martedì 29 settembre 2015

Un colpo alla Costituzione che sveglia la democrazia

IPSE DIXIT 

Come nel 1914 - «Un conflitto tra Giapponesi e Cina per un isola. Oppure l'incontro di truppe Nato e truppe russe in Lettonia o in Polonia. O tra truppe americane e russe in Siria. O il fatto che l'IS si doti di armi sofisticate. E poiché sono tutte cose possibili, la probabilità che se ne verifichi una è molto alta.». – Jacques Attali

 

 

Giappone - di Yukari Saito / Centro di documentazione “Semi sotto la neve”

 

“Arrivederci a presto” dicono i cittadini alla Carta. Così a caldo, dopo l’approvazione del pacchetto sulla sicurezza che attenta al carattere pacifista della nostra Costituzione giapponese, mi sento solo di dire due cose che credo siano importanti.

 

    1) A dire il vero, almeno da 14 mesi mi ero psicologicamente preparata al peggio (benché continuassi a sperare in qualche svolta, per es. in un ripensamento del Komeiito – Sokagakkai) e mi immaginavo profondamente disperata e delusa per questo “lutto”. Invece, è successo, stranamente, un esatto contrario: oggi, ho più speranza e fiducia nella democrazia e nella società giapponese di quanto ne avessi 14 mesi fa. Perché?

    Per due motivi.

    Il primo: i metodi cosi meschini (inganni, minacce e una spudorata mancanza di rispetto alle regole) adottati dal governo e i dibattiti parlamentari negli ultimi mesi (da cui Abe & Co escono veramente miseri smascherati dalla loro falsità e ignoranza) dimostrano chiaramente da che parte stia la ragione. In altre parole, senza ricorrere a questi mezzi e  ragionamenti fascisti e dittatoriali, non ci sarebbero riusciti. Questo sembra molto più chiaro oggi a tanti cittadini e anche ai parlamentari rispetto a diversi mesi fa.

    E’ stato quindi utile, direi quasi salutare, per la nostra democrazia.

    Poi, credo che le cose intrinsecamente contro natura – come questo attentato alla Costituzione – non durino a lungo.

    Il secondo motivo: mi sono resa conto solo negli ultimi due anni quanto io sia profondamente legata alla Costituzione giapponese, non credo di esagerare nel dire di averla “in ogni cellula del mio essere”. E mi sembra di capire che il mio caso non sia cosi isolato. Come succede sempre, quando sei davanti al rischio di perdere qualcosa ti rendi conto di quanto essa sia importante per te.

    E ho l’impressione che attraverso le ultime esperienze non sia solo il nostro amore per la Carta a uscire rafforzato ma anche la nostra consapevolezza, la nostra coscienza della democrazia. Molti, soprattutto giovani, hanno capito che la democrazia è una cosa tosta, molto impegnativa ma molto preziosa, probabilmente più di quanto avevano sperimentato le generazioni precedenti. I movimenti popolari in passato erano più o meno organizzati e la maggioranza si muoveva seguendo l’ordine di qualcuno o ripetendo gli slogan pensati da qualcuno, mentre oggi, i giovani si esprimono ognuno con le  sue parole, si sforzano a pensare con la propria testa. Ho notato questo attitudine anche in una parte dei parlamentari dell’opposizione.

    Sento perciò che oggi è il primo giorno di vita del nuovo germe della democrazia, questa volta veramente nostra, non più regalata, ma conquistata con le nostre mani.

    Un altra nota personale: ho vissuto finora una specie di complesso di inferiorità nei confronti dei sudcoreani e dei taiwanesi che hanno una storia molto dura di battaglie per la democrazia. Ma, credo che ora anche i giapponesi si trovino finalmente sulla strada “giusta”.

 

    2) Un’altra cosa che volevo dire riguarda specificamente noi giapponesi residenti all’estero.

    Si tratta del serio rischio a cui la nuova posizione del Giappone (anche se tutto resta ancora da vedere se non venga annullata dalla Giustizia) ci espone, soprattutto nei paesi “instabili” come l’Afghanistan, l’Iraq ecc. dove ci sono i miei connazionali che (con o senza un’ONG) lavorano da anni per il bene della popolazione locale. La nostra cittadinanza era per noi una grande garanzia, cioè, come paese neutrale, “disarmato” godere della fiducia di tutti.

    Invece, da domani le cose cambieranno, rischiamo di diventare “tutti americani”!!

    Perciò credo (e non sono l’unica) che abbiamo doppiamente il diritto di indignarci e di ripudiare il governo Abe, a prescindere dalle nostre opinioni politiche.

 

martedì 15 settembre 2015

Sbloccare la democrazia per far ripartire l’Italia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

  

L'Italicum e la controriforma costituzionale non tendono a sbloccare l'Italia, ma convergono verso un unico fine, quello di mettere le ganasce agli istituti repubblicani che garantiscono l'equilibrio dei poteri e la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. L'ARS aderisce all'iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale e invita tutti a sottoscrivere la petizione.

 

Una martellante campagna rilanciata dalla grande maggioranza degli strumenti di informazione vuole convincerci che per sbloccare l'Italia c'è bisogno delle "riforme" costituzionali e istituzionali propugnate dal governo Renzi. In realtà lo stravolgimento della Costituzione e del sistema elettorale, come della pubblica amministrazione e della scuola, non tendono a sbloccare l'Italia, ma convergono verso un unico fine, quello di "bloccare" la democrazia, mettere le ganasce agli istituti repubblicani che garantiscono l'equilibrio dei poteri e la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. E per questa via restaurare una nuova forma di governo oligarchico, svincolato dal rispetto dei beni pubblici che la Costituzione ha attribuito al popolo italiano.

    La riforma elettorale, combinata con la controriforma costituzionale, che elimina il Senato come organo eletto dai cittadini e rappresentativo della sovranità popolare, che sottrae alle Regioni il governo del territorio, realizza un modello inedito di "premierato assoluto", con un'inusitata concentrazione di potere nelle mani del Governo e del suo capo, attribuendo di fatto ad un unico partito — che potrebbe anche essere espressione di una ristretta minoranza di elettori — potere esecutivo e potere legislativo, condizionando, altresì, la nomina del Presidente della Repubblica, dei componenti della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, organismi di garanzia fondamentali per la vita della democrazia come l'ha costruita la Costituzione nata dalla Resistenza.

    La centralità del Parlamento, posta da madri e padri Costituenti a presidio delle libertà dei cittadini, viene rovesciata. La fiducia, dopo questo stravolgimento, in realtà non andrebbe più dal Parlamento al Governo, ma dal Capo del Governo (che di fatto nomina la maggioranza dei deputati) al Parlamento. Così il Senato diventerebbe un organo del tutto posticcio, senza una reale autonomia, mentre la Camera dei Deputati sarebbe soggetta, in forza di un enorme premio di maggioranza, all'egemonia di un partito unico, nel quadro di un drastico ridimensionamento della rappresentatività popolare.

    È necessario fermare questo processo per sbloccare la democrazia, restituendo potere alle cittadine ed ai cittadini e riconducendo l'esercizio dei poteri nell'ambito della legalità repubblicana, che non prevede sedi parlamentari che non siano elette direttamente dal corpo elettorale, mentre è del tutto possibile differenziare i ruoli delle due camere, pur elette da cittadine e cittadini. Non si può consentire a un Parlamento, la cui composizione è stata giudicata illegittima dalla Corte Costituzionale perché non rispecchia la volontà espressa dagli elettori, di modificare, a colpi di una risicata maggioranza, le regole che garantiscono i diritti politici di tutti i cittadini.

    Per questo è importante che la controriforma costituzionale venga ripensata -se non profondamente modificata- ora nel suo passaggio al Senato che si presenta decisivo; per di più la sua bocciatura renderebbe ingestibile il nuovo sistema elettorale, concepito per un sistema monocamerale, aprendo la strada ad un reale cambiamento.

    Chiediamo a tutte le cittadine ed i cittadini che hanno a cuore la Costituzione e la democrazia di far sentire alta la loro voce di dissenso ai membri del Senato, in ogni città, in ogni collegio elettorale, chiedendo un voto per far ripartire l'Italia sbloccando la democrazia, senza cedere al ricatto dello scioglimento delle Camere , decisione che non spetta al Capo del Governo.

 

ARS - Associazione per il rinnovamento della sinistra

 

Primi firmatari del'appello: Pietro Adami, Cesare Antetomaso, Gaetano Azzariti, Francesco Baicchi, Mauro Beschi, Felice Besostri, Francesco Bilancia, Sandra Bonsanti, Aldo Bozzi, Giuseppe Bozzi, Antonio Caputo, Lorenza Carlassare, Claudio De Fiores, Enzo Di Salvatore, Anna Falcone, Antonello Falomi, Stefano Fassina, Gianni Ferrara, Tommaso Fulfaro, Domenico Gallo, Alfiero Grandi, Raniero La Valle, Giovanni Palombarini, Pancho Pardi, Livio Pepino, Franco Russo, Antonia Sani, Massimo Villone, Vincenzo Vita

 

Per aderire: http://www.change.org/p/senato-della-repubblica-sbloccare-la-democrazia-per-far-ripartire-l-italia

 

 

 

 

Le idee - VENTO DEL NORD    

 

di Dario Allamano

Labouratorio Buozzi Torino

Gruppo di Volpedo – Rete Socialista

 

 

Era un atto di fiducia nelle popolazioni che per essere state più lungamente sotto la dominazione nazifascista, dovevano essere all'avanguardia nella riscossa. Era il riconoscimento delle virtù civiche del nostro popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica sia stata la compressione. Era anche un implicito omaggio alle forze organizzate del lavoro ed alla loro disciplina rivoluzionaria. Ed ecco il vento del Nord soffia sulla penisola, solleva i cuori, colloca l'Italia in una posizione di avanguardia. (Avanti! 27 aprile 1945)

 

"Vento del Nord" – Sono passati settant'anni da quando Nenni coniò questo termine per definire l'azione partigiana che come un vento impetuoso avrebbe spazzato via il fascismo. Da quel giorno in vento del Nord soffiò per quasi mezzo secolo e il nord liberato dalla guerra partigiana seppe essere guida e bussola per tutta l'Italia.

    Ad un certo punto però il vento cessò di soffiare dal nord, in particolare da quelle città che furono la guida della rivolta partigiana (Torino, Milano, Genova e non solo), e quel ruolo di avanguardia così ben descritto da Nenni terminò. Il vento girò da altri quadranti e quell'egemonia culturale e politica di un territorio cessò.

    Questa fine non fu necessariamente negativa, ma quella classe imprenditoriale, formatosi in molti casi nella guerra partigiana (un nome per tutti Mattei), perse il suo ruolo Dirigente e si acconciò a divenire un ceto assistito, senza coraggio e senza inventiva, elementi che avevano invece segnato l'avventura del cosiddetto "miracolo economico".

    La fine di quel vento ha portato l'Italia in una lunga bonaccia, e trent'anni fa la barca si è fermata, forse irreversibilmente.

    Il nord vocato a un progresso innovatore ne sta oggi subendo gli effetti politici e le ultime elezioni l'hanno certificato con nettezza, ormai solo il Piemonte ed il Friuli reggono l'urto della marea montante populista. Anche l'ultimo baluardo veneto, Venezia, è caduto e non è un bel segno per il futuro del centro sinistra, le stesse mitiche regioni rosse ormai sono in rotta. La paura ormai prevale sulla speranza.

    Da quando data questa crisi? Nasce forse in un momento ormai lontano, non è una questione di vil moneta (l'introduzione dell'euro), è una crisi che affonda le sue radici nei lontani anni ottanta, o forse anche prima, allorché si posero le basi per la delocalizzazione delle Grandi Industrie del nord, nella convinzione che fosse sufficiente spostarle in zone in cui la mano d'opera era meno sindacalizzata (prima il nord est e poi il sud dell'Italia) e pertanto più facilmente governabile, oppure nella convinzione che bastasse spostare le grandi raffinerie e industrie chimiche più vicino ai pozzi del petrolio.

    Ci si stava avvicinando purtroppo alla fine di un mondo, quello nato dopo la seconda guerra, basato sui grandi consumi di massa, e ci si stava avviando verso un mondo diverso, globalizzato, e i paradigmi che avevano sostenuto le prime delocalizzazioni si rivelarono ben presto fasulli, i costi della mano d'opera erano infinitamente più bassi nell'est Europa (per non parlare dell'Oriente) e gli sceicchi iniziavano a creare poli petrolchimici vicinissimi ai pozzi del petrolio.

    Nel frattempo l'Italia iniziava a perdere la prima grande rivoluzione industriale, quella informatica, l'Olivetti, che ad inizio degli anni 80 produceva il miglior personal computer del mondo (l'M20), passava in mano a industriali perlomeno disinvolti, che all'inizio la utilizzarono per le loro guerre belghe e poi per avere la concessione dei telefonini ad Omnitel, ma solo per rivenderla quanto prima alla Vodafone, senza avere la sensibilità industriale per comprendere che l'evoluzione  della rivoluzione informatica sarebbe stata  telefono più computer.

    Nello stesso tempo la Telecom indeboliva il centro ricerche di Torino (CSELT), che, grazie ad un suo ricercatore (Chiariglione), inventò il sistema MP3, seguita a corta incollatura dalla RAI che ridimensionava il suo centro ricerche di Corso Giambone.

    Nello stesso periodo (fine anni 70) la FIAT si ritirava dallo sviluppo del TOTEM (acronimo di Total Energy Module) il primo tentativo di avviare un sistema per il risparmio energetico, lasciando spazio per la costruzione nel sistema energetico di un oligopolio in mano ai soliti noti, con una nuova sconfitta nella seconda battaglia economica: quella delle energie alternative.

    Infine, dopo aver sostenuto negli anni ottanta un promettente settore del trattamento dei rifiuti più pericolosi (quelli industriali) con recupero d'energia abbandonò il settore in mano ad organizzazioni mafiose, per dedicarsi, sull'onda delle azioni pseudo ecologiste, ad ipotesi scarsamente redditizie. Il compost ne è la dimostrazione, a tutt'oggi gli impianti funzionano poco, male, costano molto e producono un materiale scarsamente utilizzabile.

    Milano ed il nord Piemonte perdevano nello stesso tempo l'industria farmaceutica, la chimica fine ed il tessile.

    Tutte le rivoluzioni economiche degli anni novanta hanno visto l'Italia (ed il nord in particolare) al di fuori dei giochi.

    Questi sono alcuni esempi che denotano l'assoluta insipienza delle classi dirigenti locali, in particolare del Piemonte, che non seppero (o peggio non vollero) difendere le proprie eccellenze industriali, lanciandosi in ipotetiche nuove vie di sviluppo.

    Nonostante tutto però ancora oggi il Nord ha ancora potenzialità notevoli, i due Politecnici e le Università sono autentiche fucine di ricercatori in grado di produrre brevetti di assoluto valore mondiale, il limite che si frappone all'industrializzazione di questi brevetti è la mancanza di finanziatori che abbiano il coraggio e la lungimiranza per investire in settori innovativi.

    Ormai la classe industriale del nord si è ritirata dall'attività, preferendo le congrue rendite finanziarie prodotte dai capitali incassati dalla vendita delle loro aziende, l'esempio più recente è Tronchetti Provera che nella scorsa primavera ha venduto la Pirelli ai cinesi, con un unico impegno: tenerla in Italia per cinque anni.

    Tornerà mai a spirare il vento del nord? Personalmente ne dubito, spero di sbagliarmi ma la situazione è tragica e purtroppo l'Italia (ancora seconda potenza industriale europea) senza grandi industrie innovative è destinata ad una silenziosa e continua decadenza, occorre forse saper rivitalizzare, per dirla con Nenni, le virtù civiche del popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica è stata la compressione.

    Può essere il compito di noi vecchi socialisti per i prossimi anni, lavorare per riportare la gente a superare la sudditanza ai poteri forti per tornare ad essere attori della propria rinascita.

Cameron ondivago sui profughi, ma la sinistra dov’è?

Da l'Unità online

http://unita.info/

  

Il Partito Laburista, aggrovigliato nella gestione delle primarie, è occupato più nella lotta interna che a contrastare le politiche fallimentari sull'immigrazione

 

di Alexander Marchi

 

La reazione dei media e della popolazione britannica di fronte alla foto del bambino siriano morto sulla spiaggia ha costretto il premier David Cameron ad una vera e propria retromarcia. Ma nonostante la pressione constante degli ultimi giorni, il governo ha annunciato che raccoglierà solo 20mila profughi nel corso dei prossimi 5 anni. Il confronto con un altro governo europeo a maggioranza conservatrice come la Germania di Angela Merkel, dove è stato ipotizzato l'arrivo di circa 500 mila profughi all'anno, fa un certo effetto e crea imbarazzo.

    Il Regno Unito, insieme ai paesi dell'est Europa, fino ad oggi hanno mostrato resistenza ad accettare un maggiore numero di profughi. Cameron stesso teme l'ala della destra del suo partito, già impegnata a condizionarlo in vista del prossimo referendum sulla permanenza nell'UE. Poi c'è la forza nei sondaggi del partito di destra e anti-europea UKIP. Bene invece ha fatto il nostro Presidente del consiglio Matteo Renzi, sempre più leader in Europa, a dire che non importa perdere qualche punto nei sondaggi se invece con la politica di accoglienza si riesce a salvare vite umani dalle guerre. La Merkel l'ha capito, Hollande pure.

    Nel Regno Unito, invece, il governo solo qualche mese fa ha proposto di riformare la legge sull'immigrazione, che nelle parole di Cameron farebbe di tutto "per creare una vita difficile per chi volesse venire a lavorare nel nostro paese". Una posizione che va contro la storia di accoglienza che da sempre la Gran Bretagna incarna grazie anche al rapporto con gli stati e con i popoli che una volta facevano parte del suo impero.

    In tutto questo dov'è la sinistra? Il Partito Laburista, aggrovigliato nella gestione delle primarie, è occupato più nella lotta interna che a contrastare le politiche fallimentari sull'immigrazione. Tocca invece al green party ed alla Scozia, col suo governo guidato da Nicola Sturgeon del SNP, dare un esempio di una sinistra consapevole e responsabile di fronte ad una situazione così drammatica come non si vede nel continente dalla seconda guerra mondiale.

    La Scozia accoglierà subito mille profughi ed a seguire molti altri, senza mettere un tetto massimo per gli arrivi. Accoglienza si ma anche una forte richiesta di leadership sia da parte del governo Cameron indifferente sia da un'Europa debole e divisa. In tutto questo l'Italia e il Partito Democratico possono e devono fare la loro parte per contrastare chi rifiuta una nuova politica di accoglienza e chi come Cameron insegue facili populismi.

 

Vai al sito dell'Unità

 

Una verità scomoda - Non è vero che non potremmo accogliere più profughi

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

  

di Edoardo Crisafulli

 

Mia nonna paterna, Edwige Schwartze, mi raccontava spesso la storia della nostra famiglia: “quand’ero bambina vivevamo in pace in Transilvania, la nostra Siebenbürgen, nel cuore dell’Impero austro-ungarico. Eravamo di lingua e cultura tedesca, ma ci sentivamo ungheresi. Eravamo felici e sereni. Poi deflagrò quell’orribile guerra, nel 1914. Pochi anni dopo, con la sconfitta degli Imperi centrali, il nostro mondo crollò. Iniziarono i disordini, e si cominciò a patire la fame, a noi sconosciuta fino ad allora. La Transilvania venne ceduta alla Romania, che aveva combattuto contro l’Impero austro-ungarico. L’Ungheria precipitò nel caos, sembrava che stesse per scoppiare una rivoluzione. Il  bolscevico Bela Kuhn andò al potere, e proclamò la Repubblica sovietica ungherese. Lì iniziò il nostro calvario. Eravamo benestanti e perdemmo tutto, dalla mattina alla sera. Vivevamo nel terrore. Tuo bisnonno Emil fu imprigionato e obbligato ai lavori forzati dai comunisti ungheresi. Era un borghese, un proprietario terriero, e andava punito in maniera esemplare. Sottoposto a crudeli privazioni, si ammalò gravemente. Intanto cominciava un’altra guerra, questa volta tra Ungheria, Cecosolovacchia e Romania:  Bela Kun, nel 1919, occupò parte della Slovacchia e tentò di riprendersi la Transilvania. Ma non ci riuscì. Senza più proprietà e reddito, ora eravamo anche apolidi, senza patria. In fondo, continuavamo a sentirci ungheresi di etnia tedesca. Ma l’Ungheria era in mano ai bolscevichi. E la Transilvania era rumena. Decidemmo di fuggire da una terra che la nostra gente abitava da secoli. Portammo via con noi poche cose, stipate su un carretto: qualche mobiletto, qualche ricordo, gli abiti, l’argenteria. Iniziò così un lungo e terrificante viaggio: il papà era ammalato e la mamma doveva occuparsi di 6 figli – il più piccolo aveva tre anni, il più grande dodici. Iniziarono le peregrinazioni nei balcani, nei territori  di un Impero in disfacimento, dove emergevano gli odi interetnici a lungo repressi. Subimmo soprusi e crudeltà da parte di tutti: dai rumeni (in quanto ungheresi), dai serbi (in quanto ‘austriaci’), dai croati (in quanto protestanti). Finché non arrivammo ad Abbazia, che era da poco passata all’Italia. La conoscevamo bene perché era una importante meta turistica come lo è Riccione oggi.

 

    Ci sistemiamo in una pensioncina e non sappiamo più a che santo votarci. I nostri soldi sono carta straccia. L’argenteria l’abbiamo già venduta. Papà si aggrava. Mamma ha i nervi a pezzi. I carabinieri italiani ci hanno appena controllato i nostri documenti.  Abbiamo il batticuore: ci maltratteranno anche loro? Ci cacceranno via anche loro? Capiamo poco di quel che ci dicono. Ci paiono così strani, con quelle divise buffe e quell’aria così poco marziale. Guardano i bambini e confabulano fra di loro. Noi ci stringiamo tutti assieme. Se ne vanno. Dopo una mezz’oretta si sente bussare alla porta. I carabinieri sono tornati. Mamma ha un tonfo al cuore. Apre la porta, tenendo la mia sorellina Ruth in braccio.  I carabinieri gesticolano indicando dei contenitori di latta che hanno con sé. È il latte per i bambini, dicono. Noi scoppiamo a piangere. È la prima volta che veniamo trattati con umanità. Poco dopo papà ha una crisi, e viene ricoverato in ospedale. Sul letto di morte dice a mamma: ‘lasciate perdere l’Austria. Rifugiatevi in Italia. Sono certo che vi troverete bene. Gli italiani sono un popolo che ha cuore.”

    Se non fosse stato per quell’episodio di generosità io probabilmente non sarei mai nato. La mia famiglia ungaro-tedesca sarebbe finita a Vienna, com’era nelle intenzioni iniziali. Mia nonna invece si stabilì in Italia con tutta la famiglia e sposò un siciliano, così nacque mio padre. La scelta non fu facile: all’epoca una ragazza ungaro-tedesca, per giunta protestante, agli occhi di un siciliano appariva esotica quanto una cinese o una afgana oggi. Mia nonna è rimasta una profuga nell’animo per tutta la vita. Non ha mai voluto possedere una casa. Non ha mai smesso di rimpiangere la sua amata Transilvania. Il dramma dei profughi lo devi toccare con mano, per capirlo. Io l’ho vissuto attraverso le narrazioni sofferte di mia nonna.

    In questi mesi ho letto cose sui profughi da far rabbrividire. ‘Sono pericolosi. Ci portano malattie infettive’; ‘sono bugiardi, non scappano da guerre: vengono da noi per farsi mantenere’; ‘si lamentano e poi hanno tutti il telefonino’; ‘fra loro pullulano i criminali e i terroristi’. È  questo, mi chiedo, lo stesso popolo che accolse la famiglia di mia nonna negli anni Venti del secolo scorso? Certo, ci sono le migliaia di volontari della Caritas e di altre organizzazioni benefiche. Tanti italiani si rimboccano le maniche, si prodigano e si commuovono alla vista dei disperati che cercano rifugio in Italia. Ma gli indifferenti sono tanti, troppi. È la crisi che ha indurito il cuore degli italiani? No, è il benessere che ci ha resi egoisti. Rispetto ai tempi di mia nonna abbiamo molto di più eppure siamo disposti a dare molto di meno.  Diciamo che non possiamo permetterci di aiutare gli stranieri, e poi sprechiamo ogni anno tonnellate di cibo senza battere ciglio; ci arrabbiamo se i profughi rifiutano un piatto di pasta e osano pretendere un vitto diverso (cosa dovremmo dar loro, il rancio con un tozzo di pane secco?) e poi stiamo a nostro agio in una società iper-consumista, traboccante di beni superflui, che ci invita ogni giorno a sprecare e a buttare via.

    Diciamola, una verità scomoda: non è vero che non potremmo accogliere più profughi. È che non vogliamo farlo. Ecco perché la destra leghista e xenofoba è riuscita a scatenare una guerra fra poveri: i disoccupati e i bisognosi italiani contro i profughi e gli immigrati. I veri miserabili sono coloro che si accaniscono contro gli stranieri, i diversi per raccattare un pugno di voti. Ignobile il titolo di Libero del 27 agosto 2015. “Ai clandestini i soldi dei disabili”. Dove eravate, cari leghisti, quando per decenni di vita repubblicana impiegati, docenti, operai con i loro magri salari finanziavano le scuole e gli ospedali ai grandi evasori fiscali, tutti italianissimi? C’è una sola grande, vera ingiustizia  sociale nell’Italia d’oggi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E voi che fate? Ve la prendete con i reietti, con gli ultimi, con i diseredati.

    Intendiamoci: non sono un sostenitore dell’etica del Buon Samaritano a oltranza. Quando la coperta è corta, e tutti vogliono tirarla dalla loro parte, bisogna fare scelte dolorose. Comprendo l’amarezza e la delusione del disoccupato italiano che si sente trascurato dal proprio Stato. Agli italiani onesti, in regola col fisco, va riconosciuto un diritto di priorità nell’assistenza sociale. Mi pare sacrosanto. Non possiamo mica accogliere tutti: i migranti economici (quelli in cerca di lavoro) e i clandestini senza fissa dimora non hanno il diritto di rimanere in Italia a spese nostre. Ma nei confronti dei profughi e dei rifugiati politici abbiamo un obbligo morale di assistenza.  Dal mio popolo mi aspetto molto di più. Voi che temete un’invasione barbarica pensate – almeno per un istante – alle sofferenze dei poveri disgraziati che fuggono dalle dittature, dalle violenze. Non vi chiedo di tornare indietro con la memoria a cent’anni e più fa, quando erano i vostri nonni e bisnonni a emigrare con le valigie di cartone.  A voi, che siete orgogliosi delle radici cristiane dell’Europa, a voi che inorridite al pensiero che il canto del Muezzin rimpiazzi il suono delle campane, chiedo uno sforzo mentale in più. Vi chiedo di dedicare un momento di riflessione ai tanti profughi senza nome e senza tomba, affogati in mare.

 

lunedì 7 settembre 2015

Revisione costituzionale del Senato - Alcune gravi criticità

di Felice Besostri

Una revisione costituzionale ampia, come quella di cui si discute, fatta da un Parlamento, la cui composizione è stata dichiarata incostituzionale, avrebbe dovuto richiedere un confronto ampio per trovare un consenso almeno superiore ai 2/3. Non per evitare il referendum confermativo, poiché una delle norme da cambiare era proprio quella che lo escludeva in presenza di questo quorum. Il Patto del Nazareno non bastava. In ogni caso è nella discussione pubblica che si assumono gli impegni e non in segrete stanze senza un testo scritto da mostrare urbi et orbi.

Ora i nodi stanno giungendo al pettine e chi vuole la riforma ad ogni costo non può, per ragioni di dignità politica propria, contare su profughi o transfughi allo scopo di ottenere una risicata maggioranza. L'accordo sul superamento del bicameralismo paritario è vasto e quindi la "revisione", non chiamiamola riforma per rispetto di questa parola, avrebbe potuto procedere spedita.

Sulla linearità e trasparenza del processo di revisione costituzionale e della parallela nuova legge elettorale avrebbero dovuto vigilare il Presidente della Repubblica e la Presidenza delle due Camere. Così non è stato. Anzi si sono commessi strappi regolamentari che configurano in quest'ambito un modo di procedere, comunque, politicamente sbagliato.

Ora siamo in zona Cesarini e le posizioni appaiono chiare, nel senso che le decisioni sono politiche e non di natura regolamentare. Ciò si dà grazie anche a un illustre precedente, relativo ad una norma costituzionale delicata come l'art. 68; questo precedente risale al 1993 quando la Camera era presieduta da Giorgio Napolitano e il Senato da Giovanni Spadolini.

Nel quadro attuale alcuni problemi appaiono difficili, ma non impossibili da eliminare come lo squilibrio numerico tra Camera e Senato (630 vs 100), che non sarebbe ovviato neppure con un'elezione diretta della seconda Camera. Quello che non va è l'ambiguità senza precedenti della natura del Senato, inammissibile in un paese che storicamente proprio in un Senato, quello romano, ha avuto un organo collegiale di esercizio e controllo del potere.

Così come configurato, il Senato non è l'espressione tipica degli Stati federali, né nella forma dell'elezione diretta in numero uguale da parte della popolazione dei soggetti federati (Stati Uniti, Confederazione Elvetica), né di rappresentanza degli esecutivi dei soggetti federati (Bundesrat tedesco), men che meno un corpo legislativo rappresentativo del sistema delle autonomie (Senato francese). Il Senato francese è eletto indirettamente da una platea vasta di amministratori locali, dipartimentali e regionali, nonché dai deputati: 150.000 grandi elettori e non un migliaio di consiglieri regionali che si nominano tra di loro in un collegio ristretto. Altra caratteristica del Senato francese è che i 321 senatori sono eletti per 6 anni, mentre i 577 deputati per cinque. Un organo stabile e quindi autorevole e non l'albergo a ore del futuro Senato italiano. Altra anomalia: per il nostro art. 114 Cost. sono parti costitutive della Repubblica, oltre che lo Stato, i comuni, le provincie, le città metropolitane e le Regioni, quest'ultime senza essere gerarchicamente sovraordinate alle altre. Non si comprende per quale ragione i consiglieri regionali debbano scegliere i sindaci e non quest'ultimi i consiglieri regionali da mandare in Senato; i sindaci sono sicuramente più rappresentativi.

Nell'ottica di un Senato delle autonomie, nessuno è stato in grado di spiegare per quale ragione gli unici soggetti esclusi a priori saranno i sindaci metropolitani che si facessero eleggere direttamente dai cittadini. Non è un caso che nell'ultima tornata amministrativa dei consiglieri regionali si siano fatti eleggere sindaci di comuni sotto i 5.000 e perciò compatibili. Il primo cittadino di Milano non potrebbe andare in Senato nemmeno un giorno alla settimana, diversamente da quello di un comune minore. Tuttavia questi sindaci di comuni minori non potrebbero assumere funzioni di rilievo in Senato, inibiti da una norma che demanda al futuro Regolamento di stabilire incompatibilità con incarichi esecutivi di Comuni e Regioni.

Ci si dimentica inoltre, che i consiglieri regionali sono e saranno eletti con leggi maggioritarie con premi di maggioranza che variano da un 55% ad un 61% e con soglie di acceso che raggiungono anche il 10%. Non rappresentano quindi la popolazione della loro regione né i Governi regionali, perché tra i Senatori hanno diritto di entrare, non è chiaro se in proporzione ai voti o ai seggi, anche consiglieri di minoranza. Conseguenza prevedibile: in tale contesto non potrà essere abolita la Conferenza Stato- Regioni.

Quindi, prima di pasticciare l'elezione del futuro Senato occorre chiarirsi sulla natura e funzione della seconda Camera.

La proposta di un listino di consiglieri da far votate dagli elettori, anche se non bloccato, non è una mediazione seria: una pezza (tacòn) peggio del buso.

Comunque, va colto un elemento positivo: la generale presa di coscienza che il ddl costituzionale va cambiato.

Le sinagoghe europee contro l’indifferenza

Da moked/מוקד - il portale dell'ebraismo italiano -

Di fronte al marchio impresso in territorio europeo a decine di profughi che cercano di mettersi in salvo dalla realtà in fiamme dei loro luoghi d'origine non basta lo sdegno, serve una reazione forte e unitaria. Lo ha affermato il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna commentando le notizie provenienti dalla Repubblica Ceca e annunciando l'intento di sollecitare un'ampia mobilitazione della società civile proprio in occasione della Giornata europea della cultura ebraica che si svolge questa domenica 6 settembre.

Il tradizionale appuntamento in cui le sinagoghe e le istituzioni ebraiche aprono le porte a tutta la cittadinanza non a caso pone quest'anno al centro dell'attenzione la necessità di costruire i ponti del dialogo e della solidarietà e di abbattere i muri dell'isolamento e della discriminazione.

"I segnali registrati in queste drammatiche ore che ci arrivano dalla Repubblica Ceca – commenta il presidente UCEI – dove decine di profughi sono stati letteralmente marchiati come fossero bestiame al macello, richiamando inevitabilmente il periodo più oscuro della storia contemporanea, sono soltanto l'ultimo di una serie di inquietanti accadimenti contro i quali ferma deve sentirsi la voce di tutte le società civili e progredite. È un fatto gravissimo quello che si registra in queste ore. Come gravissima è l'immagine di un'Europa che appare sempre più fragile e incapace di affrontare le sfide che la investono". "Serve una reazione forte e unitaria - aggiunge Gattegna - ed è necessario che le realtà ebraiche mettano a disposizione di tutti la loro esperienza di amore per la convivenza e per la diversità, di tutela identitaria, di rigoroso rispetto per i diritti civili e le esigenze dei più deboli. Perché il nostro futuro, il futuro dei valori in cui crediamo e in cui ci riconosciamo, mai come adesso è posto a rischio".

"La Storia – conclude Gattegna - ci ha insegnato che l'indifferenza non è una scelta accettabile".

Sullo stesso argomento da registrare anche una presa di posizione della Presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello: "Le informazioni che arrivano dal confine tra l'Austria e la Repubblica Ceca – afferma - sono inaccettabili. Gli agenti stanno segnando con un numero sul braccio tutti i rifugiati. È un'immagine che non possiamo sopportare, che riporta alla mente le procedure d'ingresso ai campi di sterminio nazisti, quando milioni di uomini, donne e bambini venivano marchiati con un numero, come animali, per poi essere mandati a morire. Dopo 70 anni da quell'orrore non possiamo restare indifferenti di fronte a una procedura disumana e chi rimarrà in silenzio rischierà di essere complice di questi fatti. È ora che l'Europa capisca che il fenomeno dell'immigrazione, seppur complesso, non può essere affrontato con metodi repressivi e offensivi della dignità umana. L'accoglienza prima e l'integrazione dopo sono le politiche su cui i governi devono lavorare. Se continueremo ad assistere indifferenti a scene come quelle di oggi allora l'anima dell'Europa nata dalle ceneri di Auschwitz sarà svuotata di ogni suo valore fondamentale".

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