La sensazione sarebbe che, al di là delle parole, la rassegnazione abbia preso il sopravvento. Ma in politica non è mai detto.
di Paolo Bagnoli
Partiamo dal gesto di Berlusconi di votare la fiducia al governo Letta dopo le bellicose dichiarazioni dei giorni passati e la riconferma del "no" all'apertura della seduta senatoriale. Per quanto ci si possa almanaccare sopra per darle un senso compiuto, a noi è parso il colpo di teatro di chi, nonostante stia affogando, si sente furbo e sfida il mare. Insomma: "Carta vince, carta perde", come si usa dire in certi banchetti per scommettitori di strada. Già, ma mentre il gioco delle tre carte è fatto da imbroglioni per gli ingenui, qui è in ballo il Paese, il governo, la credibilità della Repubblica.
Con il suo gesto simil-futurista, Berlusconi non ha certo rafforzato il governo provocando invece non pochi problemi al Pd, problemi che si faranno sentire sull'esecutivo, considerato che, non essendo maturata la rottura del Pdl, ora non si capisce bene che identità vi esprimano i ministri in disaccordo con il padre-padrone. Forse, l'identità di belusconiani in disaccordo con Berlusconi… Lui stesso però, al di là delle sue vicende personali, rimane a capo dell'azienda-partito. Può il PdL farsi rappresentare nel governo da persone in rotta con il capo? Tutto è possibile, ma la cosa specifica sembra un po' difficile. Dunque, paradossalmente, una fiducia così non rafforza Letta.
Berlusconi ha giocato una tragica, beffarda e non dignitosa furbizia. Comportandosi come ha fatto ha dimostrato, ancora una volta, di rappresentare un lusso che ci è già costato troppo caro. Ma continuerà a costare, anche se il cavaliere non sarà più parlamentare: tra qualche mese potremmo ritrovarcelo nel Parlamento europeo se, per esempio, la battaglia radicale per l'amnistia avrà esito positivo.
Come andrà a finire l'attuale vicenda italiana è difficile a dirsi. Certo, il Paese è stretto in una crisi complessiva. E questa si compone di tutte le concause che vediamo emergere al momento. Esse altro non sono se non il punto di attestamento attuale della crisi ventennale della Repubblica.
Silvio Berlusconi non governerà più. Ma ciò non significa né la fine del berlusconismo inteso quale versione di destra della politica italiana né, tantomeno, la fine della destra quale blocco di interessi sociali-economici e di visioni culturali.
Di ciò che viene impropriamente chiamata "la sinistra" bisogna dire che, nel suo essere storico e politico, non esiste. E men che meno esiste una sinistra nel cosiddetto centro-sinistra – considerato il fallimento del Pd, chiuso in un bizantinismo interno di cui è praticamente impossibile spiegare il canone.
Il cosiddetto centro-sinistra, ossia il Pd più Sel, si è politicamente dissolto subito dopo le elezioni e oggi, mentre l'idea della destra è immediatamente percettibile, quella del potenziale schieramento alternativo fa l'effetto di un organo nel quale ogni canna suoni il suo spartito. Il grande clamore generato dalla questione Renzi è solo il controcanto di un dramma del quale nessuno pare avere colto il portato sistemico.
Dopodiché, certo, il presente in politica va governato. E però, il realismo ha un senso non in quanto fine a se stesso, ma come attuazione di una consapevolezza che non può né prescindere dal passato né evitare la prefigurazione di un possibile futuro.
La definizione che Enrico Letta ha dato del suo gabinetto ("governo del fare") attesta il vuoto in cui la Repubblica sta sprofondando.
Da tale punto di vista la rinnovata fiducia non cambia nulla.
L'improvvisazione e la mancanza, tanto di responsabilità quanto del senso storico che dovrebbe competere a chi ha le redini della politica, il chiudere gli occhi di fronte alle storture costituzionali e il rappresentare un'Italia che è talmente tanto un'altra Italia da non essere se stessa, tutto ciò ha prodotto i risultati dell'oggi.
Le astuzie "realistiche" messe autorevolmente in campo sono state solo una corsa sul posto. Non hanno portato da nessuna parte. E la situazione, a tutti i livelli, si è talmente incartata che nessuno sa come uscirne. Nessuno pare più in grado di spendere uno spicciolo di autorevolezza per cercare di evitare il deragliamento finale.
Basta la paura dello spread e quello della reazione all'invasività dell'Europa per ridare impulso a una minima funzionalità del Paese? Queste sono tutte, caso mai, conseguenze e non stimoli della coesione e della ricomposizione.
Non funziona nemmeno la democrazia commissaria che la rielezione di Giorgio Napolitano sembrava aver certificato.
E che amarezza, poi, quell'assurda proposta che il Parlamento si rivolgesse alla Corte Costituzionale per sapere se era conforme alla Carta una legge da esso emanata…
Qui anche i commenti negativi sono difficili.
Al di là di Berlusconi che, frutto del danno, ci ha messo del suo, la decadenza di un parlamentare è prerogativa esclusiva, in quanto titolo proprio, del Parlamento stesso. O il Parlamento potrebbe essere esecutore di una decisione presa da altro organo?! Stato di diritto, adieu. Qui nemmeno il rovescio è limpido.
Chissà cosa ci s'inventerà adesso?
La sensazione è che, al di là delle parole, oramai la rassegnazione abbia preso il sopravvento interiore. In politica, tuttavia, non è mai detto. E dunque: speriamo. In fondo, non costa niente.