di Felice Besostri
Una revisione costituzionale ampia, come quella di cui si discute, fatta da un Parlamento, la cui composizione è stata dichiarata incostituzionale, avrebbe dovuto richiedere un confronto ampio per trovare un consenso almeno superiore ai 2/3. Non per evitare il referendum confermativo, poiché una delle norme da cambiare era proprio quella che lo escludeva in presenza di questo quorum. Il Patto del Nazareno non bastava. In ogni caso è nella discussione pubblica che si assumono gli impegni e non in segrete stanze senza un testo scritto da mostrare urbi et orbi.
Ora i nodi stanno giungendo al pettine e chi vuole la riforma ad ogni costo non può, per ragioni di dignità politica propria, contare su profughi o transfughi allo scopo di ottenere una risicata maggioranza. L'accordo sul superamento del bicameralismo paritario è vasto e quindi la "revisione", non chiamiamola riforma per rispetto di questa parola, avrebbe potuto procedere spedita.
Sulla linearità e trasparenza del processo di revisione costituzionale e della parallela nuova legge elettorale avrebbero dovuto vigilare il Presidente della Repubblica e la Presidenza delle due Camere. Così non è stato. Anzi si sono commessi strappi regolamentari che configurano in quest'ambito un modo di procedere, comunque, politicamente sbagliato.
Ora siamo in zona Cesarini e le posizioni appaiono chiare, nel senso che le decisioni sono politiche e non di natura regolamentare. Ciò si dà grazie anche a un illustre precedente, relativo ad una norma costituzionale delicata come l'art. 68; questo precedente risale al 1993 quando la Camera era presieduta da Giorgio Napolitano e il Senato da Giovanni Spadolini.
Nel quadro attuale alcuni problemi appaiono difficili, ma non impossibili da eliminare come lo squilibrio numerico tra Camera e Senato (630 vs 100), che non sarebbe ovviato neppure con un'elezione diretta della seconda Camera. Quello che non va è l'ambiguità senza precedenti della natura del Senato, inammissibile in un paese che storicamente proprio in un Senato, quello romano, ha avuto un organo collegiale di esercizio e controllo del potere.
Così come configurato, il Senato non è l'espressione tipica degli Stati federali, né nella forma dell'elezione diretta in numero uguale da parte della popolazione dei soggetti federati (Stati Uniti, Confederazione Elvetica), né di rappresentanza degli esecutivi dei soggetti federati (Bundesrat tedesco), men che meno un corpo legislativo rappresentativo del sistema delle autonomie (Senato francese). Il Senato francese è eletto indirettamente da una platea vasta di amministratori locali, dipartimentali e regionali, nonché dai deputati: 150.000 grandi elettori e non un migliaio di consiglieri regionali che si nominano tra di loro in un collegio ristretto. Altra caratteristica del Senato francese è che i 321 senatori sono eletti per 6 anni, mentre i 577 deputati per cinque. Un organo stabile e quindi autorevole e non l'albergo a ore del futuro Senato italiano. Altra anomalia: per il nostro art. 114 Cost. sono parti costitutive della Repubblica, oltre che lo Stato, i comuni, le provincie, le città metropolitane e le Regioni, quest'ultime senza essere gerarchicamente sovraordinate alle altre. Non si comprende per quale ragione i consiglieri regionali debbano scegliere i sindaci e non quest'ultimi i consiglieri regionali da mandare in Senato; i sindaci sono sicuramente più rappresentativi.
Nell'ottica di un Senato delle autonomie, nessuno è stato in grado di spiegare per quale ragione gli unici soggetti esclusi a priori saranno i sindaci metropolitani che si facessero eleggere direttamente dai cittadini. Non è un caso che nell'ultima tornata amministrativa dei consiglieri regionali si siano fatti eleggere sindaci di comuni sotto i 5.000 e perciò compatibili. Il primo cittadino di Milano non potrebbe andare in Senato nemmeno un giorno alla settimana, diversamente da quello di un comune minore. Tuttavia questi sindaci di comuni minori non potrebbero assumere funzioni di rilievo in Senato, inibiti da una norma che demanda al futuro Regolamento di stabilire incompatibilità con incarichi esecutivi di Comuni e Regioni.
Ci si dimentica inoltre, che i consiglieri regionali sono e saranno eletti con leggi maggioritarie con premi di maggioranza che variano da un 55% ad un 61% e con soglie di acceso che raggiungono anche il 10%. Non rappresentano quindi la popolazione della loro regione né i Governi regionali, perché tra i Senatori hanno diritto di entrare, non è chiaro se in proporzione ai voti o ai seggi, anche consiglieri di minoranza. Conseguenza prevedibile: in tale contesto non potrà essere abolita la Conferenza Stato- Regioni.
Quindi, prima di pasticciare l'elezione del futuro Senato occorre chiarirsi sulla natura e funzione della seconda Camera.
La proposta di un listino di consiglieri da far votate dagli elettori, anche se non bloccato, non è una mediazione seria: una pezza (tacòn) peggio del buso.
Comunque, va colto un elemento positivo: la generale presa di coscienza che il ddl costituzionale va cambiato.