martedì 15 settembre 2015

Sbloccare la democrazia per far ripartire l’Italia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

  

L'Italicum e la controriforma costituzionale non tendono a sbloccare l'Italia, ma convergono verso un unico fine, quello di mettere le ganasce agli istituti repubblicani che garantiscono l'equilibrio dei poteri e la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. L'ARS aderisce all'iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale e invita tutti a sottoscrivere la petizione.

 

Una martellante campagna rilanciata dalla grande maggioranza degli strumenti di informazione vuole convincerci che per sbloccare l'Italia c'è bisogno delle "riforme" costituzionali e istituzionali propugnate dal governo Renzi. In realtà lo stravolgimento della Costituzione e del sistema elettorale, come della pubblica amministrazione e della scuola, non tendono a sbloccare l'Italia, ma convergono verso un unico fine, quello di "bloccare" la democrazia, mettere le ganasce agli istituti repubblicani che garantiscono l'equilibrio dei poteri e la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. E per questa via restaurare una nuova forma di governo oligarchico, svincolato dal rispetto dei beni pubblici che la Costituzione ha attribuito al popolo italiano.

    La riforma elettorale, combinata con la controriforma costituzionale, che elimina il Senato come organo eletto dai cittadini e rappresentativo della sovranità popolare, che sottrae alle Regioni il governo del territorio, realizza un modello inedito di "premierato assoluto", con un'inusitata concentrazione di potere nelle mani del Governo e del suo capo, attribuendo di fatto ad un unico partito — che potrebbe anche essere espressione di una ristretta minoranza di elettori — potere esecutivo e potere legislativo, condizionando, altresì, la nomina del Presidente della Repubblica, dei componenti della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, organismi di garanzia fondamentali per la vita della democrazia come l'ha costruita la Costituzione nata dalla Resistenza.

    La centralità del Parlamento, posta da madri e padri Costituenti a presidio delle libertà dei cittadini, viene rovesciata. La fiducia, dopo questo stravolgimento, in realtà non andrebbe più dal Parlamento al Governo, ma dal Capo del Governo (che di fatto nomina la maggioranza dei deputati) al Parlamento. Così il Senato diventerebbe un organo del tutto posticcio, senza una reale autonomia, mentre la Camera dei Deputati sarebbe soggetta, in forza di un enorme premio di maggioranza, all'egemonia di un partito unico, nel quadro di un drastico ridimensionamento della rappresentatività popolare.

    È necessario fermare questo processo per sbloccare la democrazia, restituendo potere alle cittadine ed ai cittadini e riconducendo l'esercizio dei poteri nell'ambito della legalità repubblicana, che non prevede sedi parlamentari che non siano elette direttamente dal corpo elettorale, mentre è del tutto possibile differenziare i ruoli delle due camere, pur elette da cittadine e cittadini. Non si può consentire a un Parlamento, la cui composizione è stata giudicata illegittima dalla Corte Costituzionale perché non rispecchia la volontà espressa dagli elettori, di modificare, a colpi di una risicata maggioranza, le regole che garantiscono i diritti politici di tutti i cittadini.

    Per questo è importante che la controriforma costituzionale venga ripensata -se non profondamente modificata- ora nel suo passaggio al Senato che si presenta decisivo; per di più la sua bocciatura renderebbe ingestibile il nuovo sistema elettorale, concepito per un sistema monocamerale, aprendo la strada ad un reale cambiamento.

    Chiediamo a tutte le cittadine ed i cittadini che hanno a cuore la Costituzione e la democrazia di far sentire alta la loro voce di dissenso ai membri del Senato, in ogni città, in ogni collegio elettorale, chiedendo un voto per far ripartire l'Italia sbloccando la democrazia, senza cedere al ricatto dello scioglimento delle Camere , decisione che non spetta al Capo del Governo.

 

ARS - Associazione per il rinnovamento della sinistra

 

Primi firmatari del'appello: Pietro Adami, Cesare Antetomaso, Gaetano Azzariti, Francesco Baicchi, Mauro Beschi, Felice Besostri, Francesco Bilancia, Sandra Bonsanti, Aldo Bozzi, Giuseppe Bozzi, Antonio Caputo, Lorenza Carlassare, Claudio De Fiores, Enzo Di Salvatore, Anna Falcone, Antonello Falomi, Stefano Fassina, Gianni Ferrara, Tommaso Fulfaro, Domenico Gallo, Alfiero Grandi, Raniero La Valle, Giovanni Palombarini, Pancho Pardi, Livio Pepino, Franco Russo, Antonia Sani, Massimo Villone, Vincenzo Vita

 

Per aderire: http://www.change.org/p/senato-della-repubblica-sbloccare-la-democrazia-per-far-ripartire-l-italia

 

 

 

 

Le idee - VENTO DEL NORD    

 

di Dario Allamano

Labouratorio Buozzi Torino

Gruppo di Volpedo – Rete Socialista

 

 

Era un atto di fiducia nelle popolazioni che per essere state più lungamente sotto la dominazione nazifascista, dovevano essere all'avanguardia nella riscossa. Era il riconoscimento delle virtù civiche del nostro popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica sia stata la compressione. Era anche un implicito omaggio alle forze organizzate del lavoro ed alla loro disciplina rivoluzionaria. Ed ecco il vento del Nord soffia sulla penisola, solleva i cuori, colloca l'Italia in una posizione di avanguardia. (Avanti! 27 aprile 1945)

 

"Vento del Nord" – Sono passati settant'anni da quando Nenni coniò questo termine per definire l'azione partigiana che come un vento impetuoso avrebbe spazzato via il fascismo. Da quel giorno in vento del Nord soffiò per quasi mezzo secolo e il nord liberato dalla guerra partigiana seppe essere guida e bussola per tutta l'Italia.

    Ad un certo punto però il vento cessò di soffiare dal nord, in particolare da quelle città che furono la guida della rivolta partigiana (Torino, Milano, Genova e non solo), e quel ruolo di avanguardia così ben descritto da Nenni terminò. Il vento girò da altri quadranti e quell'egemonia culturale e politica di un territorio cessò.

    Questa fine non fu necessariamente negativa, ma quella classe imprenditoriale, formatosi in molti casi nella guerra partigiana (un nome per tutti Mattei), perse il suo ruolo Dirigente e si acconciò a divenire un ceto assistito, senza coraggio e senza inventiva, elementi che avevano invece segnato l'avventura del cosiddetto "miracolo economico".

    La fine di quel vento ha portato l'Italia in una lunga bonaccia, e trent'anni fa la barca si è fermata, forse irreversibilmente.

    Il nord vocato a un progresso innovatore ne sta oggi subendo gli effetti politici e le ultime elezioni l'hanno certificato con nettezza, ormai solo il Piemonte ed il Friuli reggono l'urto della marea montante populista. Anche l'ultimo baluardo veneto, Venezia, è caduto e non è un bel segno per il futuro del centro sinistra, le stesse mitiche regioni rosse ormai sono in rotta. La paura ormai prevale sulla speranza.

    Da quando data questa crisi? Nasce forse in un momento ormai lontano, non è una questione di vil moneta (l'introduzione dell'euro), è una crisi che affonda le sue radici nei lontani anni ottanta, o forse anche prima, allorché si posero le basi per la delocalizzazione delle Grandi Industrie del nord, nella convinzione che fosse sufficiente spostarle in zone in cui la mano d'opera era meno sindacalizzata (prima il nord est e poi il sud dell'Italia) e pertanto più facilmente governabile, oppure nella convinzione che bastasse spostare le grandi raffinerie e industrie chimiche più vicino ai pozzi del petrolio.

    Ci si stava avvicinando purtroppo alla fine di un mondo, quello nato dopo la seconda guerra, basato sui grandi consumi di massa, e ci si stava avviando verso un mondo diverso, globalizzato, e i paradigmi che avevano sostenuto le prime delocalizzazioni si rivelarono ben presto fasulli, i costi della mano d'opera erano infinitamente più bassi nell'est Europa (per non parlare dell'Oriente) e gli sceicchi iniziavano a creare poli petrolchimici vicinissimi ai pozzi del petrolio.

    Nel frattempo l'Italia iniziava a perdere la prima grande rivoluzione industriale, quella informatica, l'Olivetti, che ad inizio degli anni 80 produceva il miglior personal computer del mondo (l'M20), passava in mano a industriali perlomeno disinvolti, che all'inizio la utilizzarono per le loro guerre belghe e poi per avere la concessione dei telefonini ad Omnitel, ma solo per rivenderla quanto prima alla Vodafone, senza avere la sensibilità industriale per comprendere che l'evoluzione  della rivoluzione informatica sarebbe stata  telefono più computer.

    Nello stesso tempo la Telecom indeboliva il centro ricerche di Torino (CSELT), che, grazie ad un suo ricercatore (Chiariglione), inventò il sistema MP3, seguita a corta incollatura dalla RAI che ridimensionava il suo centro ricerche di Corso Giambone.

    Nello stesso periodo (fine anni 70) la FIAT si ritirava dallo sviluppo del TOTEM (acronimo di Total Energy Module) il primo tentativo di avviare un sistema per il risparmio energetico, lasciando spazio per la costruzione nel sistema energetico di un oligopolio in mano ai soliti noti, con una nuova sconfitta nella seconda battaglia economica: quella delle energie alternative.

    Infine, dopo aver sostenuto negli anni ottanta un promettente settore del trattamento dei rifiuti più pericolosi (quelli industriali) con recupero d'energia abbandonò il settore in mano ad organizzazioni mafiose, per dedicarsi, sull'onda delle azioni pseudo ecologiste, ad ipotesi scarsamente redditizie. Il compost ne è la dimostrazione, a tutt'oggi gli impianti funzionano poco, male, costano molto e producono un materiale scarsamente utilizzabile.

    Milano ed il nord Piemonte perdevano nello stesso tempo l'industria farmaceutica, la chimica fine ed il tessile.

    Tutte le rivoluzioni economiche degli anni novanta hanno visto l'Italia (ed il nord in particolare) al di fuori dei giochi.

    Questi sono alcuni esempi che denotano l'assoluta insipienza delle classi dirigenti locali, in particolare del Piemonte, che non seppero (o peggio non vollero) difendere le proprie eccellenze industriali, lanciandosi in ipotetiche nuove vie di sviluppo.

    Nonostante tutto però ancora oggi il Nord ha ancora potenzialità notevoli, i due Politecnici e le Università sono autentiche fucine di ricercatori in grado di produrre brevetti di assoluto valore mondiale, il limite che si frappone all'industrializzazione di questi brevetti è la mancanza di finanziatori che abbiano il coraggio e la lungimiranza per investire in settori innovativi.

    Ormai la classe industriale del nord si è ritirata dall'attività, preferendo le congrue rendite finanziarie prodotte dai capitali incassati dalla vendita delle loro aziende, l'esempio più recente è Tronchetti Provera che nella scorsa primavera ha venduto la Pirelli ai cinesi, con un unico impegno: tenerla in Italia per cinque anni.

    Tornerà mai a spirare il vento del nord? Personalmente ne dubito, spero di sbagliarmi ma la situazione è tragica e purtroppo l'Italia (ancora seconda potenza industriale europea) senza grandi industrie innovative è destinata ad una silenziosa e continua decadenza, occorre forse saper rivitalizzare, per dirla con Nenni, le virtù civiche del popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica è stata la compressione.

    Può essere il compito di noi vecchi socialisti per i prossimi anni, lavorare per riportare la gente a superare la sudditanza ai poteri forti per tornare ad essere attori della propria rinascita.