giovedì 18 aprile 2019

Qualche riflessione per cercare di uscire dalla crisi

L’economia è l’ambito dove si misurano le capacità di una classe dirigente di guidare un paese verso la ricchezza collettiva e verso la realizzazione compiuta dello stato sociale.

di Ennio Ghiandelli

Quando si parla di economia italiana non bisogna mai dimenticare alcuni dati fisici che sono una nostra caratteristica: scarsità di ricchezze naturali, soprattutto per quanto riguarda i minerali e i prodotti energetici; agricoltura che non brilla per efficienza anche per la tipologia del territorio; densità elevata della popolazione, nonostante il calo demografico di questi anni; orografia complessa che rende difficili le comunicazioni fra le diverse aeree del paese.

    Nonostante questi deficit l’Italia, nel secondo dopoguerra, affidandosi alla capacità manifatturiera delle sue maestranze alla sua classe dirigente sia politica che industriale, e ai rapporti esistenti fra industria pubblica e privata, riesce a portarsi nei primi posti mondiali in alcune industrie chiave: dall’industria informatica, a quella aeronautica, all’elettronica di consumo, alla chimica, all’auto e alle produzioni High-tech.

    Pian piano questo patrimonio si è dissolto, gli errori compiuti nella politica economica dall’inizio degli anni Novanta ad oggi stanno dando i loro frutti resi ancora più velenosi dall’insipienza dell’attuale governo.

    L’Italia soffre di una crisi di produttività, cioè il costo per un’unità di prodotto aumenta rispetto agli altri paesi. Questo fatto rende impossibile, senza interventi appropriati qualsiasi ipotesi di recupero. La possibilità che si divenga una colonia di qualche altra nazione, soprattutto se questa ci finanzia il disavanzo acquistando i titoli del debito pubblico, è reale. Siamo un paese dove, ai tempi della globalizzazione, il tessuto produttivo è costituito per la gran parte da piccole e medie industrie. Eccelliamo nella produzione di marmo, di minerali abrasivi, nella produzione di olio di oliva, vino e filati di lana, molto poco per un sistema produttivo globale dove l’innovazione è l’elemento trainante.

    Si è svenduto il patrimonio industriale dello stato, in nome di un liberismo che non è mai esistito; gli industriali, che pure nel corso di questi anni hanno ricevuto utili rilevanti, hanno preferito investire i profitti in operazioni finanziarie, all’apparenza, molto più redditizie che in investimenti industriali.

    La politica oltre che per le ragioni prima ricordate ha anche la responsabilità di aver fatto invecchiare in maniera significativa il patrimonio infrastrutturale nazionale e mai ha sviluppato politiche atte a mettere mettere in sicurezza un territorio fragile come il nostro, anzi la speculazione edilizia supportata da continue sanatorie ha aggravato il problema.

    Tutto questo avvenuto è con una rapida concentrazione di ricchezza in poche mani e con un’erosione dello stato sociale che ha portato ad un impoverimento delle classi meno abbienti. Tutte le politiche sociali che il primo centro sinistra aveva realizzato sono state o abolite o devitalizzate.

    A questo stato di cose si aggiunge una politica fiscale che ha punito i lavoratori a reddito fisso, rendendo possibile una continua evasione fiscale, senza avviare una seria attività dello Stato per contrastarla efficacemente producendo una elevata pressione fiscale

    In questo quadro si presenta drammatico lo stato del disavanzo pubblico, drammatico non solo perché non si vedono politiche per abbatterlo, anche se la spesa corrente italiana al netto degli interessi del debito è da anni inferiore alle entrate, ma per l’assenza di una politica economica capace di attivare un credibile percorso di recupero della produttività del sistema Italia.

    Sovente nel corso del dibattito in questo anno di governo giallo verde si sente imputare, da esponenti della maggioranza, che la colpa di questo stato di cose è da ascriversi al fatto che con l’adozione dell’euro l’Italia non è in grado di gestire una propria economia, quindi occorre uscire dalla moneta europea e poco male se ci cacciano anche dai trattati. Errore tragico.

    A questo stato di cose si può e si deve reagire. La prima cosa immediata da fare è recuperare gettito fiscale, non aumentando le tasse a che già le paga, ma colpendo senza pietà gli elusori e gli evasori. Questo comporta immediatamente un riequilibrio del bilancio. Ciò ci consente, da un lato di allentare la presa sugli interessi che l’Italia paga sul debito pubblico, dall’altro di fermare il saccheggio del welfare. Da queste basi ripartire con una politica di investimenti pubblici sia sulle infrastrutture che sull’aumento della produttività (R&S) sostituendo il privato assenteista. Fissati questi capisaldi si deve procedere ad una più equa distribuzione del reddito.

 

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

 

 


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I DUE CONTRATTI

L’Italia del tempo presente è il risultato di quanto è stata la Seconda repubblica. La somma di tanti addendi del processo decoattivo della politica democratica in moto nel nostro Paese. Un populismo sovranista e un demagogismo governista che vengono da lontano e che si originano, sia nella prima fase che in quella attuale, da un medesimo fattore costitutivo: il contratto. Ovvero, un patto tra due populismi: uno confuso e infantile, un altro cinico e d’ordine.

di Paolo Bagnoli

L’ideatore del metodo fu Silvio Berlusconi il quale, in diretta dallo studio di Bruno Vespa, firmò un contratto con gli italiani contenente quanto avrebbe realizzato se il suo partito fosse andato al governo. Si trattò di una trovata pubblicitaria assai efficace. Nella mentalità ‘sagraiola’ del nostro popolo, sempre voglioso di seguire un domatore di circo, il contratto fece presa. Con quell’ atto, che evoca un qualcosa di vincolante, Berlusconi inaugurò la stagione del populismo; il valore della relazione diretta che si instaurava tra lui e il popolo. Se non ce l’avesse fatta non sarebbe stato per colpa sua, ma perché ci sarebbero state forze mobilitate contro il popolo, tanto che, a giustificazione di ciò che non riusciva a fare – e nel quale invero non credeva nemmeno lui – tirò fuori la categoria di coloro che remavano contro. Intendiamoci, remavano sì contro di lui, ma ben più che a lui andavano contro a quel popolo che a lui si era stretto in un contratto che lui aveva solennemente firmato dal notaio Vespa.

    Il governo gialloverde – ma oramai bisogna dire verdegiallo – si basa su un sempre strombazzato “contratto di governo” firmato, questa volta, dai leader delle due formazioni e affidato per la realizzazione al presidente del consiglio. Ossia, a una personalità politicamente nulla; un grillino che fa finta di essere in sonno e che tira avanti spargendo verità lunari con dichiarazioni di irreale comicità quale quella che quest’anno sarebbe stato “bellissimo”. Alleluja! Balliamo gioiosi sull’orlo del tracollo economico spacciando politiche di assistenza per chi si considera senza speranza come interventi destinati a produrre lavoro e un futuro migliore. Non solo, ma se volessimo abbozzare un bilancio sulla situazione in cui si trova oggi l’Italia - un Paese fragile che dovrebbe temere l’isolamento - vediamo come essa si trovi, invece, nella più completa solitudine. Sul Tav siamo sconfessati da Macron; sull’operazione Cina siamo isolati dall’asse franco-tedesco; la Casa Bianca ci guarda torto per la faccenda degli F35 e per il Venezuela; sulla Libia non abbiamo portato a casa niente considerato che, oramai, il generale Haftar sta arrivando a Tripoli. Tutto ciò va a carico di Conte, pomposamente definitosi “avvocato del popolo”, in quanto presidente di un “governo del popolo”.

    A nostro avviso la formula del “contratto” –ossia di un patto governista in cui ognuno fa di banda all’altro nel perseguimento del proprio interesse – è la logica conseguenza del percorso improprio con il quale si è arrivati a questo governo. Intendiamoci: è nella pienezza della legittimità democratica che due forze facciano maggioranza e diano vita ad un governo se hanno i numero in Parlamento; un governo che si basi su una maggioranza politica, però, che elabora una comune visione delle cose da fare, non su un “contratto” che, invece, di una visione ne garantisce due. Insomma, è tutto un pasticcio e in democrazia, prima o poi, i pasticci si pagano. Assai caramente.

    Rispetto al populismo sovrandemagogico di oggi, quello di Berlusconi fa quasi tenerezza, tanto appare furbescamente arretrato, mentre l’attuale è assai sofisticato come ci dice la sapiente regia comunicativa che lo amministra. Tra i due contratti si seppellisce la Prima e la Seconda repubblica. Quanto c’è di mezzo tra il cavaliere e i dioscuri sono state solo corse sul posto. In Italia, paese dei furbi per definizione, il populismo si lega al “contratto”; furbo il primo, furbissimo il secondo. Alla fine, però, la realtà incalza e, a un anno dal voto, siamo ad una crisi acutissima, piena di conseguenze rischiose. Siamo già al compimento del ruolo propulsivo della bugia elevata ad arte di governo.

    È proprio vero che, alla fine, tutte le volpi finiscono in pellicceria: una constatazione non certo consolatoria.

 

La Rivoluzione Democratica

 

 

 


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giovedì 28 marzo 2019

LA BISCONDOLA NON MOLLARE

 Ci vuole ben altro per fare un partito

La vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie e la conseguente proclamazione a segretario del Pd sembra aver rimesso in circolazione il sangue del partito. In giro, il nuovo segretario riscuote buoni apprezzamenti. Crediamo gli giovi molto l’aria bonaria e il ragionamento pacato; che, insomma, riesca a trasmettere affidabilità e fiducia. La ripresa dei sondaggi, se pure a piccoli passi per volta, indica verso il Pd una nuova attenzione dopo le catastrofi elettorali lasciategli in eredità dal renzismo.

 

di Paolo Bagnoli 

 

È troppo presto per poter dire se la tendenza si rafforzerà e in che misura; certo, va dato atto a Zingaretti di aver acceso una nuova fiducia. Le elezioni europee diranno come si stanno mettendo le cose. I problemi che il neosegretario si trova davanti sono molti e di non piccola difficoltà. Il primo, e più rilevante di tutti, è riuscire a fare del Pd un partito. Finalmente poiché, fino ad oggi, il soggetto voluto dal duo Veltroni- Prodi e innestato da Parisi sulle primarie non solo non lo è stato, ma ha dimostrato di non poter mai esserlo. Le ragioni sono molteplici. Quella che svetta su tutte è costituita dall’assenza di una cultura politica vera che ne segnasse la cifra identitaria, di peso storico e ideologico; in altri termini, non è mai stato sufficientemente chiaro cosa socialmente il Pd volesse rappresentare e di quale idea dell’Italia fosse il portatore.

    È un mistero; chissà se è custodito gelosamente nella tenda di Prodi? Una soffocante vocazione governista lo ha sempre condizionato, ma, essendo nato in un clima bipolare sembrava fosse sufficiente essere il polo alternativo del berlusconismo per conferirgli delle ragioni solide di fondo. Il partito si risolveva, cioè, nell’opposizione a Berlusconi; nell’impedire che il governo del Paese andasse a Forza Italia. Un’ingenuità clamorosa poiché un partito giustificantesi su una prevalente – e nello specifico assorbente – finalità di governo non può nascere e, soprattutto, non si radica risultando solo il prodotto di una situazione.

    Tuttavia, come si dovrebbe sapere, le situazioni cambiano e per

assolvere alla funzione che ci si è dati, occorre solidità culturale, tramatura relazionale nella socialità del territorio, capacità espressiva, pensieri collettivi. Annodare se stessi intorno al solipsismo demiurgico di un leader non porta a niente. I fatti lo hanno ampiamente detto; più che confermato. Non solo, ma si è quasi creata la paura dell’influenza negativa della leadership. Basti pensare che, nel caso delle elezioni regionali di Abruzzo e di Sardegna, sia Legnini che Zedda non hanno voluto nessuno che venisse da Roma ad affiancarne lo sforzo. Un qualcosa di mai visto sotto nessun cielo politico.  Se questo è il primo urgentissimo e preminente problema, l’altro non è di minore rilevanza: dare al partito una linea politica.

    Oggi essa è condensata nel centro-sinistra, ma cosa voglia dire non si capisce. Sembra più il retaggio di un passato nel quale centro-destra e centro-sinistra si sfidavano che non un progetto di proposta, tenuta e mobilitazione, capace di coniugare istanze politiche, sociali ed economiche in un disegno vero. Al contrario, esso appare come il riproporsi di un’alleanza esclusivamente contro e, quindi, ancora un qualcosa di governista. Ma poi, da chi dovrebbe essere formato tale blocco? Dove sono le potenziali forze per formare un’alleanza? Non si vedono perché non ci sono.

    Se la fragilità del Pd, in un sistema politico bipolare, veniva occultata dal potere coalizionale che il partito aveva, in uno proporzionale le cose stanno molto, ma molto diversamente. Al massimo il Pd riesce a stringere a sé singole personalità – Calenda, Pisapia, forse Cacciari – ma quando ha provato a fare un’alleanza con + Europa ha raccolto un secco no. Inoltre, ci sarebbe da chiedersi se +Europa possa annoverarsi in un campo, se pure largo, di centro-sinistra.  Infine, un’ultima osservazione. Ogni partito necessita di un gruppo dirigente che si matura nel progetto politico che esso elabora; ossia, dal partito medesimo poiché, da sempre, è il partito il luogo da dove si sviluppa il progetto politico. In tutti questi anni i dirigenti del Pd, quelli chiamati alle responsabilità di primo piano sono tutti esponenti delle istituzioni.

    Ora, poiché il lavoro politico è assai impegnativo, non si riesce a capire come si possa fare il presidente di Regione, il parlamentare europeo o nazionale, il sindaco e così via e riuscire ad avere le energie per doppiare il proprio impegno. Forse anche questo interrogativo è nascosto nella tenda di Romano Prodi.

 

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

 

 


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martedì 26 marzo 2019

Tra il serio e il faceto

di Andrea Ermano

 

Ci dicono dall’Unesco che oggi si celebra la Giornata mondiale della poesia. Sul sito dell’ONU (vai al sito) si legge una lirica di César Vallejo (1892-1938) che inizia così:

 

Tutte le mie ossa sono d'altri;

io forse le ho rubate!

 

Sul sito Le parole e le cose Vallejo viene descritto come “il poeta della povertà fino alla miseria… il poeta del poco e del nulla, che non basta, ma che deve essere fatto bastare, perché non c’è altro”. Un poeta chiaramente “di sinistra”.

      A proposito di poesia, Alberto Asor Rosa ricorda che nel suo libro Scrittori e popolo (1964) aveva “stroncato” i romanzi di Pier Paolo Pasolini. E Pasolini una volta a un convegno gli disse: «Sei quello che nella mia vita mi ha fatto più male». E figuriamoci se poteva essere quello il più grande dolore di un grande poeta. Sublime ironia chiaramente “di sinistra”.

    L’ultimo libro di Asor Rosa è dedicato a Machiavelli che tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento scrive pagine di ghiaccio bollente affinché gli “staterelli” si uniscano di fronte alla nuova costellazione geopolitica, che poi altro non è se non l’inizio della globalizzazione inaugurata con la scoperta dell’America.

    «L’Italia soggiace alla superiorità politica e militare delle grandi potenze europee. Le famiglie di Roma e Firenze, a cui Machiavelli si rivolge, potrebbero costituire embrionalmente lo Stato nazione», dice Asor Rosa in un’intervista a Luca Telese.

    Ovviamente, nessuno ascolta il Segretario fiorentino, sicché “i principi italiani vengono schiacciati dall’impero”, nota Asor Rosa ricordando che la sconfitta subita dal Bel Paese in quei trent’anni a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento è una “grande catastrofe”, una catastrofe politica “di lunga durata”, come scrive Machiavelli.

    «La storia italiana ha questo di bello: quando uno prende un qualsiasi avvenimento del passato, scopre che qualcosa di incredibilmente attuale emerge sempre», osserva Asor Rosa con un’allusione abbastanza trasparente alla situazione degli “staterelli” europei che si presentano divisi e frammentati all’alba di una nuova era.

    Oggi è giunto a Roma Xi Jinping, l’erede di Mao. E ieri in un ampio articolo apparso sul Corriere il leader cinese ha illustrato il punto di vista della grande potenza imperiale asiatica in tema di rapporti con l’Italia.

    «La Cina è disponibile per consolidare la comunicazione e la sinergia con l’Italia in seno alle Nazioni Unite, al G20, all’Asem e all’Organizzazione Mondiale del Commercio su tematiche come la governance globale, il mutamento climatico, la riforma dell’Onu e del Wto e altre questioni rilevanti, al fine di tutelare gli interessi comuni, promuovere il libero scambio e il multilateralismo e proteggere la pace e la stabilità mondiale e consentire uno sviluppo fiorente», scrive tra l’altro il Presidente della Repubblica popolare cinese.

    L’illustre ospite venuto da Pechino ribadisce più volte concetti come cooperazione, amicizia e progresso, accanto a un leitmotiv: la lunga esperienza storica delle nostre due civiltà cosmopolitiche. L’Italia è stata per ben tre volte una potenza mondiale, e sempre sotto il segno del pluralismo culturale. Xi Jinping ricorda due epoche egemoniche italiane: i tempi dell’Impero romano e quelli rinascimentali delle Repubbliche marinare. Sia detto quasi tra parentesi e con grande, laica pacatezza che ci sarebbe però anche un terzo impero mondiale storicamente domiciliato nel Bel Paese, quello che la rivista Limes ha definito “l’impero del papa”.

    Per parte sua la Cina è stata la maggiore potenza globale per la maggior parte dei secoli di cui si compone la storia umana, fino circa al Settecento. E oggi non fa molto per nascondere l’aspirazione a riprendersi quel ruolo.

    Che detta aspirazione egemonica rischi di condurre a una guerra fredda 2.0 con gli Stati Uniti è evidente. La Casa Bianca ha definito il protocollo d’intesa Roma-Pechino un «approccio da predatori, senza vantaggi per il popolo italiano». Già Obama aveva individuato nella nuova strategia cinese «una chiara sfida all’architettura nata nel 1944 a Bretton Woods per volere di Franklin Roosevelt», rimarca Federico Rampini sulla Repubblica di ieri. E si sa che quando gli americani si appellano ai valori rooseveltiani questo accade perché devono coalizzare gli alleati occidentali in clima appunto di guerra fredda.

    Dopodiché Rampini fa bene a ricordare che l’Italia quanto a cautela sulle tecnologie sensibili sembra dare ascolto ai moniti provenienti dagli USA, mentre altri paesi europei si mostrano ben più filo-cinesi di noi. D’altronde, la «disgregazione di ogni solidarietà occidentale è stata accelerata dallo stesso Trump, che con il suo approccio bilaterale al contenzioso commerciale Usa-Cina non ha mai tentato di cementare una coalizione d’interessi con gli alleati», ma è onesto riconoscere che «il fuggi fuggi in direzione di Pechino era già iniziato sotto Obama, quando i quattro maggiori paesi UE (Italia inclusa) decisero di aderire all’Aiib, la banca della Via della Seta». 

    È ovvio che siamo alle prime mosse di una partita decisiva in quest’epoca storicamente interessante.

    Un po’ di competizione va bene, tanto all’interno dell’Europa quanto nei riguardi degli alleati americani, ma anche ovviamente nei confronti degli interlocutori cinesi.

    I conflitti, invece, non sono nell’interesse di nessuno e soprattutto non nell’interesse dell’umanità, dato che occorre preservare tutti un alto grado di cooperazione sulla crisi ambientale e sulle altre emergenze globali di cui si sostanzia il tempo in cui viviamo, l’Antropocene, l’era geologica nella quale è alla stessa attività umana che si riconducono le cause delle grandi trasformazioni climatiche e tecno-scientifiche dalle quali dipenderà la nostra esistenza sul pianeta. E questa è la cosa “di sinistra” che volevamo dire nel contesto attuale.

    Per concludere tra il serio e il faceto cercheremo ora di capire se la Cina venga a trovarci con intenzioni più “di destra” o più “di sinistra”.

    Qui occorre il “sapere indiziario” di Carlo Ginzburg. E bisogna allora fare attenzione non alle dichiarazioni magniloquenti, ma a dettagli che possono parere insignificanti, occorre badare bene agli “indizi” appunto, come quando Xi Jinping, elogia il Made in Italy “sinonimo di prodotti di alta qualità” e poi aggiunge cripticamente che: «La pizza e il tiramisù piacciono ai giovani cinesi».

    Sembra niente. E anzi, dopo le tante belle parole su Virgilio e Pomponio e Marco Polo e Moravia, un esegeta superficiale potrebbe trovarsi un po’ spiazzato. Invece è proprio qui, nel rinvio alla “cultura materiale” della Pizza e del Tiramisù che a nostro parere si cela un messaggio in codice molto importante.

    La Pizza è facile.

    È napoletana. Napoli è amministrata da De Magistris. E De Magistris è uomo “di sinistra” (noi lo sappiamo bene perché quando è venuto a tenere una conferenza stampa nella nostra sede, il Coopi di Zurigo, ha voluto farsi un selfie di fronte allo storico ritratto di Carlo Marx).

    Ergo, nel riferimento alla Pizza non possiamo non leggere una chiara implicazione “di sinistra”.

    Più complessa l’esegesi del Tiramisù, a causa della paternità contesa di questo fantastico dolce fatto di mascarpone, savoiardi, amaretto, cacao e caffè.

    Con la massima imparzialità possibile noi dobbiamo domandarci se Xi Jinping si riferisca al Tiramisù quale fu legittimamente creato all’Albergo Roma di Tolmezzo, ridente città alpina guidata da un sindaco di centrosinistra, o non intenda accidentalmente quella sorta di maionese impazzita spacciata per Tiramisù a Treviso (città per altro assai cara a chi scrive benché attualmente governata da un sindaco di destra).

      Il dilemma potrebbe apparire insolubile. Ma… Ma nei giorni scorsi il leader della destra italiana Salvini non ha forse mostrato, costui, di gradire pochissimo la visita di Xi Jinping? Ed è sulla base di questo indizio che noi in fin dei conti propendiamo a favore della tesi secondo la quale il Tiramisù vada considerato un dessert di centrosinistra, anzi decisamente “di sinistra”.

 

 


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domenica 10 marzo 2019

TRE VOTI


Sono tre i voti che, nel giro di poco tempo, hanno segnato la 
vita del Movimento 5Stelle: due elettorali e uno parlamentare…
 
di Paolo Bagnoli

 

Sono tre i voti che, nel giro di poco tempo, hanno segnato la vita del Movimento 5Stelle: due elettorali e uno parlamentare. I primi due hanno caratteristiche di tendenza che riguardano il ritorno della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra, quasi il riaffacciarsi di un bipolarismo pallido. Peraltro, senza partita se si vedono i risultati del primo schieramento rispetto al secondo, ma comunque si può dire ciò considerato che i grillini transitano in terza fila sia in Abruzzo che in Sardegna. Solo nel Molise sono arrivati secondi: la classica rondine che non fa primavera. Quanto è successo in Sardegna, poi, ha del clamoroso essendosi assestati a un misero 9,7%: alle politiche avevano raccolto il 42%. E' il populismo; chi ci vive lucrando alla fine ci ruina. Per essere più immediati: chi di vaffa vince di vaffa perde. È una legge inesorabile e non essendo riusciti a imbastire un ragionamento di un qualche costrutto per spiegare l'accaduto, chissà se i "governanti del popolo", ora che il popolo continua a voltare loro le spalle, non decideranno di mettere ai voti, naturalmente su Rousseau, la proposta di cambiare il popolo! Oppure, se ragionassero sull'amato schema "costi-benefici" potrebbero, una volta tanto essere sinceri, e ammettere che per l'amato popolo loro cominciano a essere più un costo che un beneficio. 
    In Sardegna nemmeno alla Lega, nonostante le violazioni di Salvini pro domo sua durante il silenzio elettorale, è andata come il signore delle felpe avrebbe voluto. Il centro-destra, però, ha vinto e, quindi, tutto bene madama la marchesa anche se, votazione dopo votazione, il problema Forza Italia si impone. Infatti, pur non brillando, il partito di Arcore sul piano elettorale, lo schieramento senza di esso non ce la fa. Le risposte smargiasse di Salvini sono solo ad uso della comunicazione – come, per altro, tutto il suo agire - ma, come dimostra la vicenda 5Stelle, il popolo populista che lo vota non sta ad aspettare a lungo e, quanto che sta succedendo ai grillini, può benissimo capitare anche alla Lega con buona pace di tutte le baracconate del suo leader. E' possibile non vedere quanto emerge dalle urne? In Sicilia, nel novembre 2017, vince Nello Musumeci con il 40%; in Lombardia, nel marzo 2018, vince Attilio Fontana con il 49%; in Molise, nell'aprile 2018, vince Donato Toma con il 43%; pochi giorni dopo, in Friuli, vince Massimiliano Fedriga con il 57%; in Abruzzo, nel febbraio 2019, vince Marco Marsilio con il 48%. Ora in Sardegna vince Christian Solinas con il 47,8%. Ogni vittoria del centro-destra è una sconfessione dell'alleanza con i 5Stelle; la richiesta di Berlusconi di prenderne atto non è campata in aria anche se, sicuramente, stando al governo con Di Maio, Salvini riscuote dei dividendi che con Berlusconi e Meloni difficilmente vedrebbe. Quanto, tuttavia, potrà resistere il signore delle felpe? E' stato osservato che in politica, spesso, come in "borsa", bisogna puntare sugli annunci; al momento delle notizie è troppo tardi. E' vero e tali annunci sono forti; se poi le elezioni in Piemonte e quelle europee confermassero ancora il trend, allora annuncio e notizia andrebbero a braccetto e Di Maio potrebbe portare Rousseau al tribunale fallimentare. 
    Del Pd c'è poco da dire. Oggi si può solo registrare che il malato non è morto; ma quando, come è avvenuto in Sardegna – ove con il 13,5% risulta il primo partito perdendo ben 29mila voti pari a quasi l'otto per cento - gli si chiede di non farsi vedere e quelli di Roma acconsentono a che ciò avvenga, come non pensare che nemmeno i romani credono in se stessi e in quanto stanno facendo, a partire da un improbabile congresso le cui fasi preparatorie sembrano foriere solo di irrisolutezza politica e di confusione?
    Infine. I grillini riescono a perdere anche quando vincono come è avvenuto nella Giunta del Senato che ha evitato in prima battuta – ancora manca l'Aula – a Salvini di andare sotto processo per il caso della Diciotti. Dopo essersi rappresentati come uomini puri e non timorosi della giustizia hanno impedito che un procedimento di giustizia, quello che riguarda Salvini appunto, si compiesse invocando un'inesistente ragione politica. Va detto, infatti, che la Diciotti era approdata al porto di Catania non per far sbarcare i migranti, bensì per fare rifornimento. Salvini, nella sua corsa folle verso il successo e tenere viva la paura verso i migranti, ha recitato lo spettacolo penoso e grave cui abbiamo assistito. E quando gli è stato contestato un reato se l'è letteralmente fatta sotto e invocato la solidarietà politica; cosa che Conte e Di Maio si sono precipitati a dare. Poi c'è stato Rousseau; ma chi in buona fede crede a quel risultato? Da tutta questa squallida vicenda se ne ricavano almeno tre cose: la prima, che Salvini recita sempre costi quel che costi indipendentemente da ciò che ne deriva al Paese; la seconda, che i parlamentari 5Stelle hanno diritto all'accompagnatore perché ritenuti incapaci di muoversi da soli; la terza, che più che a favore di Salvini i 5Stelle, a costo di perdere l'alone di purezza che si erano attribuiti, hanno votato per salvare Di Maio.
    Ci sembra che tra Rousseau che vota e il voto del popolo non ci sia connessione alcuna. Tre voti: il presidente Conte farebbe bene a riporre in un cassetto il contratto e, già che c'è, a gettare anche la chiave.