giovedì 2 ottobre 2014

I turbamenti del giovane Renzi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

 Comincia a farsi dura per il governo Renzi. In pochi mesi ci sono i primi segnali di inversione di tendenza dei livelli di consenso che ne avevano accompagnato la ‘scesa in campo’ a spese di Bersani e Letta e che avevano trovato vistoso riscontro elettorale alle Europee.

 

di Fabio Vander

 

I fatti, si sa, hanno la testa dura e il governo in carica comincia a sbattervi la propria di testa.

   Problemi politici e di merito. Riguardanti soprattutto il senso e la tenuta del maggiore partito della maggioranza, ma poi anche il rapporto con i sindacati e con il mondo imprenditoriale. Inaspettate sono poi arrivate le critiche da parte della Chiesa cattolica, mentre ereditato da Berlusconi è rimasto il conflitto ormai ‘classico’ con la magistratura.

    Quanto alla considerazione della classe politica italiana all’estero, è rimasta allo stesso (infimo) livello dei tempi di Berlusconi.

    Troppe cose insieme per fare finta di niente. Non è questione di “vecchia guardia”, ma di inequivoci segnali che vengono da settori decisivi della classe dirigente. L’opinione pubblica seguirà.

    L’epicentro della crisi è come al solito il PD. Perse infatti anche le elezioni del 2013, la classe dirigente ex-comunista ha visto svanire ogni residua credibilità. La “rottamazione” è parsa a quel punto inevitabile, anzi tardiva. L’exploit di Renzi si spiega e giustifica così.

    Ma anche per lui è giunta presto la prova dei fatti. Dopo pochi mesi di governo viene chiesto conto. E qui è appunto difficile prendersela genericamente con i “conservatori” politici e sindacali.

    L’attacco di De Bortoli sul “Corriere” del 24 settembre è stato un fatto inusitato per violenza e nettezza. Scalfari su “Repubblica” del 28 settembre si è detto d’accordo con De Bortoli nella condanna di Renzi e del suo governo, definito “frutto di tempi bui”. Renzi è riuscito a ricompattare “Repubblica” e “Corriere”, gruppo De Benedetti e RCS. Anche qui qualcosa di mai visto.

    Nel merito della questione dell’articolo 18, sollevata pretestuosamente da Renzi in chiave anti-sindacale e anti-popolare (“i padroni hanno diritto a licenziare”, è arrivato a dire), Scalfari ha opposto: “penso che bisognerebbe conservarlo, l’art. 18, così inteso e riconoscerlo anche ai lavoratori impiegati in aziende con meno di 15 dipendenti”. Sembra di leggere Landini o Ferrero e invece è Scalfari.

    A difesa del premier c’è rimasta la poco convinta voce di Squinzi, quella interessata di Marchionne e quella tutt’altro che credibile di Alan Friedman. Il giornalista americano sul “Corriere” del 29 settembre prima ha criticato le “mezze misure” a difesa dell’articolo 18, definendole “gattopardesche”, poi però ha auspicato l’estensione del “patto del Nazareno” fra Renzi e Berlusconi anche alle materie economiche. Dunque convergenza tra destra e sinistra su un programma di governo (non più solo sulle ‘riforme’ costituzionali), che “non ha alternativa”. Gattopardismo transatlantico.

    Tornando alle cose serie: la situazione è grave. A questo punto non solo per il governo, ma per il Paese.

    Questo autunno sarà decisivo. Denso di nuvole e pericoli. Politici e economici, certo, ma non solo. Se De Bortoli denuncia lo “stantio odore di massoneria” sollevato dal “patto del Nazareno” (e dai suoi risvolti toscani) e se l’ex-Presidente dell’Antimafia Lumia sul “Corriere” del 28 settembre (...molti allarmi promanano dal “Corriere” di questi tempi) ci avverte delle “verità terribili” che si annunciano sui rapporti Stato-mafia, allora c’è da stare ben desti.

    Bisogna porsi l’obiettivo di un superamento in positivo dell’attuale quadro politico. Sapendo che l’alternativa a Renzi qui è ora non c’è e che il semplice malessere o la recriminazione non bastano, occorre un progetto politico, che non si improvvisa, ma al quale bisogna mettere mano da subito. Perché certo non si può stare ad aspettare il ventilato governo Visco di ‘salvezza nazionale’ (né quello autoprodotto di Della Valle). Non serve un nuovo Monti, un nuovo Letta e men che meno una emanazione diretta della Troika.

    Lavorare a una via d’uscita di sinistra. Comunque democratica. Alcuni punti fermi: pare evidente che l’alternativa a Renzi non può venire dal PD ovvero dalla sua ‘sinistra’. Questa, si diceva, è il problema, non la soluzione.

    Il resto della sinistra? La condizione di SEL resta comatosa dopo la scissione che ha portato fuori Migliore e gli altri. Si contrappongono una linea che punta ancora sulla Lista Tsipras e una che parla di “ricostruzione di una soggettività di sinistra con ambizione di governo”. Che però a ben vedere è la stessa linea dei fuoriusciti di Migliore. Il dibattito è stantio e soprattutto l’azione politica è ferma. In un recente documento di SEL si ammette che la “proposta politica è incerta”, il partito ha un’identità “liquida e impercettibile” ed è “piantato sulle gambe”. Anche qui però non ci si può aspettare che Vendola porti oltre una crisi di cui è in primis responsabile.

    La domanda è quella di sempre: che fare? Anche la risposta è stata però più volte formulata: promuovere la costituente di un nuovo partito della sinistra. Qualcosa sembra muoversi. Quest’estate Alberto Asor Rosa e Piero Bevilacqua sono stati espliciti sul punto. La novità è che anche Scalfari ha iniziato a parlarne. Su “Repubblica” del 14 settembre, prese le distanze dal PD di Renzi, ha scritto: “torniamo ad un partito politico” e addirittura ad un partito con una precisa identità, con una sua “ideologia”, perché altrimenti c’è solo “un’esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza passato né futuro”.

    Dunque: partito, ideologia, recupero del “passato”, senso del “futuro”.

    Che anche settori non della sinistra tradizionale e storica avvertano il problema, dà il senso della portata della crisi. Il rischio dell’eterodirezione c’è, ma se ancora esiste una classe dirigente di sinistra, è con queste sfide che deve cimentarsi, recuperando il senso e la responsabilità di una missione nazionale.