Le idee
Impegnarsi nella costruzione di una trama global-local omogenea tra soluzioni che valgono per il proprio piccolo mondo, e la partecipazione a quello che accade nello spazio planetario. Di seguito riportiamo ampi stralci della relazione tenuta dal professor Papi al seminario "Perché e come essere socialisti nel XXI secolo", promossa dal Circolo La Riforma di Milano il 15 novembre scorso.
di Fulvio Papi *)
La mia tesi è che senza l'elaborazione di una cultura socialista, anzi di una “visione del mondo” socialista, diventa molto difficoltoso avere una propria linea politica coerente, identificabile, durevole nel tempo. Tuttavia una cultura socialista può essere un desiderio o una nostalgia, ma in concreto deve ricostruirsi nella realtà del mondo attuale, in una scena mondiale che lascia al passato gli equilibri politici e il corso economico degli ultimi venticinque anni.
Probabilmente una valutazione approfondita degli effetti della crisi finanziaria a livello economico non è veramente possibile poiché nessuno conosce analiticamente le interdipendenze che esistono nel sistema economico mondiale e nelle sue ramificazioni locali. Gli interventi degli stati sono stati progettati al livello di conoscenza del macrosistema finanziario immaginando di poter assestare il mercato mondiale al livello che avrebbe dovuto avere senza l'infezione di una finanza che mirava alla moltiplicazione del profitto nel più breve tempo possibile. Va detto anche che il capitale finanziario ha avuto la sua importanza nel decollo economico di intere aree mondiali con gli squilibri ben noti per cui i paesi poveri si sono ulteriormente impoveriti. In ogni caso oggi a fronte del disastro è emersa la parola “regole” che va colta in tutti i significati che può avere.
Al livello del discorso che possiamo fare si possono indicare alcuni elementi importanti. La crisi ha mostrato che l'assoluta libertà di mercato, come processo autoregolato, è una ideologia aggressiva e totalitaria. A livello finanziario l'interpretazione di questa norma ha condotto a risultati disastrosi. Tuttavia i manager cui una cultura puritana attribuisce oggi la “colpa” non si sentono poi tanto in colpa, poiché suppongono di aver agito tecnicamente all'interno di una ideologia sostenuta per un ventennio a livello mondiale: la cultura neoliberista che ha caratterizzato la finanza ma anche la cosiddetta economia reale, tutt'altro che indenne da guasti considerevoli a livello planetario. Senza cercare decine di esempi basti pensare ai disastri ambientali che ha provocato l’insediamento di molte multinazionali con l'aiuto di governi locali o corrotti o sedotti dalla medesima ideologia e dai suoi effetti a breve termine.
Dalla crisi emerge a pieno l'importanza decisiva delle decisioni politiche e dei luoghi istituzionali dove queste decisioni possono essere legittimamente prese. Ne consegue l'importanza del livello politico per regolare l'economia. Per la verità l'importanza della struttura politica nei confronti dell'economia si vede benissimo anche a rovescio. Pare almeno curioso che gli stati intervengano solo ora di fronte a una catastrofe e non prima cercando di evitarla con strumenti politici. Sono stati, primo fra tutti gli Usa, che hanno contribuito in modo decisivo a sostenere una ideologia neoliberista come nuova fase di democrazia e di ricchezza del mondo. Va detto che è del tutto omogenea la voluta cecità politica sulle forme estreme della finanza americana con l'apologia del modello politico e di vita sociale degli Stati Uniti da imporre al mondo e, infine, con il rifiuto del protocollo di Kyoto. La politica dello stato ha avuto un ruolo decisivo in queste direzioni, è stata teorizzata dai politologi prossimi al presidente, è stata rappresentata filosoficamente come fine della storia. Del resto non è mai esistita alcuna situazione di mercato che non fosse sostenuta dalla superiore potenza di uno Stato, basti pensare all'Inghilterra nell'’800. Sono considerazioni che portano lontano, ma qui a noi, come a tutti gli osservatori sensati, importa valutare l'importanza decisiva che assume l'antica struttura dello stato per regolare l'economia, quindi il fallimento storico del neoliberismo. A questa ovvietà aggiungo una previsione: non è difficile dire che vi sarà, o, meglio, vi dovrà essere un conflitto politico tra il tentativo di restaurare il mercato puro una volta superata la crisi e puniti i colpevoli, e uno sforzo di trasformazione (moralizzazione vuol dire trasformazione) del capitalismo mondiale, della sua ideologia diffusa a livello comune, dei suoi effetti sociali. Se ci sarà questo scontro politico e a quali risultati esso potrà portare, dipenderà non poco del nostro futuro.
In questa prospettiva emergono due considerazioni: una struttura statuale che è quasi solo il tramite legislativo delle esigenze di mercato e in questa prospettiva si deve leggere la teoria diffusissima della decadenza dello stato nell'economia contemporanea globalizzata. Teoria ora in ombra, ma tuttora esistente e forte in luoghi che contano, dove si sostiene che l'intervento dello stato è da limitare alle emergenze. Come dire assoluta libertà di mercato, teoria dell'autoregolazione; ma se nella realtà va male, allora le perdite non possono che essere sociali. O, al contrario, uno stato che non deve ignorare gli effetti potenzialmente negativi di un capitalismo che fa di se stesso una ideologia del bene. Anzi uno stato che interviene per favorire scelte e opzioni che, compatibili con il mercato che non può non esserci, poiché è la nostra storia obiettiva, indirizza a effetti positivi, per esempio la riduzione della povertà, l’andamento stesso dell'economia. Questo è un tradizionale tema politico socialista, la coesistenza sociale di mercato e politica, di economia e cultura, che in Italia ha avuto la sua stagione, e nei paesi del Nord Europa la migliore realizzazione con effetti molto positivi sull'economia di mercato, com’è sapere comune.
Naturalmente un progetto del genere a livello internazionale non esiste in un libro, o in alcuni libri, ma é possibile tramite un impegno politico che si sviluppi come cultura della società civile. E questo è un problema radicale e difficile che riguarda lo stato delle cose e, in subordine, la qualità dell'azione politica. Nel nostro mondo una cultura politica non può che essere “glocal”, cioè armonizzare le scelte politiche locali con una concezione globale dei problemi del mondo. Poiché se è vero che una crisi della borsa di New York ha che vedere con gli investimenti nell'agricoltura in Asia, è anche vero che il taglio delle foreste o una agricoltura irragionevolmente intensiva hanno a che vedere con il nostro sistema di vita e con la nostra salute. Punti di vista tutt'altro che parassitari.
Nella crisi attuale il commento spesso è stato: ritorno alle imprese e al lavoro. Vediamo il lavoro. La tradizione laica del movimento operaio ha sempre avuto il suo punto fondamentale nella concezione del valore-lavoro, sia nella tradizione socialdemocratica dove diventa il problema della giustizia, sia nella tradizione più rigorosamente marxista dove diventa il problema della storia. Questo significa che, come la merce nel lavoro trovava il suo valore, così la forza lavoro nella sua prestazione lavorativa e, in modo diretto, nella sua dimensione sociale, trovava la sua identità prevalente.
Oggi questo nucleo fondante non è così, sia per quanto riguarda l'identificazione comune nel lavoro, sia per quanto riguarda una linea di continuità tra l'identificazione collettiva nel lavoro con l'identificazione collettiva nel sociale. Quando si parlava di Stalingrado d’Italia si faceva proprio riferimento a una situazione del genere. Le ragioni di questa trasformazione sono molte, ed è difficile vederle tutte. Consideriamone alcune dalla parte della prestazione lavorativa. Anni fa era una moda intellettuale parlare di “lavoro immateriale”. E’ una semplificazione fuorviante della trasformazione del lavoro sociale. E’ una moda che ne fa una questione filosofica piuttosto che un'analisi sociale. Il modo di lavorare è profondamente mutato nel senso che, rispetto al passato, esige un livello di conoscenza che spesso va continuamente rinnovato. Questa situazione non può che favorire una interpretazione personale relativamente al rapporto con il proprio strumento di lavoro. Ma non solo le modalità del lavoro, in cui gli elementi di conoscenza hanno un effetto di individualizzazione della prestazione lavorativa, ma anche l’instabilità del lavoro determina un prevalente timore di discontinuità dell'occupazione che, anch'essa, accentua necessariamente l'individualizzazione. Il caso del precariato è il caso perfetto di questa situazione che è la dimensione collettiva di condizioni che non possono che essere vissute individualmente. L'invenzione di strategie lavorative per facilitare l'occupazione ha necessariamente conseguenze nel modo di vivere l'occupazione stessa.
Ci sono sociologi che immaginano il lavoratore come un imprenditore della propria capacità lavorativa. La conoscenza tecnologica, l'abilità, la disponibilità di tempo toglierebbero al lavoro la condizione di merce. Sono “io” che contratto la mia prestazione. E’ una visione che trasforma nel linguaggio una condizione sociale, una necessità in una possibilità. Ma cambiare il modo di dire, non cambia la forma sociale del rapporto di lavoro e gli effetti sul modo di vivere, sul sentirsi vivere. Anzi introduce una dimensione normativa nell'esistenza: o sei così o non sei all'altezza dei tempi e sarai punito.
Altro è dire che il lavoro, la forma del lavoro, il tempo del lavoro hanno perduto quello che un tempo era il loro valore simbolico, cioè la forza di identificazione sociale. Per fare un esempio: oggi sarebbe inimmaginabile il comportamento degli operai che, alla vigilia della insurrezione dell'aprile del ‘45, occuparono le fabbriche per impedirne la distruzione da parte dell'esercito tedesco. La fabbrica non veniva percepita solo come un mezzo di produzione la cui proprietà era estranea ai lavoratori, ma come il proprio luogo dove il lavoro comporta oltre al salario una identità personale e una dignità collettiva che si sarebbe ripetuta nel futuro. Oggi il luogo sociale del lavoro è un posto qualsiasi e il salario non identifica una figura sociale collettiva, ma un mezzo per raggiungere scopi indispensabili per le condizioni della propria vita, ma non costituisce di per se stesso una identità. Questo vuol dire che esistono certamente sei milioni di operai che però non sono una tendenziale identità sociale. La condizione materiale del lavoro non produce una “cultura”, e questo è un processo che dura da molti anni. Si sono formate altre identificazioni simboliche che hanno concorso a determinare il prevalente individualismo contemporaneo che è anche il modo per trovarsi in una relazione “realistica” con il mondo nel quale si è. E’ del tutto inutile, come talora fanno gli economisti di tradizione marxista, sostenere che, in ogni caso, si tratta di “lavoro vivo”. Questo è un modo di dire astratto, e nemmeno marxista se teniamo presente che Marx ha definitivamente insegnato che non è la coscienza a determinare l'essere sociale, ma l’essere sociale la coscienza.
E allora il problema è cercare di capire, almeno molto in generale, quali siano gli elementi sociali con cui il lavoro è in relazione e assume senso, e che hanno così una capacità identitaria rilevante. Con una sola proposizione si potrebbe dire che, sull'interpretazione della propria situazione lavorativa e sociale, intervengono elementi della dimensione virtuale da cui è condizionata l’esistenza collettiva. Tenendo presente che il “virtuale” è una forma di realtà, e nient’affatto una illusione. In breve: è un errore banale dire che non esistono più gli operai che, quanto al numero, sono all’incirca quelli di trent'anni fa. Non esiste invece la “classe operaia”, se alla parola si dà il significato storico-politico che è corretto e che appartiene a una congiuntura che non c'è più. E che nell'Occidente europeo non è mai esistita con il medesimo significato. Quanto alla dimensione virtuale che contribuisce in modo così rilevante alla formazione della figura sociale della nostra epoca considererò solo due elementi che sono pertinenti in questo discorso: la spettacolarizzazione dell'esistenza attraverso ogni forma di comunicazione come diffusione dell'immaginario che poi diviene la dimensione prevalente del proprio riconoscimento. E la comunicazione stessa come visione eternamente ripetitiva e, in questo modo, esterna alla propria esperienza: il mondo appare raramente come il mondo in cui io stesso sono. L'un caso come l'altro contribuiscono a costruire il perimetro individuale dell’io. Una sola verifica: la solidarietà sociale non è mai una condizione di vita, ma diviene una virtù o un dovere o uno spettacolo. Anni fa, rispetto a questo effetto sociale imputato alla frequenza della televisione nel tempo libero, si sosteneva che Internet potesse rappresentare una risorsa di libertà e di iniziativa individuale. In qualche caso lo è stato, ma se è vero che ogni mezzo, come ogni tecnologia, forma il suo utente, bisogna anche ricordare che i personaggi che frequentano Internet appartengono al medesimo clima sociale che ho ricordato.
Tant'è che è diventato un luogo comune sostenere che l'opinione pubblica, almeno nel senso di un controllo e di una valutazione dei fenomeni sociali e politici, pare molto poco reattiva. Facile, invece, a essere influenzata da immaginazioni politiche che offrano a ciascuno e a tutti - il famoso individualismo di massa - l'immaginazione di una migliore vita privata nel senso di una disponibilità anche di poco superiore di denaro. La demagogia è sempre demagogia, ma a livello del destinatario non è un inganno poiché aderisce al desiderio immaginario che è diffuso collettivamente. Questo processo si nomina comunemente come riduzione del cittadino al consumatore. E’ il modo di riferirsi al mondo che caratterizza una cultura che ha una sua omogeneità di superficie, del tutto nuova sia rispetto alla società etico-estetica dell'’800 borghese, sia alla società operaia del primo ‘900. E’ una osservazione tutt'altro che nuova, e risale alle prime analisi della società di massa non totalitarie.
Questo percorso conduce a dire che non esiste più alcuna aggregazione politica che nasca a livello della condizione sociale. E temo che anche il sicuro impoverimento della nostra società non abbia esiti politici univoci ed evidenti. Anzi. Esistono oggi culture, identificazioni del proprio desiderio sociale, appartenenze più o meno solide e più o meno durevoli. C'è un totalitarismo educativo nella vita sociale che, in varie guise, riflette l'ideologia dominante. Possiamo invece dire che esiste ancora una identità socialista che è storicamente sedimentata, ma vale più per gli echi del passato che non per il proposito del futuro. Anch'essa solo in alcuni casi è socialmente aggregata, in altri è vissuta come un patrimonio di intelligenza personale che, essendo una morale, dà necessariamente giudizi. Confronta la propria dimensione simbolica con il linguaggio e l'azione del sottosistema di riferimento e, in questo confronto, la rappresentatività può andare in crisi e al suo posto subentra la disillusione, l'amarezza e la sfiducia. Non bisogna sopravvalutare la trasmissione morale tra le generazioni che, nel nostro mondo, ha accorciato la durata. E nemmeno credere che possa esistere una generazione che spontaneamente si possa fare carico di una destinazione politica come quella socialista. Vi si oppone la stessa formazione della personalità che trova la propria “educazione” fondamentale nella condivisione dell'esperienza con i pari di età.
A questa mancanza di una qualsiasi relazione privilegiata tra vita sociale ed espressione politica c’è solo una risposta possibile, ed è la costruzione paziente, in un ambiente avverso o addirittura ostile, di una cultura politica che, rispetto allo stato del mondo, non può che essere anch'essa “glocal”. Capace cioè di costituire una trama omogenea tra le soluzioni che valgono per il proprio piccolo mondo, e la partecipazione etica ma anche politica, se organizzata a quello che accade nello spazio globale. Non è detto che riesca, ha una concorrenza notevole come il ritorno religioso, ma non esistono altre vie.
A livello locale esistono naturalmente molti problemi che la popolazione vive con maggiore o minore intensità. Ma non esiste alcun problema che non assuma una forma, e la forma che esso assume dipende dal modo in cui viene interpretato in una cultura. Per esempio trasformare giardini pubblici per fare garage sotterranei non è la soluzione urbana necessaria per il problema dei parcheggi, ma è la soluzione che appartiene a un modo di concepire la città, cioè appartiene a una cultura. A questo proposito occorre valutare anche il senso di alcune “competenze”, poiché spesso le competenze sono corrispondenti a problemi che hanno già assunto una forma di cultura che garantisca gli interessi economici più potenti. Spesso è il caso dell'architettura contemporanea che non ha una visione urbanistica, e in questo caso la competenza si declina con un’estetica astratta, come se il manufatto architettonico fosse una rappresentazione. Per parlare filosoficamente, si può dire che vi è competenza priva di pensiero. Una città pone problemi che possono essere affrontati da diversi punti di vista talora confliggenti tra loro, si tratta di vedere in quale quadro valutativo, in ordine al bene della città, si trovano posti. La qualità dell'urbanizzazione, la gestione del suolo pubblico, il policentrismo e la sua realizzazione, l'inquinamento della città, le necessità dei cittadini che si sono determinate con il tempo - e sono le più rilevanti -, la sicurezza nella vita economica e sociale, sono tutti temi che dovrebbero essere affrontati da una cultura e non solo da interventi occasionali. Solo la presenza attiva, visibile, quotidiana, può dar luogo a quell'educazione che seleziona i bisogni alla luce di un bene collettivo. Se non si tiene presente che, per quanto possibile, occorre tentare di far nascere la figura del cittadino contemporaneo, sarà quasi fatale che prevalga un’amministrazione che gestisce un compromesso tra “le mani sulla città”, la demagogia e una efficienza di facciata. So bene che non si tratta di provocare un evento, ma solo una direzione di cultura sociale, e questa direzione è immaginabile se il ceto politico trova la propria identità in una cultura che ritraduce la tradizione socialista. Si tratta anche di un processo di auto-educazione del ceto politico che possa trovare un equilibrio tra la propria identità, la gestione di un potere, la propria presenza nell'universo della comunicazione. Sarà proprio impossibile? E’ vero che la professionalizzazione della politica comporta l'adesione, conscia o inconscia, a un’altra cultura rispetto a quella della nostra tradizione?
Una cultura socialista, rispetto al cosmopolitismo illuminista, ha scoperto la dimensione internazionale. Anche se, alla prova storica, fallirà. Noi invece siamo obbligati a pensare la nostra identità socialista in una dimensione mondiale, anche se non abbiamo l'antico comune referente, la classe, ma dobbiamo pensarci attraverso diversità (i filosofi dicono differenze) di culture, di tradizioni religiose, di forme politiche. E’ un compito molto difficile poiché richiede molte più conoscenze e molte più iniziative di quanto non sia necessario per ribadire la nostra tradizione occidentale intorno ai “diritti umani” che, attraverso interpretazioni politiche riduttive e aggressive, può condurre anche a conflitti molto gravi. Molti sostengono che la crisi finanziaria è solo l'inizio di una crisi epocale che vede il declino dell'impero americano (Attali l'aveva detto prima) e apre nuovi equilibri nel mondo. Se le cose stanno così allora noi siamo ancora più obbligati a costruire una cultura socialista a livello mondiale. E’ la medesima cultura che transita dal locale al globale, naturalmente in modi completamente diversi. Nell'America Latina negli ultimi anni appare un decondizionamento nazionale molto sensibile rispetto all'area di dipendenza economica dagli Stati Uniti che è parallelo a una diffusione di prospettive socialiste, se pure diverse tra loro. La crisi degli Stati Uniti renderà più facile questo sviluppo e meno possibile interventi indiretti ma potenti come è accaduto nel Cile.
Il processo di globalizzazione, nei suoi aspetti positivi, viene misurato dallo sviluppo nei paesi asiatici, come l'India e la Cina, attraverso l'ascesa vertiginosa del PIL e dalla occidentalizzazione della vita sociale, anche con grande sviluppo nella ricerca. Ma si dice molto meno che la forma dello sviluppo ha creato situazioni sociali che, per quanto riguarda il lavoro maschile e femminile, ricordano aspetti della nostra rivoluzione industriale.
A livello mondiale sappiamo che l'agricoltura dei paesi poveri non riesce ad acquistare una sua espansione nel mercato a causa dei protezionismi garantiti alle agricolture dei paesi ricchi. L'immigrazione non è un problema da vernacolari ministri degli interni, ma è una questione epocale che si accentuerà e avrà a che vedere con gli equilibri demografici nelle varie parti del mondo. La scarsità d'acqua è a livello mondiale, e c’è un conflitto che si apre a proposito della sua privatizzazione come affare economico. Le mutazioni climatiche che alterano le stesse possibilità di vita delle specie, e anche delle società umane. Ma sono società che, pure nel possibile disastro, stentano molto a trovare una svolta adeguata dalle economie capitaliste. Le malattie che si diffondono senza una adeguata protezione medica e farmacologica. Noi, al di là del nostro spazio sociale, delle dispute quotidiane del sottosistema politico, al di là dell'irresponsabile potenziamento dell'interpretazione individualistica della vita, siamo in questo mondo. E lo saranno i nostri figli.
In questo mondo come eredi di una lunga e difficile storia, possiamo portare la nostra rielaborazione di una cultura socialista che si deve incontrare con altre culture e altre esperienze, con quelle prospettive cresciute culturalmente negli ultimi anni che amano dire: “un altro mondo è possibile”. Nel pensiero e nell'architettura ideale questo è vero. Ma la costruzione reale è un compito collettivo. Non credo ci si possa sottrarre rivendicando nel vuoto una identità socialista: ci si può ripete solo inglobando nel nostro costume i problemi di oggi, anche quando sembrano troppo grandi, se non per la conoscenza, certo per la nostra forza politica. Detto semplicemente, è questione della formazione di un ceto dirigente che, al contrario di una casta separata, immagini il proprio compito come immissione nel mondo di una propria cultura, di un proprio disegno del tempo avvenire. In altre situazioni storiche non fu diverso il compito dei socialisti europei. Certo, come si dice, un rapporto con il territorio, ma è possibile solo se si ha qualcosa da dire che non sia già stato detto, se si danno immagini e possibilità di vita. E’ un nuovo inizio, un investimento a lungo termine e richiede dedizione e grande impegno senza poter sapere prima se “il seme non muore”. Probabilmente direte “ma queste sono solo idee”. Ma che cosa vi aspettavate da un filosofo?
*) Fulvio Papi (Trieste, 1930), direttore dell'Avanti! nei primi ammi Sessanta, professore emerito di filosofia teoretica dell’Università di Pavia, è uno tra i maggiori filosofi italiani contemporanei. Erede della scuola di Milano, ne ha elaborato i criteri in modo originale e proprio. Ha pubblicato autorevoli testi di storia della filosofia, filosofia morale, estetica e politica: circa venticinque volumi, tra i quali Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno (Firenze, 1968), Utilità, oggetto e scrittura in Marx (Milano, 1983), Lezioni sulla Scienza della logica di Hegel (Milano, 1998). Attualmente ha in corso un’opera dal titolo Il lusso e la catastrofe. Nel 2000 è stato insignito dell'Ambrogino d'oro quale cittadino benemerito della Città di Milano.