle chiese evangeliche in Italia
Sono almeno tre i problemi che la tristissima vicenda di Rosarno ha reso evidenti e che la classe politica, la società civile e quindi anche le diverse comunità cristiane dovrebbero riconosce come vere e proprie emergenze.
La prima è che in Italia il razzismo esiste ed ha la forma brutale e violenta di tutte le discriminazioni basate sul colore delle pelle, l'appartenenza etnica o l'identità religiosa. E, come un'onda che sale, idee, espressioni e linguaggi razzisti coprono le curve degli stadi, si infiltrano sulle pagine dei giornali, armano la mano di killer che vogliono la prova di forza per riaffermare il loro potere.
Il dovere evangelico della verità ci impone di riconoscere questa verità, che non ha senso minimizzare o relativizzare, consolandoci perché Rosarno non è come l'Alabama degli anni '50 o perché i cori contro Balottelli sono ben altra cosa dalle violenze della polizia sudafricana degli anni dell'apartheid. Il razzismo ha molte forme ma non è valutabile quantitavamente: quando si sfruttano gli immigrati per ottenere i finanziamenti europei per l'agricoltura, quando si tollerano ghetti inumani perché garantiscono manodopera a basso costo o quando si spara agli immigrati perché così imparano "a stare al loro posto", non si è "poco" o "tanto" razzisti a seconda del grado di violenza fisica o verbale dei propri gesti. Si è razzisti e basta.
Né basta ricordare l'ovvietà che a fronte di pochi razzisti, l'assoluta maggioranza degli italiani è composta da persone per bene e civili: persino nelle società organicamente razziste, vi erano e vi sono persone che hanno idee e sensibilità di segno opposto ma queste presenze non annullano né neutralizzano la pericolosità di chi discrimina e colpisce nel nome della supremazia di un colore, di una cultura o di una religione.
La seconda verità che emerge da Rosarno è che interi settori della nostra economia ormai dipendono dalla manodopera degli immigrati. Quest'anno le arance della piana di Gioia Tauro resteranno sugli alberi e se, oggi o domani, gli immigrati presenti in Italia dovessero scioperare milioni di noi resterebbero a casa a badare a nonni, genitori e figli, o troverebbero i propri uffici sporchi ed inaccessibili; interi distretti industriali si fermerebbero, milioni di capi di bestiame resterebbero inaccuditi. Insomma sarebbe la paralisi di un paese nel quale gli immigrati costituiscono oltre il 10% della "manodopera" complessiva.
Il dovere evangelico della giustizia ci impone di riconoscere questo dato di realtà e di ricavarne le necessarie conseguenze. Ciò che noi chiamiamo manodopera sono uomini e donne in carne ed ossa, lavoratori certo, ma anche persone con la loro umanità, le loro speranze, i loro sogni, i loro affetti. E come tutte le persone sono titolari di diritti umani fondamentali: la libertà, l'accesso allo studio, alle cure, la possibilità di cambiare lavoro o residenza. Persone che vivono nella nostra società e fanno oggettivamente parte della nostra comunità. Eppure nella comprensione comune di molti, troppi italiani sono semplicemente degli "extra", che vengono da fuori e minacciano l'uniformità di ciò che intendiamo come "nostro": tradizione, cultura e religione.
Per contrastare quest'idea settaria e ossessiva dell'identità nazionale, occorre un nuovo patto di cittadinanza, che riconosca anche agli immigrati diritti fondamentali e li vincoli ai doveri costituzionali. Un patto che per noi protestanti si incrocia con il patto che Dio ha stabilito con l'umanità, e che ci rende tutti uguali, liberi e responsabili.
Il terzo elemento di riflessione è che Rosarno non è un'isola lontana ed anomala ma rappresenta un tragico modello di gestione della presenza di lavoratori stranieri: l'immigrazione senza integrazione. Francia e Regno Unito, così come altri paesi europei, hanno vissuto prima dell'Italia questi problemi, lasciando che all'interno o nelle periferie delle grandi città nascessero ghetti disperati in cui si concentravano sfruttamento, povertà, violenze. Era l'altra città, distante ed opposta da quella ben frequentata, opulenta e ricca di opportunità.
L'Italia, arrivata dopo altri paesi a registrare alti tassi di immigrazione, farebbe ancora in tempo ad evitare errori e problemi riscontrati altrove. Per farlo, più che alle ronde o ai respingimenti, dovrebbe pensare all'integrazione, al presente ed al futuro degli oltre quattro milioni di immigrati regolarmente presenti in Italia. Dovrebbe pensare al sostegno per i bambini stranieri o figli di stranieri che arrivano nelle nostre scuole, a tutelare e garantire chi vive e lavora onestamente, a proteggere la speranza di chi è in Italia per migliorare la propria condizione di vita e quella della propria famiglia.
Vecchi e nuovi provvedimenti in materia di immigrazione vanno in ben altra direzione: non rafforzano i progetti migratori ma li rendono fragili e precari; impediscono la regolarizzazione ed allargano le schiere dei clandestini; sottraggono diritti e quindi indeboliscono i doveri.
Questo abbiamo detto a questo ed a altri governi, questo intendiamo ripetere nel corso di alcuni incontri che chiederemo ai politici di diverso orientamento.
Lo facciamo consapevoli dei nostri limiti ma anche forti dell'esperienza che stiamo vivendo in decine di comunità evangeliche insieme a un crescente numero di fratelli e sorelle immigrati che frequentano le nostre chiese. L'immigrazione ovviamente comporta dolori e problemi, ma in sé non è né un dolore né un problema: al contrario può determinare un'opportunità nuova, aprire nuove relazioni che arricchiscono e rafforzano, così come può spianare strade di convivenza e dialogo ancora inesplorate ed ignote.
Questo diremo nelle prossime settimane ai politici che accetteranno di incontrarci, e lo diremo da cristiani protestanti che predicano e testimoniano la speranza nel Regno che viene. Quella speranza cristiana che per noi non significa sollevarci dal mondo e guardare verso l'alto; ma che al contrario, con i piedi ben saldi per terra, ci impegna a volgere il nostro sguardo verso l'altro che ci viene incontro e si fa nostro prossimo. (NEV)