martedì 11 aprile 2017

Freschi di stampa, 1917-2017 (5) - Gli eventi di Russia e l'entrata in guerra Usa

Neanche in quell'inizio dell'aprile 1917 Vladimir Il'ič Ul'janov incrociò gl'inservienti del locale dadaista, il Cabaret Voltaire, a una cinquantina di metri dalla sua casa di esule rivoluzionario. Nelle notti insonni li sentiva ogni tanto, Tristan Tzara e i suoi, declamare onomatopee a mi­traglia nelle loro tipiche risate. Ma lui poi, la mat­tina dopo, di­scen­deva disciplinatamente la Spiegelgasse dall'altra parte. E si recava al suo posto di combattimento, la biblioteca centrale di Zurigo, dove entrava ad apertura di cancello.

Zurigo Spiegelgasse, le finestre

dell'appartamento degli Uljanov

Trenta passi fino all'odierna Kantorei. Poi il “Vicolo dei Giudei”, l'odierna Froschaugasse, ed era già praticamente arrivato. Chissà se sapeva che da quelle parti c'era stata un'importante sinagoga medie­vale. Nel Trecento il rabbino Moses ben Menachem vi aveva composto il Semak Zurighese, un celebre commento ai Co­mandamenti, tuttora in uso nelle scuole di Talmud. Era stata, quella, un'epoca di alta fioritura per la locale comunità ebraica, prima di venire esiliata durante le per­secuzioni del 1348. Molti israeliti furono allora uccisi, e tra essi lo stesso rabbi Moses insieme ai suoi allievi in uno dei massacri sca­te­na­tisi con la peste del 1348-1349 e la psicosi antisemita conseguitane.

    Non sembri una divagazione. Per comprendere la Grande Peste del Novecento occorre tener fermo che la manzoniana "caccia all'untore" ha radici profonde nella psicologia delle masse. Perché storicamente le pestilenze tendono sì a provocare ondate di follia omicida, ma queste “crisi sacrificali” possono generarsi anche indipendentemente da esse. René Girard ritiene che la parola “peste” sia stata utilizzata da alcuni antichi cronisti anche per designare certi inquietanti fenomeni di al­lu­cinazione omicida di massa, slegati da qualsivoglia innesco epidemico.

    Ma torniamo al 1917. Un oceano di peste e pazzia circonda ormai da tre anni “la piccola isola di pace svizzera”, scrive Zweig nel suo rac­con­to su Lenin, "questo ometto tarchiato… inappariscente che più non si può". Stefan Zweig è un umanista viennese profondamente lega­to al “mondo di prima”. Detesta il pandaemonium della guerra. Per questo celebra la partenza di Vladimir Il'ič come quella di un rivolu­zionario portatore di pace che, alla fine dei conti, metterà la borghesia guer­ra­fondaia dinanzi al bivio: o la pace kantiana, o la rivoluzione mon­diale.

    Il Lenin che nell'aprile 1917 arriva al suo appuntamento con la sto­ria, al suo “momento fatale”, è un signore schivo e disciplinato, "evita la società, raramente i suoi vicini hanno modo di incrociare lo sguardo acuminato degli occhi scuri a mandorla, raramente arrivano da lui dei visitatori. E invece lui, regolarmente, giorno dopo giorno, (…) se ne sta in biblioteca fino alla chiusura di mezzodì. Esattamente alle dodici e die­ci è di nuovo a casa; e di nuovo ne esce all'una meno dieci per esse­re il primo a rientrare in biblioteca e starsene lì fino alle sei di sera".

    Alcuni tra i più celebri “testi sacri” del leninismo – come ad esempio L'imperialismo, fase suprema del capitalismo – nascono in quei mesi di “guerra alla guerra” combattuta allo scrittoio della Zentralbibliothek. Né le polizie segrete mostrano di sapere che "pericolosissimi tra tutti, per ogni rivoluzionamento del mondo, sono sempre gli uomini solitari, che molto leggono e molto imparano", osserva Zweig.

    E così, ogni mattina di giorno feriale fino a quel mercoledì 4 aprile 1917, Lenin si imbuca nella Froschaugasse per sbucare, poi, dall'altra parte, sulla piazza antistante alla Biblioteca Centrale proprio mentre il campanile della Predigerkirche sta per battere i nove tocchi.

    Ma ora tutto questo appartiene al passato. Perché ormai lo stato za­rista "è stato". E poi Alexander Parvus ha già segnalato agli utili idioti del social­-sciovinismo tedesco che l'uomo più idoneo a de­sta­bilizzare il governo provvisorio formatosi a San Pietroburgo è il suo fido compa­gno di lotta Vladimir Il'ič Ul'janov detto Lenin, esule a Zurigo.

    Ah, se solo potesse rientrare in Russia, egli certo lavorerebbe più a­la­cremente di chiunque altro ad affossare l'esecutivo borghese guidato dal principe L'vov, facendo leva su tre idee forza: Pace subito, Con­fisca delle terre, Tutto il potere ai soviet.

    Secondo il calcolo strategico della cancelleria berlinese, questo Le­nin precipiterà la Russia in una guerra civile senza ritorno, chiu­de­ndo così, di fatto, la partita sul fronte orientale. E gli eserciti dei due Kaiser avranno allora buon gioco a concentrarsi nelle operazioni belliche a ovest e a sud.

    Ma quel 4 di aprile del 1917 – mentre all'ambasciata di Germania in Berna arriva una lista con le condizioni sulla cui base Lenin ac­cet­te­rebbe di farsi trasferire in treno verso i patrii confini – in quelle stesse ore a Washington il presidente Thomas Woodrow Wilson trasmette al Congresso la risoluzione per l'entrata americana nella guerra europea. E due giorni dopo gli Stati Uniti dichiarano, in effetti, lo stato di bel­ligeranza verso la Germania.

    È il 6 aprile 1917, venerdì santo. L'intervento americano in Europa si preannuncia d'impatto enorme. Ma non potrà dispiegarsi con effetto immediato. Occorre un anno almeno affinché tre milioni di soldati a stelle e strisce possano essere addestrati e trasferiti via nave in Francia con adeguato seguito di salmerie.

Sulla scelta bellica degli Stati Uniti s'impernia la titolazione dell'ADL di sabato 7 aprile 1917 (v. foto qui sopra): La borghesia verso l'abis­so. Il delirio del folle massacro invade il nuovo mondo, apre la prima.

    E ancora: L'ultima “americanata” è il titolo dell'editoriale, che pro­segue così: «L'ultimo atto “americano” chiude la serie dei trapassi fan­tasmagorici con cui Wilson... ha cambiato l'acqua in vino... arte bor­ghe­se dell'interesse che guida, calpestando principi ed umanità, le azio­ni del Governo e degli uomini rappresentativi della società borghese... In quanto la pace conveniva alla borghesia americana, Wilson si tra­sfor­mava banditore di “pace”. In quanto, venendo a mancare, per vo­lon­tà altrui, gli elementi indispensabili per rendere alla borghesia ame­ricana proficua la pace, venivano ad affermarsi proficue le ragioni della “guerra”... “Pace” e “guerra” sono dunque sinonimi... L'affermazione è vera se la si considera dal punto di vista dell'interesse borghese. Non pensiamo più ai milioni di cadaveri ed alle ricchezze distrutte, alle la­grime ed al sangue, alla fame ed allo sterminio. Pensiamo solo al gioco degli interessi» (ADL 7.4.1917).

    Pace e Guerra. Guerra e Rivoluzione. I nostri predecessori di allora oscillano tra delusione ed esaltazione: per il "voltafaccia guerrafon­daio" di Wilson e, rispettivamente, per gli eventi rivoluzionari in Russia: «Sul fuoco della guerra si getta una nuova catasta di com­bustibile. Un popolo di 100 milioni d'abitanti [gli USA, ndr] entra nel recinto ove il fuoco divora... Così vuole la borghesia... Guerra e Ri­vo­luzione. Più grande la guerra? (...) la guerra sia uccisa. E la Rivo­lu­zione sia vitto­riosa. E vi sia una sola fiamma a illuminare il mondo. La fiamma della vita è della libertà» (ADL 7.4.1917).

    Morale della favola: a Berlino non c'è più tempo da perdere. Le feste pasquali vengono impiegate nei febbrili preparativi del gran viaggio leniniano. Wilhelm Jansson, un sindaca­li­sta mezzo tedesco e mezzo svedese, insieme ad Arwed von der Planitz, capitano della cavalleria di riserva, è incaricato di riportare a casa l'in­ternazionalista russo.

    Sui binari della stazione di Zurigo viene predisposto un convoglio ferroviario atto ad attraversare il territorio del Reich. È il famoso treno piombato, ma “piombato” solo di nome, per mere ragioni politico-di­plo­matiche, date le ostilità in cui restano reciprocamente coinvolte la Germania e la Russia.

    Lunedì di Pasquetta, 9 aprile 1917: una trentina di persone si reca nella sala riunioni al primo piano del Cooperativo di Zurigo Militär­stras­se, a un centinaio di metri dai vagoni. Il fidatissimo compagno Pietro Bianchi, “muratore e sindacalizzato”, fa da cameriere a Lenin e al suo seguito, diaframmandoli dal mondo esterno.

    Dentro quella sala, insieme al capo bolscevico, tra una scodella di minestrone e i famosi tortellini, si apprestano alla traversata delle Ger­ma­nie: la moglie, Nadežda Krupskaja, e poi Broński con la figlia Wan­da, ma ci sono anche Kharitonov, Radek, Sarra Rawicz, Safarov, Zi­nov'ev e Sokol'nikov. Di lì a pochi anni, dopo la morte di Vladimir Il'ič avvenuta nel 1924, tutti costoro saranno uccisi o internati in Si­be­ria su ordine di Stalin, eccezion fatta per la Krupskaja e Wanda Brońska.

    Sempre su ordine di Stalin il corpo di Vladimir Il'ič verrà imbal­sa­mato, contro la protesta della Krupskaja, ed esposto al pubblico sulla Piazza Rossa. Il cervello, suddiviso in circa trentuno mila sezionature da venti micrometri ciascuna, servirà alla scienza medico-biologica affinché essa indaghi “la base materiale di un genio immortale”, recita il comunicato del Partito comunista russo.

    Di leader bolscevico Albert Einstein dirà: "Non considero i suoi metodi da pra­ti­carsi, ma… rendo onore a Lenin come uomo che ha interamente sa­crificato sé stesso e dedicato tutte le proprie energie alla realiz­za­zione della giustizia sociale.". – (5 – continua)


Nell’anno delle due rivoluzioni russe l'ADL di allora poté “coprirle” entrambe con materiale di prima mano. Ciò grazie soprattutto ad An­ge­li­ca Bala­banoff, fautrice de­gli stretti legami tra i so­cia­listi ita­liani e russi impe­gna­ti, insieme al PS svizzero, nella gran­de campagna di “guerra alla guerra”. Campagna lanciata con la Con­fe­renza di Zimmerwald. E culminata nella Rivoluzione d'Ottobre.